Intervento
di:
Anna Maria Passaseo
Da
quando mi interesso di Intercultura, in particolare di Pedagogia Interculturale,
ho viaggiato molto incontrando persone di varie nazionalità e culture.
Un aspetto che mi incuriosisce molto è infatti quello della comunicazione
interculturale: sono convinta che il raggiungimento di una competenza
comunicativa consenta di realizzare la dimensione relazionale, intorno
a cui ruota tutta la riflessione sull'Intercultura.
Pensando, però, alle dinamiche comunicative che si instaurano, ad esempio,
tra immigrati adulti e autoctoni in un paese ospite, non si può non
riconoscere che questa comunicazione è prettamente strumentale e si
realizza in una condizione di disparità: la disparità che vede lo straniero,
con il suo forte background culturale, adattarsi alla nuova lingua,
alla nuova cultura, per ragioni essenzialmente di efficienza pratica,
come trovare un lavoro, una casa, rispondere ai bisogni del vivere quotidiano.
Che cosa rende possibile il passaggio da una comunicazione efficiente
ad una comunicazione efficace? Io
ho individuato la fase del processo nella riflessione sui processi di
traduzione.
La traduzione interviene nel particolare processo comunicativo del racconto
di sé, che rappresenta un livello molto profondo di comunicazione, perché
va oltre il semplice scambio di informazioni, funzionali al soddisfacimento
di bisogni specifici, esprimendo invece la disponibilità ad un'apertura
e, al tempo stesso, ad un'accoglienza nei confronti dell'altro, finalizzate
alla costruzione di relazioni significative. Tramite la traduzione,
lo straniero può "trasferire" un proprio mondo interiore, che rispecchia
la sua cultura, nel nuovo codice linguistico appreso e comunicarlo al
suo interlocutore. Ciò è possibile grazie anche alla collaborazione
dell'interlocutore stesso, nella forma di una disponibilità ad ascoltare
e ad avvicinarsi alla cultura dello straniero. Ma, per far questo, dobbiamo
uscire da una logica tradizionale di traduzione, una logica che Lawrence
Venuti, uno dei massimi esperti di traduzione, definisce "addomesticazione".
Perché quello che facciamo, in genere, è livellare, adattare ciò che
è straniero alle nostre parole, ai nostri concetti, secondo una logica
di uguaglianza, in modo da rendere "domestico" ciò che non lo è.
Come si
possono far equivalere realtà, sentimenti, valori, tradizioni, modi
di dire, che non trovano una corrispondenza nella nostra cultura e che
sono, pertanto, intraducibili? Come si può trovare l'equivalente italiano
del persiano chador, o della pratica di fidanzamento filippina chiamata
manqul-uli, o dell'impegno di uno sposo arabo chiamato sed elmal? Come
si possono sradicare dai loro contesti determinate parole che, fuori
da quei contesti, non hanno significato?
E' importante,
dunque, guardare alla traduzione da una prospettiva nuova, in un atteggiamento
di "esternalizzazione", che rispetta e salvaguarda ciò che è straniero,
che non può essere tradotto, ma che, però, può essere compreso, attraverso
il racconto di chi a quella cultura straniera appartiene. Una buona
traduzione, in questa prospettiva, mira all'apertura, al dialogo, al
decentramento, in modo che tutti gli elementi linguistici come parole
ed espressioni, che non trovano una corrispondenza nella nuova lingua,
vengano mantenuti in originale, conducendoci verso la comprensione di
dimensioni nuove e verso un arricchimento sia culturale che linguistico.
Così intesa, la traduzione smette di essere un luogo di omogeneità,
per diventare invece un luogo di diversità che si incontrano.
Anna
Maria Passaseo
Dottore di ricerca in Pedagogia Interculturale
Università di Messina e di Palermo.
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