Dalla prigionia a Fossoli alla resistenza. I ricordi di Marco Brandes, giovane ebreo veneziano
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Dalla prigionia a Fossoli alla resistenza. I ricordi di Marco Brandes, giovane ebreo veneziano


A cura di Marina Scarpa Campos e Matteo Ermacora


«Come ebreo, venni inviato a Fossoli, presso Modena, dove un vasto campo di internamento [...] andava raccogliendo gli appartenenti alle numerose categorie di persone non gradite al neonato governo fascista repubblicano. Al momento del mio arrivo, e cioè alla fine del gennaio 1944 gli ebrei italiani nel campo erano centocinquanta circa, ma entro poche settimane il loro numero giunse a oltre seicento. Si trattava per lo più di intere famiglie, catturate dai fascisti o dai nazisti per loro imprudenza, o in seguito a delazione. Alcuni pochi si erano consegnati spontaneamente, o perché ridotti alla disperazione dalla vita randagia, o perché privi di mezzi, o per non separarsi da un congiunto catturato, o anche, assurdamente, per “mettersi in ordine” con la legge» (1).


Così Primo Levi descriveva i prigionieri di Fossoli prima di essere deportato ad Auschwitz; anche le vicende di Marco (Mario) Brandes, giovane ebreo veneziano, furono segnate dall’esperienza di internamento in questo campo che fu uno dei più importanti punti di transito degli ebrei italiani prima della deportazione verso i campi di sterminio. Mentre Primo Levi affrontò l’inferno concentrazionario nazista, Brandes riuscì a fuggire e a partecipare alla resistenza: le due vicende si intersecano e si sviluppano specularmente trovando un punto di contatto a Fossoli, «luogo della memoria» a lungo rimosso dalla storia nazionale proprio perché rimanda alla collaborazione italiana alla Shoah e alle politiche razziste del regime fascista. Solamente a partire dagli anni Novanta la storiografia italiana ha iniziato ad indagare sistematicamente il razzismo italiano, interpretando la tragica parabola del periodo 1943-1945 come esito di un processo di lungo periodo che vede nella matrice dell’antigiudaismo cattolico, del razzismo coloniale e dell’antisemitismo le sue componenti fondamentali (2). Tra il 1938 e il 1943, dopo un preventivo censimento, gli ebrei italiani furono privati dei diritti politici e civili ed esclusi dalla vita economica; la loro posizione si aggravò ulteriormente dopo il giugno del 1940 quando furono indicati dalla propaganda fascista come principali responsabili del conflitto: le possibilità di espatrio si ridussero sensibilmente e alcune migliaia di ebrei vennero internati in quanto «stranieri» o «disfattisti» (3). L’occupazione nazista segnò un deciso salto di qualità nella persecuzione delle comunità ebraiche italiane; dopo il rastrellamento degli ebrei romani nell’ottobre del 1943, le autorità italiane imposero il 30 novembre dello stesso anno l’arresto e il concentramento degli ebrei in appositi campi e fu dato avvio alla persecuzione violenta. I campi (4) di Fossoli (Modena), Borgo S. Dalmazzo (Cuneo), Bolzano, Risiera di S. Sabba (Trieste) divennero così l’anticamera della deportazione e dello sterminio: si calcola che dei 40 mila ebrei che vivevano in Italia prima dell’armistizio, circa 6.800 furono deportati e di questi quasi 6.300 morirono nei campi nazisti (5).
Marco Brandes, nato a Venezia nel 1920, apparteneva alla comunità ebraica; nell’immediato dopoguerra prese parte alla costituzione dello stato d’Israele poi fece ritorno Italia, esercitando la professione di commerciante. I suoi ricordi, raccolti da Marina Scarpa Campos a Venezia nella primavera del 2004, si articolano in tre grandi scansioni narrative: la discriminazione sofferta durante l’adolescenza, l’arresto e l’internamento a Fossoli, la fuga e la partecipazione alla resistenza armata nelle file delle «bande» di «Giustizia e Libertà». Le sue vicende rimandano alla storia collettiva della comunità veneziana che pagò un prezzo altissimo: stando alle ricerche del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, nella provincia di Venezia gli ebrei arrestati sarebbero stati 230; di questi 204 vennero deportati e solo 8 fecero ritorno dai campi di sterminio (6).
Dall’integrazione alla discriminazione. Così come nei ricordi di altri testimoni, le leggi razziali del 1938 furono accolte con stupore dagli ebrei; di fronte ad una «segregazione civile» senza precedenti, ben presto subentrò lo sgomento, il senso di solitudine e di isolamento sociale, acuito dalla generale indifferenza dei cittadini italiani. La perdita del lavoro del padre, ex-combattente nella Grande Guerra (e quindi «italiano» a tutti gli effetti) e l’esclusione dalla «premilitare» sono vissute dal giovane Brandes come una sorta di indelebile tradimento che diventa altresì motivo di una presa d’atto della propria identità ebraica. La discriminazione sofferta viene verbalizzata come una «patologia», la lebbra, malattia che esclude, che respinge, che implica un lazzaretto. Da qui l’inizio una sofferta esistenza quotidiana perché gli ebrei, privati della possibilità di esercitare le proprie professioni, dovettero arrangiarsi a compiere lavori saltuari; proprio durante questa attività commerciale condotta abusivamente, nel novembre del 1943, Brandes venne arrestato con l’accusa di partecipare ad attività di resistenza e internato nel campo di Fossoli. L’impatto con il campo fu traumatico, segnato dai «pianti» e dalla disperazione dei prigionieri. Le condizioni di vita nel campo erano «penose»: scarsa alimentazione, camerate promiscue, lavori pesanti, vessazioni da parte delle guardie italiane e tedesche, sono le risorse fisiche e morali a permettergli di «tirare avanti». Il ricordo, tuttavia, tende ad omettere la drammatica quotidianità del campo - che si riassume nella fame «che perseguita» e che viene scandita dalle scarse distribuzioni giornaliere di brodaglia - mentre fa rivivere, per contrasto, la rete di solidarietà che si instaura con gli altri internati. L’uccisione di un compagno di prigionia e l’insperata possibilità di uscire dal campo per una commissione fanno maturare il proposito della fuga che si concretizza, dopo una accurata preparazione, nel maggio del 1944. L’avventuroso rientro a Venezia avviene grazie all’aiuto dei contadini ma non mancano episodi di rifiuto che insegnano amaramente a Brandes che la sua identità ebraica può essere fonte di pericolo; viene quindi confermato il fatto che se vi furono numerosi episodi di concreta solidarietà da parte del basso clero, è altresì vero che spesso questa disponibilità si arrestava di fronte al pericolo di incorrere nelle rappresaglie degli occupanti e della milizia fascista.
Le drammatiche vicende sembrano imporre una sorta di forzata crescita del giovane protagonista, costretto a difendersi e a proteggere la sua stessa famiglia; le discriminazioni patite fanno crescere in lui orgoglio e consapevolezza della propria condizione; le difficoltà vengono quindi superate dimostrando furbizia, coraggio, prontezza e manifestando un atteggiamento tutt’altro che remissivo di fronte ai propri carcerieri; si tratta di una maturazione che trova conferma nella decisione di partecipare alla resistenza, capitolo, invero, piuttosto sfumato, tutt’altro che eroico, forse volutamente diminuito nei suoi esiti e nella sua rilevanza (7); analogamente, nel racconto anche la violenza viene censurata: l’interrogatorio, le bastonature, sono particolari sui quali il protagonista non si sofferma, quasi a volerli rimuovere; i silenzi e le omissioni sembrano dunque «comunicare» più delle stesse parole.


I ricordi di Marco Brandes


La mia famiglia era composta dai genitori e da 6 figli, di cui io ero il più piccolo: un’altra sorellina, Carmen, nata dopo di me, è morta da piccola. I miei fratelli erano Wanda, Amalia, Riccardo, Fausta: io ero il più piccolo. Mio papà era l’unico che portasse qualche soldo in casa, ma con le leggi razziali gli è stata tolta la licenza per il commercio ambulante, anche se aveva combattuto nella guerra del ‘15-’18. In quel momento io, che ero un ragazzo, ho perso tutto l’amore che avevo per l’Italia. I miei fratelli avevano studiato, io invece no. Nel 1938 sono stato mandato via, non da scuola perché non ci andavo, bensì dalla «premilitare». Era così buffo vedere le sfilate dei premilitari: tipo Charlot, con questi ragazzini, saranno stati circa 300, che sfilavano su e giù per le strade ed i campi senza avere neanche le scarpe. Un giorno quel disgraziato del capitano della milizia disse queste testuali parole: «Tutti gli appartenenti alla razza ebraica facciano un passo avanti - io mi sono sentito come un lebbroso! - da questo momento voi non appartenete più alle gloriose schiere della premilitare fascista». Io non sono mai stato fascista, ma dentro di me ho sentito come una pugnalata: mio padre aveva fatto 43 mesi di guerra nel ’15-’18 ed io non ero italiano? Non ero più italiano? Allora ci tenevo; dopo quella esperienza sono diventato completamente antimilitarista.
Nell’autunno del 1943 io ero a Venezia, dove - come tutti del resto - mi arrangiavo a lavorare saltuariamente in tutti i modi possibili per poter guadagnare qualcosa per poter sopravvivere comprando e vendendo merce, ovviamente in maniera abusiva. Durante uno di questi giri, a Mestre, sono stato fermato da cinque fascisti con le pistole alla mano. Quando mi hanno fermato, mi hanno detto: - «La vedi questa pistola?» - «Certo che la vedo» - risposi - «Se scappi ti spariamo dietro». Ed io: - «Ma per cosa dovrei scappare?».- «Non sei ebreo?» - «Sì, e allora?». Mi hanno portato prima in un carcere dei carabinieri di Mestre. Lì ho chiamato il piantone di notte, chiedendogli di avvisare la mia famiglia, che mi portassero qualcosa da mangiare. In realtà non era vero, perché noi non avevamo il telefono, l’avevano solo il vecchio Jarach (Marco) ed il vecchio Cesana (8). Quando sono riuscito a convincere il piantone, ho telefonato dicendo: «ARTITE, perché mi hanno ARTITO *(=mi hanno preso). Sono dai carabinieri». In pratica sono stato il primo arrestato di Venezia, perché mi hanno preso nel novembre del ’43. Successivamente mi hanno trasferito in carcere e lì il Tenente Farr delle SS ha cominciato l’interrogatorio. Volevano sapere dove si era tenuta la riunione dei «ribelli», che allora non si chiamavano ancora partigiani. Io in realtà non avevo partecipato a nessuna riunione, né conoscevo alcuno di loro; al massimo ero antifascista, ma nel mio intimo, e non avevo notizia di alcuna attività. In conclusione, io non sapevo assolutamente nulla di questi cosiddetti «ribelli»; non avevo nessuna nozione di politica. Comunismo e socialismo non sapevo assolutamente cosa volessero dire. In carcere, continuavano ad interrogarmi ed a bastonarmi; ogni venerdì veniva questo tenente a chiedermi cose di cui non avevo la minima conoscenza. Alla fine, le autorità italiane mi hanno consegnato ai tedeschi che mi hanno mandato al campo di concentramento di Fossoli vicino a Modena.
Sono stato trasferito in treno, via Verona-Modena da solo con tre carabinieri, ero verde in faccia perché erano giorni che non vedevo il sole, avevo la barba lunga ed ero pieno di pidocchi. Quando ho sentito l’aria libera, mi è venuto da sorridere, anche se avevo i ferri ai polsi; un carabiniere allora esclamò: «Ma guarda com’è cinico!» Io allora osservai: «Se essere ebrei vuol dire esser cinici!…». Naturalmente questi carabinieri mi avevano preso per un pericoloso bandito. Hanno sgomberato uno scompartimento del vagone e ci siamo sistemati. Io allora ho chiesto loro, visto che erano in tre ed io da solo, di liberarmi dai ferri che mi bloccavano i polsi e loro hanno accettato. Ho anche aggiunto che se il treno fosse stato bombardato, loro sarebbero scappati da una parte ed io dall’altra. Loro hanno sorriso e non hanno commentato. Arrivati a Fossoli, mi hanno portato dai tedeschi con un camion. Lì c’era un tedesco di Bolzano, che quindi parlava italiano. Si è meravigliato, vedendo un camion con un solo prigioniero. Mi hanno portato di notte in camerata, dove ho sentito i pianti di uomini, donne, vecchi ed anche bambini. Mi si è stretto il cuore ed immediatamente ho pensato: «Io qui non ci resto». Io ero nella camerata 2 B, di cui era capo-camerata un ragazzo della mia età, Nedo Fiano (9), che aveva con sé madre e padre. Eravamo tutti insieme: bambini, vecchi, ecc. Lì ho assistito anche a scene penose, con ragazzi che rubavano il boccone di pane ai vecchi. La fame ci perseguitava tutti. In quel campo ci davano da mangiare, sia mezzogiorno che a sera una brodaglia che stava in una scatoletta da 100 grammi. Avevo fatto amicizia con Giulio Levi e con Nedo Fiano ed avevo pensato di scappare con loro, ma il primo si era innamorato di una ragazza ed il secondo aveva con sé i genitori, quindi ho dovuto decidere di scappare da solo. - Giulio è morto ad Auschwitz, Nedo è sopravvissuto alla deportazione e ora è uno dei testimoni che parlano della Shoah nelle scuole -. In realtà era molto difficile scappare dal campo. C’era stato solamente l’episodio di una donna che era riuscita ad uscire dalla porta, ma era stata bloccata alla stazione di Carpi. Noi uomini più robusti alla mattina eravamo obbligati ad eseguire «lavori estenuanti di fatica», quali togliere con pala e piccone radici o tronchi del peso anche di 3 o 4 quintali, roba da ammazzare la gente, ma fortunatamente io ero robusto e riuscivo a tirare avanti. Il primo maggio del 1944 i tedeschi avevano comunicato che non ci sarebbe stato il lavoro giornaliero. Invece, all’improvviso un tedesco cominciò ad urlare: «Arbeit! Arbeit! (Al lavoro!)» e sparò ed uccise il povero Pacifico Di Castro, uno dei miei 6 compagni di camerata. E’ stato in quel momento che ho deciso: piuttosto vado a farmi ammazzare sul reticolato, ma non mi lascio portare in Germania.
Nel campo c’erano - oltre agli ebrei - i prigionieri politici, alcuni dei quali avevano il triangolino rosso, ed i prigionieri di guerra. Una volta il comandante delle SS mi mandò al paese a prendere un pacco di riso, avvisandomi che se fossi scappato avrebbero ammazzato 10 miei compagni. Allora io chiesi: «Va bene non scapperò, ma se scappo dal campo di concentramento?»; - e lui: «Se scappi dal campo, noi prendiamo te e ti ammazziamo immediatamente». Allora andai al magazzino degli arnesi: per cintura avevo una fascia di lana rossa e blu a pezzi, perché era inverno. Lì presi una tenaglia dentata, pensando di riuscire a tagliare il reticolato nella fuga e presi anche un pezzo di ferro, che una sera buttai contro il reticolato per verificare che non ci passasse l’elettricità. Invece constatai che non c’era corrente. Intorno al reticolato c’era una piccola strada bianca di sassi di un metro circa, poi un fossato scavato dai tedeschi e poi dei campi di frumento. La guardia di notte era assicurata da cinquanta italiani che avevano aderito alla Repubblica Sociale, comandati da un ufficiale tedesco. Quando decisi di scappare, appunto dopo l’uccisione di questo ebreo romano, mi bagnai tutto nella vasca di acqua che usavamo per lavarci la mattina, mi rotolai nella terre per mimetizzarmi e andai verso i reticolati, cominciando a tagliarli. Vidi Nedo Fiano che mi guardava, ma non venne con me, perché volle rimanere con i genitori. Quelli che si sono salvati mi hanno raccontato poi che [le guardie misero i prigionieri] tutti in fila in piedi dalla mattina alle 7 fino alle 13 perché non capivano da dove fossi scappato, perché ero sparito. Quando passai i reticolati, andai sotto l’acqua e mi inoltrai tra un campo e l’altro di frumento. Mi spararono un colpo di fucile ed io avevo il cuore in gola. Un soldato italiano chiese all’altro perché avesse sparato e quello rispose di aver visto un’ombra volare. L’altro gli disse: «Sarai ubriaco!». Non si accorsero di niente, perché nel fuggire avevo avuto l’accortezza di tagliare la rete alla base poi di riabbassarla fino al suolo, così non si vedeva niente. Sono scappato di sabato sera, perché il giorno successivo era festa e gli italiani bevevano il buon vino lambrusco. Col sangue ai piedi, perché non avevo calze e le scarpe erano due cenci, stanco morto, ad un tratto mi sentii prendere per la spalla. Feci un salto. Vidi che era un vecchio. Lo presi per il collo. Lui mi disse qualcosa in dialetto romagnolo. Gli chiesi di parlarmi in italiano, perché non capivo una parola: - «Smettila di rovinarmi il frumento! Vieni a casa mia, che ti do qualcosa da mangiare e da dormire». Infatti avevo preso sonno in mezzo al campo di frumento. Dagli italiani ho avuto un grande aiuto. In tasca avevo 100 lire, che quella volta erano soldi. Pensai di andare da un prete, che per carità cristiana mi avrebbe aiutato. Andai allora in un paesetto, non so quale, e chiesi del parroco. Intanto i contadini facevano a gara per darmi da mangiare. Finalmente arrivai in canonica; mi dissero di andare in chiesa e di aspettare lì. Lì c’erano 3 o 4 bambini che mi guardavano. Quando il prete finì il riposo, mi raggiunse in chiesa; io allora gli chiesi una carta d’Italia perché volevo tornare a Venezia. Lui mi chiese perché. Fidando nella carità cristiana, gli spiegai che ero un ebreo scappato da Fossoli. «Via! Via di qua! Se no i tedeschi ci portano via!». Da allora ho sempre detto che ero un soldato in fuga. Nella popolazione invece ho trovato un grande aiuto. Non c’era modo di muoversi; i treni non andavano. Girando, ho trovato un tizio con un tandem e gli ho offerto 100 lire se mi portava fino a Venezia. Finalmente sono riuscito ad arrivare a Padova; di qui con il tram sono arrivato a Mestre. Pensavo di andare a Fusina e lì prendere il vaporetto fino a San Marco, ma in quei giorni Fusina era stata bombardata. Allora sono andato con la filovia a Piazzale Roma.
Qui incontrai un tizio che mi conosceva e mi chiese cosa ci facevo lì, visto che stavano portando via tutti gli ebrei. Allora andai presso una famiglia cattolica che abitava presso campo San Barnaba. Però non avevo soldi; allora mi ingegnai a fare il sapone autarchico. Facevo bollire grasso, pece greca, soda caustica e silicato di sodio e per ogni kilo prendevo 5 o 10 lire e con questi soldi mantenevo me e la famiglia che mi ospitava. Allora ho incontrato un pensionato cieco del Cellina, che mi pare si chiamasse Baroni, che mi disse: «Sei ebreo? Ti chiami Brandes? Vuoi far parte delle formazioni G. L.?» - «Cosa vuol dire?» - chiesi - «Giustizia e Libertà». Allora sono entrato nella brigata «Nello Rosselli» del Partito d’Azione. Questo Baroni stava praticamente sempre in campo San Barnaba nel bar degli artisti e lì ci incontravamo e mi dava le istruzioni. Io mi comprai una rivoltella che era poco più di una scacciacani; con quella riuscii a bloccare con degli agguati alcune persone che erano armate e mi feci consegnare delle vere armi. In realtà ho sparato una volta solo, contro la caserma che i tedeschi avevano in campo S.Stefano, dove adesso c’è il conservatorio, perché i tedeschi sparavano dall’alto. Il comando del Partito d’Azione era in campo S.Stefano, dove adesso c’è l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti.
Dopo la guerra, andai a Fiesso, dove si erano rifugiati i miei genitori e li riportai a Venezia con un’automobile della questura, messami a disposizione grazie ai documenti che mi ero fatto fare. A casa nostra non erano rimaste neanche le porte, perché erano state bruciate per riscaldarsi. In quei giorni tutti cercavamo di arrangiarci in qualche modo per trovare da lavorare. Un giorno, a Mestre incontrai un camion con un grande Maghen David [la stella ebraica a sei punte]: era un camion della Brigata Palestinese. Io non sapevo una parola di ebraico; riuscii a dirgli solo Shalom e Shemà Israel (10). Riuscii anche a riaprire il forno azzime della Comunità [era Pesah, la Pasqua ebraica] e feci una produzione di non so quanti quintali. Andavo ogni sera alla stazione per vedere se c’erano notizie di mio fratello, se tornava vivo dalla Germania, perché ancora non avevamo la minima idea di cosa fosse accaduto (11).



Foto Brandes


Fonte: archivio privato M. Brandes


Racconta Marco Brandes: «si tratta della famiglia di Beniamino Ugo Levi, deportato insieme alla moglie ed ai cinque figli: la Rina, la Alda, la Leni, la Giusi e Mario, il più piccolo. La foto è del 1938: li avevo presi in braccio io quando avevo 18 anni. Avevo chiesto ad un fotografo ebreo tedesco, scampato dalla Germania, di farmi questa fotografia, pagandogliela 50 centesimi. Il fotografo era di passaggio a Venezia e stava cercando di fuggire in America od in Israele, che allora ovviamente era Palestina. Il padre (Ugo Levi) era chazàn della Scola Spagnola. La figlia più grande era la Vittorina (detta Rina), poi c’era la Alda, la Leni con i suoi occhi celesti. Sono stati tutti deportati: prima al Convitto Foscarini, poi a Fossoli e da lì ad Auschwitz… Io ero già in carcere. Anche mio cugino Eugenio Todesco (figlio di un fratello di mio nonno), con la moglie Ida Dina e i suoi 4 figli, venne deportato al Foscarini e nessuno di loro è ritornato. E così il fratello di mia mamma, Marco Tedesco, con la moglie Adele Dina ed il figlio di 10 anni, Alberto. Li ho tutti impressi nella mente, anche se non ne ho mai parlato con nessuno, perché mi costa troppo dolore; adesso ne parlo solo perché ne resti testimonianza per i miei nipoti».


Note


(1) P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1995, pp.11-12. Desidero ringraziare Marina Scarpa Campos e Alba Brandes per la gentilezza e al disponibilità con cui mi hanno fornito precisazioni e indicazioni bibliografiche.


(2) E. Collotti, Il Fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 6-39; A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, Bologna, Il Mulino, 1999, p.12.


(3) Si veda C.S. Capogreco, Internamento, precettazione, mobilitazione forzata: l’escalation persecutoria degli ebrei italiani dal 1940 al 1943, in «Qualestoria», XXIII (1995), n.1-2, p. 1 e segg.; Id., I campi di internamento fascisti per gli ebrei (1940-1943), in «Storia Contemporanea», XXII (1991), n. 4, p. 678; tali temi sono ripresi in Id., I Campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Torino, Einaudi, 2004, pp. 91-95 e 113-120.


(4) Le deportazioni diventarono sistematiche quando le strutture furono pronte per accogliere un numero crescente di internati; poco meno della metà di tutti gli ebrei deportati dall’Italia transitò nel campo di Fossoli: il campo, inizialmente destinato ai prigionieri di guerra, fu gestito sino al marzo del 1944 dalla milizia della Repubblica Sociale Italiana e in seguito dalle truppe tedesche che utilizzarono la struttura per accogliere, in attesa della deportazione, gli ebrei catturati durante i rastrellamenti. L’avvicinamento delle truppe angloamericane costrinse l’abbandono del campo e il trasferimento dei prigionieri a Bolzano dove potevano essere più facilmente trasportati, attraverso il valico del Brennero, verso i campi di sterminio. Cfr. L. Picciotto Fargion, La ricerca del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea sugli ebrei deportati dall’Italia, in Storia e memoria della deportazione. Modelli di ricerca e di comunicazione in Italia e in Francia, Firenze, Giuntina, 1996, pp. 51-52. Sul campo di Fossoli vedano S. Duranti - L. Ferri Caselli (a cura di), Leggere Fossoli. Una bibliografia, La Spezia, Giacchè, 2000 e D. Sacchi, Fossoli: transito per Auschwitz. Quella casa davanti al campo di concentramento, Firenze, Giuntina, 2002. Per un quadro generale, cfr. G. Mayda, Storia della deportazione dall’Italia 1943-1945. Militari, ebrei e politici nei lager del Terzo Reich, Torino, Bollati Boringhieri, 2002; M. Sarfatti, Gli Ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2000.


(5) L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria. La deportazione degli ebrei dall’Italia (1943-1945), Milano, Mursia, 1991, pp. 27; 825-826.


(6) Secondo i dati del censimento del 1938, la comunità ebraica veneziana era composta da circa 2.200 persone. Cfr. L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, cit., p. 816. Sulla comunità ebraica veneziana, tra i tanti testi a disposizione, si rimanda a P. Sereni, Storia della comunità ebraica a Venezia durante il Fascismo, in G.Palladini-M.Reberschack (a cura di), La Resistenza nel veneziano. La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, Venezia, Comune di Venezia, 1985, vol. I, pp.503-540; R. Segre (a cura di), Gli ebrei a Venezia 1938-1945. Una comunità tra persecuzione e rinascita, Venezia, Il Cardo, 1995; Li hanno portati via. Testimonianze sulla deportazioni degli ebrei veneziani a cura degli alunni del Convitto Foscarini, 1943-1945, Venezia, Cetid, 2001.


(7) Sull’esperienza partigiana di Brandes si rimanda a G.Formiggini, Stella d’Italia, stella di David. Gli ebrei dal Risorgimento alla Resistenza, Milano, Mursia, 1998 [1970], p. 93.


(8) Si tratta di ebrei veneziani, conoscenti di Marco Brandes. Le frasi successive sono in dialetto giudaico-veneziano; cfr. U. Fortis-P.Zolli, La parlata giudeo-veneziana, Roma, Carucci, 1979.


(9) Su questa esperienza di deportazione, cfr. N.Fiano, A 54045. Il coraggio di vivere, Varese, Edizioni Monti, 2003.


(10) Sono le prime parole della principale preghiera ebraica che imparano i bambini ebrei di ogni comunità nel mondo.


(11) Riccardo Brandes, il fratello di Marco, fu arrestato a Padova il 27 luglio del 1944 da italiani, detenuto nel carcere di Padova e poi trasferito a S. Sabba. Morì ad Auschwitz. Cfr. L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, cit, p. 152.



http://venus.unive.it//rtsmf/interviste/brandes.htm



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