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La disfatta degli sciiti - Il futuro dell’Iraq dipende in gran parte dall’esito del faccia a faccia tra sciiti e sunniti. Gli uni e gli altri appartengono alla stessa società, condividono spesso gli stessi valori di origine beduina, ma, ancora oggi, sono i soli sunniti a detenere il potere, benché siano una minoranza.

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media inferiore, Formazione post diploma
Tipologia: Materiale di studio
Abstract: Il futuro dell’Iraq dipende in gran parte dall’esito del faccia a faccia tra sciiti e sunniti. Gli uni e gli altri appartengono alla stessa società, condividono spesso gli stessi valori di origine beduina, ma, ancora oggi, sono i soli sunniti a detenere il potere, benché siano una minoranza. Occorre fare un passo indietro per comprendere la genesi di quel che costituisce la specificità dell’identità irachena rispetto agli altri paesi arabi.

Fu in epoca ottomana, come si è detto, che molte tribù sunnite avevano adottato lo sciismo, e alcune di esse solo nel Diciannovesimo secolo. Gli sciiti dell’Iraq riconoscevano l’autorità, sia religiosa sia politica, dei grandi marja‘ delle città sante, allora nella stragrande maggioranza persiani. Ma questi marja‘ da parte loro non riconoscevano alcuna autorità al sultano-califfo di Istanbul, non vedendo in lui altro che un usurpatore. Per le tribù, gelose della loro indipendenza e ferocemente ostili al mondo cittadino dove avevano le loro sedi i rappresentanti del governo sunnita, le città sante costituivano l’unica apertura sul mondo esterno. All’inizio del Ventesimo secolo, Najaf, Karbala, Kazimayn e Samarra erano più che mai ritenute ostili dalle autorità ottomane, alle quali le tribù impedivano peraltro praticamente ogni controllo sulle campagne. Dal Diciannovesimo secolo, la marja‘iyya si proponeva sempre più come una direzione spirituale e politica. L’emergere di questa autorità interessava fedeli ben al di là delle frontiere dell’Iraq, e anche dell’Impero. Dalle città sante, i capi religiosi intendevano imporre ai re e ai sultani musulmani l’obbligo di combattere senza più indugi la crescente minaccia del colonialismo europeo. I grandi marja‘ si posero alla testa della lotta contro il dominio europeo, prima economico poi direttamente militare, e si trovarono così nella condizione di principale avversario dei britannici all’epoca dell’occupazione e in seguito del mandato. Le grandi tappe di questa lotta sono note: la jihad del 1914-16 in risposta allo sbarco delle truppe britanniche, l’insurrezione di Najaf nel 1918, la Rivoluzione del 1920 contro l’attribuzione del mandato alla Gran Bretagna e per l’indipendenza dell’Iraq, e infine il boicottaggio delle elezioni organizzato nel 1922-23.

Nel corso di tutti questi episodi i capi religiosi potevano contare su una base sociale il cui peso demografico era schiacciante: le tribù, si diceva, sono "l’esercito dei mujtahid". Più che un regime specifico, pur insistendo sul carattere costituzionale e sull’indipendenza del nuovo stato, i dirigenti sciiti sottolineavano una certa identità dell’Iraq basata tanto sull’Islam quanto sul sentimento patriottico arabo. La loro battaglia sfociò nel 1923 nell’esilio forzato delle più alte autorità religiose sciite. Cominciò allora per la marja‘iyya sciita una traversata del deserto che sarebbe durata sino alla fine della monarchia hashemita.

Con l’eccezione dell’ayatollah Mahdi al-Khalisi, la maggior parte degli ulema tornò in Iraq. Ma ormai erano costretti al silenzio, con la minaccia di un nuovo esilio. La sconfitta del movimento religioso fu la sconfitta di tutta una comunità. Fin dalla fondazione dello stato iracheno gli sciiti vengono esclusi dal governo, dalla carriera militare e in generale da ogni posizione di potere, come lo erano stati in epoca ottomana. Segnati da secoli di esclusione, avevano sviluppato una cultura grazie alla quale vedevano con sospetto tutto ciò che veniva dal governo, del quale perlopiù ricusavano la legittimità: fu quindi solo a partire dagli anni quaranta che cominciarono a frequentare in misura significativa le scuole governative. In compenso, si rintanavano nell’unico ambito in cui la loro attività non costituiva un problema, il commercio. Famiglie come gli Chalabi o i Kubba di Baghdad sono un esempio di questa attitudine agli affari. Quando negli anni quaranta gli ebrei, che a Baghdad formavano una comunità molto consistente dal punto di vista demografico ed economico, emigrarono in Israele, gli sciiti presero il loro posto, imponendosi ancora di più nel commercio. Gli sciiti avevano un altro campo prediletto: la scrittura. I poeti e i letterati iracheni erano allora in maggioranza sciiti. Ma questi sono gli unici ambiti in cui poterono manifestarsi, indubbiamente perché mettevano in risalto l’iniziativa privata. Di ventitré primi ministri succedutisi nella monarchia, solo quattro erano sciiti, e solo nel 1947 il primo tra questi poté accedere alla carica di capo del governo.

Ufficialmente i testi costituzionali votati nel 1924 non facevano alcuna distinzione tra i cittadini iracheni e sembravano considerare alla stessa stregua sunniti e sciiti. In realtà il codice della nazionalità irachena, adottato nel 1924, celava un’evidente discriminazione confessionale. Secondo questo codice, in pratica, solo gli iracheni che avevano goduto di nazionalità ottomana, o i cui genitori o nonni avevano avuto quella nazionalità, erano considerati cittadini iracheni a pieno titolo. Gli altri dovevano fare "domanda" di nazionalità irachena, e per farlo dovevano "dimostrare" la loro "irachenità", anche se le loro famiglie vivevano in Iraq da generazioni. Ora questa era la condizione della stragrande maggioranza degli sciiti: molti non avevano avuto la nazionalità ottomana, chi considerandola illegittima e chi, i più numerosi, in quanto appartenenti a un mondo rurale opposto a quello delle città e spesso del tutto ignari di cosa significasse una nazionalità. Altri infine avevano nazionalità persiana – o uno dei genitori o dei nonni era persiano – ed erano considerati di "ricongiungimento iraniano". Tra questi cittadini iracheni detti di "ricongiungimento iraniano", c’erano iracheni di origine persiana, religiosi o meno, che si erano insediati in Iraq, anche da secoli, ma anche arabi che non avevano altre radici che l’Iraq: religiosi e commercianti sciiti che avevano optato per la nazionalità persiana allo scopo di sottrarsi alla coscrizione ottomana, tribù di frontiera che vivevano a cavallo dei due territori.

Migliaia di famiglie di ricongiungimento iraniano dovettero intraprendere trafile inimmaginabili per dimostrare di essere effettivamente irachene. Muhammad al-Jawahiri (1899-1997), membro di una illustre famiglia di sayyid sciiti di Najaf e considerato il massimo poeta arabo dell’Iraq del Novecento, evoca il suo caso: "All’inizio del 1927, quando risiedevo a Najaf, mi arrivò una lettera che mi comunicava che non potevo presentare domanda di insegnamento in un liceo dell’Iraq perché non ero ‘iracheno’ [...]. E così, benché mio padre lo sceicco Ali, figlio dello sceicco Muhammad al-Jawahiri, autore del celebre trattato di teologia Al-Jawahir e grande religioso di Najaf, fosse discendente da sette generazioni dalla prima città santa dell’Iraq, mi si chiedeva di fare una richiesta per ottenere la cittadinanza irachena. Ho visitato la maggior parte dei paesi arabi e altri paesi in tutto il mondo, ma non ho mai trovato un simile scandalo, e cioè che dei cittadini possano diventare stranieri nel proprio paese".

Questa discriminazione creò delle situazioni aberranti, poiché un arabo non iracheno per il fatto di essere sunnita aveva più diritti di un arabo sciita insediato in Iraq da generazioni. Lo stesso Muhammad al-Jawahiri fu destituito dal suo posto di insegnante da Sati‘ al-Husri, principale teorico del nazionalismo arabo. Quest’ultimo, nato in Yemen, di nazionalità siriana, fu nominato direttore degli istituti di insegnamento superiore in Iraq nel 1928 e accusò al-Jawahiri di aver scritto un poema in onore dell’Iran: cosa che, già a quell’epoca, era considerata un "tradimento" dell’Iraq. La propaganda dello stato contro gli sciiti ricorse spesso all’accusa di shu‘ubiyya, termine che sotto il regno abbaside denunciava coloro che mettevano in discussione la supremazia degli arabi in terra d’Islam. Con questa accusa gli sciiti si vedevano contestare non solo la loro "irachenità", ma anche la loro "arabità".

Questa visione discriminatoria è sopravvissuta a tutte le rivoluzioni. È stato in suo nome che, dalla fine degli anni sessanta, il regime di Saddam Hussein ha attaccato gli iracheni "di ricongiungimento iraniano" e li ha costretti all’esilio quando non li ha sottoposti alla deportazione di massa. All’indomani della Seconda guerra del Golfo, Saddam Hussein accusava ancora gli arabi sciiti delle paludi, che si erano sollevati contro il regime, di non essere né "autentici" iracheni né "veri arabi".


http://www.feltrinelli.it/sito/SchedaTesti?id_testo=1116&id_speclibro=1008


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