Montagne
Marino Bocchi - 16-10-2004

Montagne sacre

E’ lecito dubitare di tutto ma non dell’esistenza delle montagne. Aguzzo o morbido, spietato come il Cervino o materno come il Kailash tibetano, il loro profilo si staglia su vallate che lo contengono come fa una partitura wagneriana con il leitmotiv: vi girano intorno, ne accennano la presenza, lo anticipano. Le pianure inseguono le brume, come il mare affondano nell’inganno del liquido, la montagna è invece materia solida, incontrovertibile. Essa impegna l’ascesa. E dunque l’ascesi.
Se la radice etimologica greca di quest’ultima rinvia alla fatica dell’esercizio, la somiglianza con la prima non è solo di ordine fonetico bensì sostanziale. Anche per ciò non esiste religione al mondo, dalla notte dei tempi, che non ponga al suo centro la montagna, luogo degli dei per ciascuna. Ma non c’e’ dubbio che il rapporto fede e montagna sia innanzi tutto fondato sulla semplice evidenza plastica di una vetta, alta o piccola, di qualsiasi foggia, che ad un certo punto, in un luogo qualunque, interrompe la monotonia di una valle e fornisce un ritmo all’orizzonte.
All’indissolubile connubio tra fede e montagna Torino ha dedicato nei giorni scorsi un convegno, di cui riferisce Repubblica del 12 ottobre. Il tema, che non è nuovo (un titolo per tutti: Edwin Bernbaum, Le montagne sacre del mondo, Leonardo, splendido per testo e foto) ha però una tale valenza culturale e simbolica per il patrimonio della storia umana che ridurlo all’immaginario religioso lo impoverisce. Senza la pretesa di aggiungervi nulla di significativo, mi permetto alcune divagazioni.

Liberi di sbagliare

La montagna come rifugio. Luogo per eccellenza della libertà e della dignità. Perdute e ritrovate. O da inseguire. Primo Levi, Conversazioni e interviste: 1963-1987, Einaudi, 1997, così risponde ad Alberto Papuzzi, che gli chiede “che cosa significava andare ad arrampicare e andarci da solo, per quel giovane ebreo della Torino fine anni ‘30”.
Era una forma assurda di ribellione.
Tu, fascista, mi discrimini, mi isoli, dici che sono uno che vale di meno, inferiore, unterer: ebbene, io ti dimostro che non è così.
Mi ero subito promosso capocordata, senza esperienza, senza scuola: devo dire che l’imprudenza faceva parte del gioco…..la montagna rappresentava proprio la libertà, una finestrella di libertà.
Forse c’era anche, oscuramente, un bisogno di prepararsi agli eventi futuri
”.
Una notte, insieme con l’amico Sandro Delmastro, fra i dei primi caduti della lotta partigiana, Levi fu costretto ad un bivacco di fortuna, in pieno inverno, con i piedi nei sacchi e “le scarpe talmente gelate che suonavano come campane”. In gergo, fu costretto a “mangiare la carne dell’orso”. Rievocando anni dopo l’episodio ne Il sistema periodico, scriverà: “Ora, che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare e padroni del proprio destino”.
La montagna come rifugio dei ribelli. Non a caso, uno dei più bei libri dedicati alla lotta di liberazione, si intitola Partigiani della montagna (Giorgio Bocca, Feltrinelli, 2004). Come un’eco fascinosa, nel descrivere la scelta che mosse tanti giovani a mettere in gioco la vita e la sicurezza, l’autore ricorre alle stesse immagini di Levi:
Libero anche dal denaro e dalla famiglia. Sì, certo, la famiglia e i suoi affetti rimangono, ma che sia chiaro, a casa non si torna fin quando dura la meravigliosa avventura della libertà, dell’essere padrone del proprio destino. Alea iacta est, avremmo potuto dirci quel pomeriggio di settembre in cui varcavamo non il Rubicone ma la Stura di Demonte, diretti alla montagna della Val Grana, verso il Comboscuro degli occitani”.


Eretici e demoni

La montagna come rifugio degli eretici. Proprio le pendici dell’ Occitania furono l’epicentro della rivoluzionaria, mite e umanissima eresia dei Catari che, appunto perché tale, fu perseguitata e sterminata dall’Inquisizione a partire dal XIII secolo. E’ senz’altro frutto di stravaganza e interessata ignoranza il fatto che molti di coloro che oggi parlano di nonviolenza la vadano a cercare dove raramente si trova, fra i testi del cattolicesimo e trascurino ogni riferimento ad una dottrina la quale si opponeva ad ogni forma di uccisione “che abbracciava la vita animale, oltre che umana….Incontrare una simile filosofia nel remoto passato è di per sé sorprendente; scoprire che nella Linguadoca del XIII secolo indusse decine di migliaia di uomini e donne a rischiare la vita è stupefacente” (René Weis, Gli ultimi catari, Mondatori, 2000).
Di origine dualista e manichea, il catarismo poneva il demonio all’origine della creazione. Siamo di conseguenza nel territorio infido del Male assoluto. E qui il pensiero non può non andare ad altre montagne e ad altro periodo. Dal Nido dell’aquila si godeva un panorama da brividi tanto è bello. Appena sotto di esso e posto sulle Alpi bavaresi, nei dintorni di Berchtesgaden, la villa del Berghof fu il luogo più amato da Adolf Hitler e quello in cui avrebbe voluto essere seppellito. Ancora oggi la zona è oggetto di un culto mortuario e terrificante. Fu Thomas Mann, nei due primi decenni del secolo, ad intuire per primo il maleficio della montagna ambientando in un sanatorio di Davos, sulle Alpi Svizzere, il dialogo filosofico tra il razionalista Settembrini e il pessimismo irrazionale di Naphta. Presaga di tutte le stragi e delle carneficine del ‘900, la montagna è la vera protagonista dell’opera: il ritmo in cui si svolgono le cerimonie e i lutti di una classe sociale in disfacimento è accompagnato dal silenzio opaco di una natura ostile. La montagna come rifugio del male.

Creature misteriose

Popolata di forre e anfratti, dirupi e scorci preclusi allo sguardo, la montagna è il regno di creature misteriose e tenebrose, non sempre benigne. Chi ha avuto la ventura (e per me la fortuna) di nascervi, sa quanto la cultura di chi vi abita, in qualunque punto geografico si trovi, sia ricca di storie memorabili su serpenti dalla lunghezza smisurata, capaci delle più disinvolte acrobazie, vecchie streghe dedite all’incantesimo, apparizioni improvvise di esseri mostruosi che sbarrano la strada, specialmente di notte e solitamente di ritorno dall’osteria, quando per andare dal villaggio ai cascinali sperduti ci si doveva inoltrare a piedi fra i boschi. E ogni albero, proiettando la sua ombra sotto la luna, assumeva le sembianze che la fantasia sbronza volta per volta suggeriva.
Queste creature mostruose in Tibet hanno il none di Yeti. Su quegli sterminati altopiani, sotto e lungo le pendici di montagne immense, in orizzonti dilatati all’infinito in cui è difficile resistere alla tentazione che Dio esista per davvero, Reinhold Messner lo Yeti è andato a cercarlo (Yeti, leggenda e verità, Feltrinelli, 1999). Perché Messner all’uomo delle nevi ci crede. E giura anche di averlo visto ma di non essere riuscito a fotografarlo. Per sradicare questa ed altre “superstizioni”, la Cina maoista provvide e ancor oggi provvede al genocidio di tutto un popolo. E della sua cultura. Mostrandosi con ciò del tutto in sintonia con il materialismo consumistico occidentale. Il quale ha trasformato l’Everest in una pattumiera, su cui riccastri obesi e tronfi, saturi di ipertecnologie, si fanno trascinare dagli sherpa fino in cima, lasciando sul percorso le tracce bituminose del loro passaggio. Come in Giappone, nella salita alla montagna sacra del Fuji, di cui resta la memorabile descrizione di Terzano Terzani contenuta in Asia, Tea, 2002.
Ogni anno 15 milioni di giapponesi salgono sul monte Fuji. Di questi solo 300.000 arrivano alla vetta, ma tutti sembrano lasciare una traccia di sé lungo il tragitto. Lattine vuote, bombole d’ossigeno, batterie usate, berretti, asciugamani, vecchi giornali e coloratissimi contenitori di plastica coi resti di tutte le leccornie che il Giappone produce fanno della montagna un ininterrotto immondezzaio”. Montagna violata, stuprata. Ed è lo stupro dei popoli, della loro storia e memoria. Per i “superstiziosi” fedeli buddisti è vietato salire sul Kailash, per non deturparlo. Per gli emancipati e progrediti comunisti cinesi, capitalisti giapponesi o sgovernanti italiani (Corriere online, 14 ottobre) ogni scempio è lecito. Pur che si produca.


Zaskar

Ultima noticina, per concludere.
Autorevoli esperti dei servizi segreti preannunciano l’imminente cattura di Bin Laden, giusto in tempo per far vincere a Bush le presidenziali.
Pare che lo sceicco si trovi attualmente sui monti Zaskar, nello Xinjiang, la regione della Cina al confine con il Pakistan abitata da popolazioni uyguri, perseguitate dal regime per la loro fede musulmana (Il Manifesto, 12 ottobre).
La Cina starebbe per consegnarlo a Bush in cambio di favolose concessioni commerciali. Sarà anche fantapolitica ma come Messner anch’io credo alle creature misteriose e mostruose che popolano le cime. E le case bianche. E quindi sarei disposto a scommettere che questa volta lo Yeti ha i giorni contati.


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