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IL TUO GIUDIZIO SULLA RISORSA
Musica
Educazione linguistica Italiano
 Ecco le musiche di De Martino e Carpitella. In una pubblicazione curata da Maurizio Agamennone, il repertorio, in gran parte inedito, registrato sul campo nel '59 e nel '60
Lingua:
Italiana
Destinatari:
Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma
Tipologia:
Documentazione
Abstract: Ecco le musiche di De Martino e Carpitella
Nella pubblicazione curata da Maurizio Agamennone, il repertorio, in gran parte inedito, registrato sul campo nel '59 e nel '60
di Carla Petrachi - 12/08/2005 - da Paese Nuovo

Finalmente, è il caso di dire. Eccolo qui il corpus sonoro raccolto da Diego Carpitella ed Ernesto De Martino in Salento. Non solo durante la famosa estate del 1959. Quando la spedizione antropologica che poi dette vita a “La terra del rimorso” (li dove comunque un 45 giri accluso alla prima edizione per il tipi de Il Saggiatore già dava conto di parte del lavoro svolto) rimase in Salento dal 20 giugno al 10 luglio rintracciando quel che rimaneva di un universo mitico rituale complesso, disancorato, e soprattutto estremamente stratificato anche nelle varianti interne non solo musicali, forse soprattutto rituali. Ma anche successivamente, nel 1960, quando in Salento l’etnomusicologo Diego Carpitella ci torna da solo, raccoglie ulteriori materiali, anche video, durante una terapia domiciliare a Nardò, una “ricostruzione artificiale” a Muro leccese, e quindi dal 15 al 16 agosto quando a Torrepaduli, durante la festa notturna di San Rocco, documenta a microfono aperto lungamente la “fonosfera” della festa. Quei materiali sonori, registrati per conto del Centro nazionale di studi di musica popolare, oggi Archivi di Elnomusicologia, nelle due raccolte non. 48 e 53, e rimasti in gran parte inediti,oggi vedono dunque la luce per la prima volta grazie al lavoro di Maurizio Agamennone, allievo di Diego Carpitella (cura e testi critici), docente a di etnomusicologia a Firenze e a Lecce. E, come dice, Vincenzo Santoro, non pennette più alibi ai gnippi di riproposta, poiché finalmente impone (ma in fin dei conti anche il lavoro recentemente pubblicato di Alati Lomax, e i repeitori per le edizioni Aramiré) un tessuto sonoro, musicale, testuale, ben più imponente dei pochi brani fatti e rifatti in tutte le salse. E probabilmente apre un ulteriore versante di ricerca, legato non alla contaminazione (bruttissima parola che in parte riecheggia Chernobyl e in parte un lessico medico) ma agli intrecci concreti e reali con il bacino mediterraneo e forse anche mediorientale, che questo corpus testimonia. Nell’uso delle voci, nella monodia, nello stesso canto alla stisa, quello più frequente nella tradizione orale salentina, polivocale, e in parte anche degli strumenti.
Maurizio Agamennone, ovviamente non si lascia sfuggire la notazione polemica. Poiché questa pubblicazione per Squilibri, che vede la luce nel marzo 2005, era di fatto stata annunciata ben cinque anni fa, nel 2000, per l’Istituto Carpitella. E dunque lo studioso può facilimente dire,anche se en passant, “Evidentemente, non era un lavoro ritenuto necessario”.
Per poi passare, subito dopo alle chiavi di lettura, ben esemplificate peraltro nella corposa introduzione ai cd, corredata da una ampia bibliografia. “Si tratta”, dice Agamennone, “di una testimonianza di storia culturale.La maggior parte delle espressioni cantate e suonate documentate da questo volume e dai due cd allegati sono in gran parte estinte, non più praticate”. Dunque innanzitutto, documenti sonori, testimonianza di come “alcune comunità, in una società preindustriale, sostanzialmente agricola, organizzava la propria vita quotidiana, individuale, in famiglia, in grande gruppo, e in ambito comunitario più ampio”.
Su quanta differenza ci fosse poi tra musiche suonate per guarire, e musiche per il ballo, le registrazioni effettuate da De Martino e soprattutto da Carpitella sembrano gettare una luce precisa. “Tutto sommato”, dice Agamennone, “la mia sensazione è che le musiche della terapia e quelle della festa non fossero fondamentalmente diverse. Ma che fossero – questo emerge dai documenti etnografici, dalle registrazioni effettuate sul terreno, e vale in gran parte per tutto il Novecento, - sostanzialmente simili ma adattate alla circostanze. Attraverso l’azione dei musicisti e l’interazione che si realizzava tra musicisti e destinatari. Da una parte le persone sofferenti, dall’altra i giovani danzatori. Un aspetto interessante che dimostra come le cose siano cambiate nel tempo. Perché le testimonianze ottocentesche descrivono una musica della terapia molto connotata, specifica, che si immagina dunque diversa dalla musica della festa. Una questione teorica interpretativa molto interessante, che dimostra come le cose nel tempo cambino, e come anche società arcaiche, nirali, si trasformino. E mutino nel tempo”.
Musiche peraltro più numerose di quante ne vengano utilizzate oggi nella riproposta. Lo testimonia la sezione dei “trainieri”: “il loro repertorio intanto è diversissimo da come lo si ascolta oggi anche dalle icone viventi che lo cantano. Per la forza, l’esuberanza, la baldanza maschile delle voci. E’ difficile immaginarseli oggi. Cantavano perché cantando impegnavano lo spazio intorno a sé e rappresentavano la propria presenza nello spazio che attraversavano. Anche in maniera antagonistica agli altri trainieri. anche nel segnare la maggiore/minore potenza della voce, maggiore/minore capacità di canto”.
Aspetto individuale che ricorda come anche nelle società meno complesse la musica non sia riducibile al suono (“in questo caso la definizione del proprio ruolo, all’interno di un universo esclusivamente maschile e in una prospettiva di forte antagonismo, mediato solo dal confronto vocale”), e che a sua volta ne sollecita una’altra.
Quanto nelle società preindustriali, non mediatizzate, sia importante l’azione individuale.
Agamennone ha buon gioco, è sufficiente ascoltare i cd anche sola una volta, nel sottolineare “i monumenti di capacità esecutive”. Non esecutori anonimi, “ma competenze a disposizione di tutti, accessibili a tutti. Come suonasse il tamburello la mitica, è il caso di dirlo, za’Tora Marzo, non era accessibile a tutte le donne tamburelliste. Era una specificità sua. O di quell’altra tamburellista (ne sono censite quattro o cinque). Ed era una specificità individuale. Per cui è possibile formulare l’ipotesi interpretativa che anche nelle società tradizionali esistano i valori individuali, le specificità individuali. I folklori non sono espressioni anonime disponibili per tutti e agile da tutti, ma forme espressive che spesso traggono la loro vita dall’azione di alcune singole individualità. Diverse. Più talentuose di altre, più musicali di altre”.
Infine, in questa genealogia della memoria, anche una genealogia del pensiero della differenza. Non solo perché “alcune espressioni cantate illuminano su come le donne si riunissero tra loro e facessero alcune cose tra loro. Certi lavori, certi modi di stare tra donne, cantando e raccontandosi storie, che oggi non sono più praticati”.
Ma soprattutto per una sorta di sapere, propriamente femminile e custodito gelosamente, del sovrintendere alla nascita, al dolore, alla morte, all’elaborazione del lutto, al trattamento del dolore, alla terapia. Che suonare il tamburo fosse attributo delle donne, questo non solo si rileva in Ernesto De Martino,ma fa parte di un sapere sul campo tramandato oralmente. Che i più bravi suonatori di tamburo fossero donne, anche. Adesso questa pubblicazione apre uno squarcio sulla figura, eccezionale, della tamburellista Salvatora Marzo, presente in molto terapie coreutico musicali insieme a Stifani, vero ‘albero di canto’, la definisce Agamennone nell’introduzione, ‘sicura frequentatrice di repertori diversi’. E ancora, “nella terapia le tamburelliste si trovavano ad essere le signore del tempoe del ritmo: “le grandi signore del tamburello appaiono come coloro cui è affidato l’onere di condurre la danza della guarigione e celebrare la ritualità della morte”.
Poiché, ed il cd da questo punto di vista è materiale preziosissimo, le stesse tamburelliste “sono anche le stesse signore che piangevano i morti. Documentate anche come esecutrici di lamentazione. C’è un rapporto curioso, profondo, tra morte, elaborazione del lutto, trattamento del dolore, trattamento della sofferenza fisica, della malattia. Un filo che lega queste persone nella stessa azione salvifica di protezione, di sostegno e tutela”.
http://www.vincenzosantoro.it/news/dettagli.asp?ID=219
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