Eterofobia e soggettività migranti
Annamaria Rivera
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Promuovere la soggettività e il protagonismo dei migranti è condizione primaria per attrezzarsi alla lunga lotta contro il “fondamentalismo bianco", radicalizzato dopo l'11 settembre con l'innesco del perverso ciclo terrorismo-guerra-eterofobia


 


Credo che la questione dell’autorganizzazione dei migranti vada contesualizzata riferendola al clima che si è prodotto dopo l’11 settembre, con l’inaugurazione del ciclo perverso e mortifero che lega il terrorismo alla guerra globale e permanente e questi alla eterofobia, anch’essa tendenzialmente permanente.

 
 



LEGGI D'EMERGENZA E FONDAMENTALISMO BIANCO
 
È un clima gravido di minacce: il rischio è che, con il contributo decisivo delle legislazioni di emergenza adottate da gran parte dei paesi occidentali dopo gli attacchi terroristici negli Stati Uniti, siano drasticamente ridotte o addirittura cancellate le poche conquiste strappate in questi anni in tema di uguaglianza e di diritti per gli stranieri, che si blocchi il pur lento processo di “cittadinizzazione” dei migranti su scala europea e che la stessa possibilità per i migranti di autorganizzarsi e proporsi come soggetti politici sia compromessa dal sospetto e dalla xenofobia crescenti, e dalla durezza del controllo e delle misure poliziesche.
La temperie è propizia all’incremento dell’islamofobia e del “fondamentalismo bianco”. E quanto più si consolida la propensione ad additare i cittadini stranieri come filoterroristi o comunque nemici potenziali, quanto più si accentuano e si generalizzano il controllo e la repressione poliziesca, tanto più v’è il rischio che fra i migranti crescano l’incertezza e la paura, e di conseguenza la tendenza ad autosegregarsi.
Certo, non è un esito scontato: la ripresa di un certo protagonismo politico dei migranti, sollecitato dalla consapevolezza della pericolosità del disegno di legge detto Bossi-Fini, attualmente in discussione in parlamento, potrebbe indicare un’inversione di tendenza.
 
 
I MIGRANTI USA-E-GETTA DEL DECRETO BOSSI-FINI
 
Non dobbiamo nasconderci, tuttavia, che il Bossi-Fini si inscrive, come dicevo, in un clima politico e sociale regressivo, del quale non può che avvantaggiarsi e che lo rende ancora più temibile.
Si tratta di una proposta legislativa dall’ispirazione segregazionista se non razzista, che muove dall’intento di ridurre i migranti a mera forza lavoro usa-e-getta, sottoposta a un sistema di diritti differenziato, di fatto all’apartheid. Il disegno di legge, infatti, subordina rigidamente il conferimento e la durata del permesso di soggiorno (non a caso ridefinito “contratto di soggiorno”) al contratto di lavoro: il cittadino straniero potrà entrare in Italia solo se un datore di lavoro è disposto a fargli un contratto; se, perduto quel lavoro, non trova altro impiego entro sei mesi, è passibile di espulsione.
Esso prevede inoltre la criminalizzazione della condizione di sans papiers (chi, dopo un decreto di espulsione, venga fermato senza documenti di soggiorno rischia quattro anni di detenzione); elimina le attuali possibilità di ingresso attraverso il meccanismo, previsto dalla legislazione corrente, dello sponsorship; limita drasticamente le possibilità di ottenere ricongiungimenti familiari; raddoppia la durata del “trattenimento” dei migranti in attesa di espulsione nei famigerati centri di detenzione.
Va osservato, poi, che di fatto le pratiche istituzionali e in particolare quelle poliziesche già oggi si sono adeguate allo spirito del disegno di legge, complice il clima che si è determinato dopo l’11 settembre: ogni giorno apprendiamo di rastrellamenti, di incursioni notturne negli alloggi degli stranieri, di intimidazioni e minacce, di dinieghi arbitrari del rinnovo dei permessi di soggiorno, di negazione del diritto d’asilo, di rimpatri collettivi, in realtà deportazioni che, proibite, com’è noto, dalla Convenzione di Ginevra, sono nondimeno attuate perfino nei confronti di profughi provenienti da zone di conflitto.
 
 
LAVORO “MULTIETNICO” IN UNA SOCIETÀ "BIANCA"
 
Se fosse approvato, il Bossi-Fini coronerebbe il sogno di tanti padroni e soprattutto padroncini, nonché di quella opinione pubblica incattivita da troppi anni di egemonia culturale della destra: un mercato del lavoro “multietnico” in una società rigorosamente “bianca”. Esso, inoltre, sarebbe un tassello decisivo nella costruzione di un ordine sociale modellato sulla segregazione degli “estranei” e di chiunque sia reputato deviante dal punto di vista della cultura mainstream.
Il movimento antirazzista denunciò con vigore, a suo tempo, lo scandalo dei cosiddetti centri di permanenza temporanea (istituiti per la prima volta in Italia da una legge voluta dal centro-sinistra), insistendo sul fatto che essi violano l’habeas corpus, uno dei pilastri della costituzione italiana e del diritto democratico.
Ma il modello del lager per “estranei”, che ai tempi del governo di centro-sinistra appariva come una scandalosa eccezione, oggi, con la destra al governo, diventa tendenzialmente il modello da estendere ad altre categorie sociali reputate, esplicitamente o implicitamente, come devianti.
Basta considerare gli annunci ricorrenti da parte di esponenti del governo circa i programmi che si intende adottare riguardo la tossicodipendenza (generalizzazione del modello del lager à la Muccioli), il disagio mentale (riapertura dei manicomi), la prostituzione (riesumazione dei bordelli). La “filosofia” che ispira questi programmi è a misura del senso comune più regressivo, che chiede la bonifica del paesaggio sociale dalle scorie umane che lo contaminano. L’esito potrebbe essere quello di una società modellata sull’ideologia, di conio statunitense, della tolleranza zero, volta a ridefinire i problemi sociali in termini di sicurezza e a gestire in termini polizieschi e segregativi la marginalità sociale o semplicemente la non-conformità alla cultura e alle pratiche sociali dominanti.
 
 
ETEROFOBIA E GUERRA
 
Fra gli esiti degli attentati dell’11 settembre va annoverato “lo stato di eccezione che diviene permanente”, per dirla nei termini di Hannah Arendt. A costituire lo stato di eccezione come permanente concorrono una guerra proclamata infinita e duratura, l’intensificazione e la disseminazione dei controlli polizieschi, la corsa a dotarsi di legislazioni o addirittura tribunali speciali che cancellano o mortificano il principio fondamentale dell’habeas corpus prendendo di mira soprattutto gli stranieri e chiunque sia percepito come estraneo alle società locali.
L’esito di tutto ciò non può che essere l’acuirsi dell’ideologia e delle pratiche sicuritarie e il dilagare della xenofobia se non del razzismo. Anzi, più che di xenofobia, occorrerebbe parlare di eterofobia, volendo cogliere e rimarcare il fatto che la ripulsa, l’ostilità, la stigmatizzazione non hanno come oggetto solo gli stranieri ma chiunque e qualunque cosa siano percepiti come altri rispetto alla “civiltà occidentale”.
Vorrei soffermarmi su quest’ultimo punto per precisare che, a mio parere, l’eterofobia e il razzismo non costituiscono solo un esito della spirale perversa terrorismo-guerra, ma sono parte della stessa struttura che regge la guerra permanente. Proprio perché si tratta non di un conflitto armato fra stati sovrani, ma di una guerra contro un nemico invisibile ed evanescente, essa ha bisogno di nutrirsi di e di alimentare la ripulsa dell’Altro, costituendolo come Nemico.
Non è certo un fenomeno inedito: il nesso fra guerra e razzismo, vale a dire la tendenza a “razzizzare” il nemico esterno e, contemporaneamente, ad additare un “nemico interno” hanno caratterizzato anche le guerre mondiali del Novecento. Ma nel caso attuale questa propensione appare come costitutiva della “guerra illimitata” poiché l’evanescenza del Nemico si traduce in una diffusa e pervasiva “nemicizzazione” di chiunque sia reputato estraneo all’Occidente.
Inoltre, come dicevo, una delle conseguenze del terrorismo e della guerra è stata l’accentuazione dei miti e dei dispositivi di sicurezza. E noi sappiamo bene che allorché si rafforzano l’ideologia e le pratiche sicuritarie, a pagarne il prezzo più alto sono i migranti, i profughi, gli “estranei”, additati come complici del nemico e nel contempo come fonte di insicurezza.
 
 
ITALIA E ISLAMOFOBIA
 
Il caso italiano mi sembra assai rappresentativo della tendenza che ho sommariamente descritto. In Italia più che altrove il terrorismo e la guerra hanno esaltato un clima già esistente. E non mi riferisco solo alla “normale” temperie - pratiche discriminatorie, xenofobia diffusa, propensione a “spendere” gli umori xenofobi sul mercato delle politiche elettorali - ma a un fenomeno specifico, l’islamofobia.
Un fenomeno che, mi sembra, presenta caratteri e meccanismi molto simili all’antisemitismo “storico”. Analoghi, infatti, sono le strutture e i temi ricorrenti: la religione dell’Altro intesa come un’essenza intrinseca, immutabile, sottratta alla storia e al cambiamento; la “razzizzazione” della presunta appartenenza religiosa; la tesi della sacra identità nazionale e/o europea minacciate da una alterità inassimilabile eppure capace di contaminare o insidiare il corpo della nazione…
Come dicevo, nel nostro paese l’impennata di islamofobia che si è determinata dopo gli attentati dell’11 settembre ha trovato un terreno del tutto propizio: da quasi due anni a questa parte, infatti, è in corso una vera e propria campagna d’opinione contro l’islam, con l’attivo concorso di una parte dei mass media e di alcune forze politiche, e il contributo di taluni opinion leaders e di qualche esponente della gerarchia cattolica.
 
 
INIZIA LA CROCIATA ANTIMUSULMANA
 
Vorrei ricordare qualche esempio della crociata antimusulmana che si scatenò in particolare nella seconda metà del 2000, in un crescendo contrassegnato da alcune tappe salienti. Nell’estate di quell’anno viene pubblicato (perché mai in agosto?) un volumetto, Multiculturalismo, pluralismo culturale ed estranei, ad opera di Giovanni Sartori, “il più eminente e il più noto politologo italiano” (così recita il risvolto di copertina), nonché consigliere della coalizione dell’Ulivo.
In questo libretto - un pamphlet più che un saggio - la dotta disquisizione su pluralismo e multiculturalismo, che sembrava promettere chissà che, approda alla tesi, alquanto rozza, della “alterità radicale non integrabile”, una categoria coniata per identificare una componente della popolazione immigrata. L’immigrato massimamente estraneo e dunque assolutamente non integrabile viene individuato nella figura (in realtà uno stereotipo) dell’africano, arabo e musulmano (come se i tre termini fossero coincidenti), colui che incarnerebbe l’essenza della più radicale “estraneità religiosa ed etnica” (laddove “etnica”, nel lessico di Sartori, è un sinonimo elegante di “razziale”).
 
 
RAZZISMO CATTOLICO…
 
Una seconda tappa, che fa immediatamente seguito alla prima (settembre dello stesso anno), è costituita dalla pastorale dell’arcivescovo di Bologna, Giacomo Biffi, nella quale si paventa il rischio che l’immigrazione di musulmani possa attentare all’identità nazionale (identificata tout court come cattolica) e si invitano le autorità politiche a scoraggiarla e a favorire l’ingresso di immigrati di fede cristiana. Ciò offre a Sartori l’occasione di “inchinarsi”, dalle colonne del settimanale "L’Espresso" (28 settembre 2000), alla “fede intelligente” del cardinale, lodandone “l’etica della responsabilità” - e nel contempo di fare pubblicità al proprio libretto.
 
 
… E LEGHISTA
 
Fin qui la querelle si era espressa soprattutto sul piano della “battaglia delle idee” e del battage mediatico. A dare una svolta tanto rumorosa quanto allarmante all’islamofobia crescente interviene l’attivismo politico leghista: il 14 ottobre del 2000 la Lega Nord promuove a Lodi un’iniziativa di protesta contro il progetto di edificazione di una moschea, dai toni decisamente intolleranti e dallo stile quasi-squadristico. Infatti, nel corso di quella iniziativa “politica”, cui parteciparono anche altre componenti della Casa delle Libertà insieme ad esponenti della galassia neonazista, il terreno dove sarebbe dovuta sorgere la moschea viene profanato cospargendovi orina di maiale: un atto di scherno la cui cifra simbolica e semantica si colloca in continuità con lo stile dell’antisemitismo più aggressivo, quello che si manifesta con la profanazione di cimiteri, tombe e monumenti ebraici.
Poco più di un mese dopo, a Rovate, sempre in Lombardia, un sindaco leghista privo di senso del ridicolo, emette un’ordinanza che ingiunge a chi non sia cattolico di tenersi lontano di almeno 15 metri dall’ingresso dei luoghi di culto cattolici.
 
 
CHI C’È DIETRO?
 
Oggi, col senno di poi, si potrebbe sospettare che quell’improvvisa fiammata antimusulmana, che in verità percorse anche altri paesi europei (in Danimarca, come in Italia, preannunciò la vittoria elettorale della destra e in particolare della sua componente più smodatamente xenofoba), non sia nata del tutto spontaneamente.
È probabile che nelle intenzioni di Sartori il suo contributo alla campagna mirasse a scoraggiare chi, nell’Ulivo, ancora s’attardava in una “ottusa e irresponsabile etica dei principii” ("L’Espresso", cit.), col rischio di compromettere l’emulazione della destra attuata dalla sinistra a fini elettorali; e che nei disegni degli altri la crociata avesse il fine di compiacere un’opinione pubblica avvelenata dalla xenofobia onde trarne ugualmente vantaggi elettorali. Nondimeno si ha l’impressione che quella campagna, così come le voci su possibili attentati islamisti circolanti prima del vertice di Genova e la stessa, per alcuni versi inspiegabile, brutalità poliziesca scatenata contro il movimento anti-G8, non fossero del tutto slegate da qualche disegno, o da un allarme reale, da parte dei servizi di intelligence.
 
 
MUSULMANI-TERRORISTI
 
Questa sommaria rievocazione della campagna d’opinione antimusulmana che prese avvio negli ultimi mesi del 2000 è utile, dicevo, a comprendere meglio ciò che accade oggi, dopo la strage del World Trade Center, in un clima avvelenato dalla fobia degli attentati, dal sentimento collettivo di incertezza e paura, e soprattutto dalla loro manipolazione allo scopo di creare consenso verso la guerra planetaria “infinita”. Mi sembra, insomma, che la strage delle Twin Towers abbia radicalizzato potenzialità che erano già in atto e che il ciclo perverso terrorismo-guerra-eterofobia che essa ha scatenato si sia valso di tendenze alquanto consolidate.
Oggi il “fondamentalismo bianco” e la xenofobia hanno un argomento in più, che concorre a legittimarli: l’equazione, tanto arbitraria quanto retoricamente efficace, "extracomunitari"-musulmani-terroristi. Fin dal giorno dopo gli attentati, si è prodotta una valanga di enunciati e atti basati su questa retorica non solo reazionaria, ma anche dalla valenza inequivocabilmente razzista.
Si va dalla gaffe del Cavaliere, in una ufficialissima sede internazionale, sulla superiorità della “civiltà occidentale” all’entusiastico consenso verso i deliri di Oriana Fallaci espresso in forma altrettanto ufficiale dal ministro dei Beni culturali, per arrivare ai vaneggiamenti del genere “l’immigrazione clandestina è funzionale ai disegni criminali del terrorismo e del fanatismo religioso islamico”: è il giudizio di Mario Borghezio, europarlamentare leghista, noto per la signorilità e la compostezza, a commento delle polemiche intorno al volantino distribuito a Venezia dalla Lega Nord qualche giorno dopo gli attentati, il quale recava, sotto il ritratto di Bin Laden, lo slogan “Clandestini uguale terroristi islamici”.
 
 
IL “CONTRIBUTO” DEI MEDIA
 
Quanto al contributo dei media alla costruzione di questa retorica, tale è l’abbondanza degli esempi che conviene citarne solo uno, particolarmente rappresentativo. È l’articolo (a firma Dino Sacchettoni) pubblicato il 13 novembre 2001 da “Metro”, quotidiano distribuito gratuitamente a Roma e letto in sostanza da tutti gli utenti della rete metropolitana: “Ormai, immigrati che vivono e lavorano da noi […] ci scaraventano addosso pubblicamente islamico disprezzo per la nostra appartenenza al mondo degli infedeli e ci ricordano […] che dovremo convivere con un incubo”. Nel medesimo articolo, l’autore non aveva resistito alla tentazione di ricorrere all’abusato cliché dei “nostri opulenti pacifisti, intossicati di benessere”, i quali “scendono in piazza con le felpe firmate per protestare contro la guerra”. Gli era sfuggito che tra gli “opulenti pacifisti” del grande corteo del 10 novembre v’era qualche migliaio di “immigrati che vivono e lavorano da noi”, che manifestavano contro il terrorismo e la guerra, insieme agli infedeli con le felpe firmate.
 
 
DALLE PAROLE ALL’AZIONE
 
Ciò che è più grave è che quest’orgia di retorica non rimane confinata nell’ambito del discorso razzista, ma continuamente istiga al passaggio all’atto. Anche in questo caso non mancherebbero gli esempi da riportare a dimostrazione dell’impennata di azioni violente e/o repressive, che si è determinata in Italia dopo l’11 settembre, verso chi è o è reputato “extracomunitario” e chiunque abbia una facies percepita come “araba”. Ne cito solo un paio.
A Vigevano, il 23 ottobre 2001 un ragazzo di 14 anni, figlio di marocchini, viene aggredito da due compagni di scuola a calci e pugni, dopo essere stato apostrofato come terrorista islamico e amico di Bin Laden. L’aggressione si consuma dinanzi all’istituto professionale frequentato dai tre e nessuno interviene in difesa della vittima. Due giorni dopo, nella “civilissima” Bologna, il conducente di un bus si rifiuta di far salire una donna con bambina adducendo a pretesto il fatto che ella indossa il “velo islamico”, in realtà un semplice foulard. La donna, fra l’altro, è cittadina italiana.
 
 
IL RAZZISMO POLITICO IN ITALIA
 
Un’ultima osservazione: che i deliri razzistici siano parte del discorso pubblico quotidiano è cosa che in Italia non fa grande scandalo (mentre lo farebbe, per esempio, in Francia). In ciò mi sembra vi sia una certa peculiarità nostrana. Essa ha a che fare non tanto con il fatto che gli umori intolleranti siano diventati moneta corrente facilmente spendibile sul mercato elettorale e perciò usata a piene mani dalla destra (e talvolta dalla sinistra): ciò accade anche in altri paesi europei. Altrove però il discorso razzista suscita per lo più reazioni allarmate, polemiche, dibattiti, prese di posizione anche da parte di élite intellettuali, il che non toglie che il razzismo sia alimentato e tollerato sul piano delle pratiche sociali e legislative. In Italia, al contrario, il discorso razzista sovente non solo non è denunciato ma neppure è riconosciuto come tale, se non da una parte assai minoritaria del mondo politico e dell’opinione pubblica.
Cerco di spiegarmi meglio, ricorrendo a un esempio. Se l’intemperanza verbale di Berlusconi sulla “civiltà superiore” ha allarmato gli alleati e scandalizzato la stampa estera non è solo perché essa ha rischiato di interferire nel gioco diplomatico che andava preparando la guerra. È anche perché negli Stati Uniti l’establishment sa di dover dare conto a 27 milioni di cittadini statunitensi di fede musulmana, in buona parte organizzati in associazioni e lobby; e in Francia, ugualmente, i leader politici sono consapevoli che non è il caso di inimicarsi i 5 milioni di francesi seguaci dell’islam. Di qui una certa prudenza, circospezione o, se volete, ipocrisia sul piano del discorso.
Quanto agli atti e alle pratiche, è pleonastico rimarcare che le cose non vanno meglio che in Italia: negli Stati Uniti, limitandoci a parlare del dopo-11 settembre, la caccia, fino all’omicidio, allo straniero e a chiunque rechi qualche segno percepito come esotico, i mille desaparecidos fermati solo perché stranieri e “arabi”, e internati sulla base di una legge speciale che nega loro le più elementari tutele giuridiche, segnalano non solo quale barbarie producano le legislazioni di emergenza, ma anche di quanto razzismo siano intrise le pratiche istituzionali del paese del melting pot.
 
 
ETEROFOBIA E DEBOLEZZA DEI MIGRANTI
 
Mi pare che questi frammenti di analisi abbiano attinenza col tema dell'organizzazione dei migranti. L’ancora debole visibilità politica dei cittadini stranieri, il fatto che essi non abbiano conquistato il diritto di voto neppure nelle elezioni amministrative, l’assenza di solide reti di autorganizzazione dei migranti, all’esterno e soprattutto all’interno delle organizzazioni politiche e sindacali nonché dello stesso movimento contro il neoliberismo (reti tali da essere riconosciute come una realtà con cui la politica nazionale sia obbligata a fare i conti): tutto ciò non è affatto irrilevante rispetto alla crescita dell’eterofobia e del razzismo.
Promuovere la soggettività del migranti e il loro protagonismo mi sembra condizione primaria per attrezzarsi alla lunga tenzone contro il “fondamentalismo bianco”. Ma è anche opportuno, in tema di autorganizzazione dei migranti, esplicitare quali siano i modelli e le esperienze cui si fa riferimento.
 
 
L'ESPERIENZA DEL MOVIMENTO ANTIRAZZISTA
 
Per ragioni storiche che qui non v’è lo spazio per analizzare e neppure per enunciare, in Italia, come in altri paesi europei con l’eccezione del Regno unito, la miriade di associazioni che hanno costituito il movimento per i diritti dei migranti e contro il razzismo ha avuto e ha carattere prevalentemente “misto”.
È vero: di esso fanno e hanno sempre fatto parte anche le “comunità”, come vengono dette, con un termine a mio parere infelice, le associazioni costituite da stranieri di una medesima nazionalità. Ma il modello prevalente, che si è imposto soprattutto nella fase più avanzata del movimento (collocabile grosso modo fra la seconda metà degli anni Ottanta e la prima dei Novanta), è stato quello di realtà associative costituite da “nativi/e” e migranti, a loro volta facenti parte di un unitario movimento antirazzista e per i diritti di cittadinanza: questo ha avuto (e ha) come cemento non solo e non tanto la solidarietà degli uni verso gli altri, ma piuttosto la consapevolezza del comune interesse a praticare il terreno della battaglia antirazzista e della difesa e dell’allargamento dei diritti di cittadinanza.
 
 
LE ORGANIZZAZIONI COMUNITARIE
 
Non intendo sostenere che questo modello sia esente da difetti: il rischio che il protagonismo dei migranti sia mortificato, che i processi di soggettivazione politica degli stranieri, invece che essere incrementati, siano bloccati o riguardino solo ristrette élites è sempre presente.
D’altra parte, sul versante delle “comunità” i difetti non sono minori, e non riguardano solo il rischio dell’autosegregazione in ghetti comunitari. Il mondo delle “comunità” è costituito da una tipologia assai varia che comprende in gran parte formazioni di base e democratiche, ma anche alcune associazioni legate alle ambasciate (e dunque ai governi) dei paesi di provenienza, e perfino casi di gruppi rigidamente e gerarchicamente controllati da leadership di tipo speculativo.
Ovviamente le “comunità” non esauriscono la tipologia delle forme di organizzazione degli stranieri: per esempio, fra le associazioni delle migranti numerose sono quelle non fondate sul criterio della nazionalità e costituite da donne provenienti da ogni dove. Spesso, anzi, esse hanno l’intento programmatico di rompere le barriere “etniche” e nazionali, per organizzarsi contro la duplice discriminazione e segregazione, in quanto donne e in quanto migranti .
 
 
COME SUPERARE IL LIVELLO “BIANCOCENTRICO”
 
Con ciò non si vuole negare l’esigenza di incrementare e rafforzare forme associative in grado di promuovere la battaglia contro la discriminazione e la segregazione e per la cittadinanza, di “dare voce” ai migranti, di promuoverne il protagonismo; né si intende sottacere che esiste uno specifico problema italiano riguardante la scarsa forza contrattuale delle associazioni degli stranieri nei confronti dei poteri e delle istituzioni pubbliche.
Ma a me sembra che la principale questione all’ordine del giorno ruoti intorno all’interrogativo seguente: come far sì che il movimento associativo democratico, il mondo sindacale, le organizzazioni politiche, il movimento contro il neoliberismo non solo si aprano alla presenza e alle istanze di cui sono portatori i migranti e le migranti (istanze universali, che obbligherebbero a ripensare il tema della cittadinanza e dei diritti), ma vengano anche attraversate dalla loro soggettività, si “contaminino” con pratiche e culture diverse da quelle consegnate da una tradizione politica tutta “biancocentrica”.
Il fatto che in una società sempre più policulturale com’è anche quella italiana - che piaccia o no a chi ci governa - le organizzazioni di sinistra, le sindacali ma soprattutto le politiche, non abbiano piena consapevolezza dell’urgente necessità di superare il modello “biancocentrico” di cui dicevo è un segno di arretratezza, mi sembra, specificamente italiano. Evidentemente, le condizioni per il superamento di tale modello risiedono anche, forse principalmente, nell’avanzamento dei processi di soggettivazione dei/delle migranti, nella loro capacità di proporsi quali soggetti di conflitti che hanno come posta in gioco la lotta contro il razzismo e per la cittadinanza.


Annamaria Rivera (docente di antropologia culturale dell'Università di Bari)



 


tratto da: Guerre&Pace - inserto Immigrazione - N. 89/90 - aprile 2002. http://www.mercatiesplosivi.com/guerrepace/migranti.htm


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