Protesta contro il governo italiano per violazione del diritto comunitario
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Protesta contro il governo italiano per violazione del diritto comunitario



Signor Presidente Barroso


Ci permettiamo di segnalarLe i fatti che riportiamo di seguito, che, a nostro parere giustificano sanzioni contro il comportamento del Governo italiano.


Nel corso della prima settimana di ottobre 2004, più di 1000 persone sono sbarcate da imbarcazioni precarie sull’isola di Lampedusa, nel sud della Sicilia, aumentando così il numero di candidati all’immigrazione e asilanti già detenuti nel cosiddetto « centro di prima accoglienza », aperto dalle autorità italiane sull’isola.


Venerdì 1 ottobre, il governo italiano ha ordinato l’espulsione di 90 di questi stranieri con un aereo speciale per la Libia. Sabato 2 ottobre, 3 nuovi voli hanno portato più di 300 migranti a Tripoli.


Domenica 3 ottobre, due aerei messi a disposizione dall’Alitalia e due aerei militari hanno consentito l’allontanamento da Lampedusa di altri 400 stranieri.


Giovedì 7 ottobre, 4 aerei militari rispediscono gli ultimi « indesiderati », che molti testimoni hanno visto imbarcarsi con le manette ai polsi. I due primi aerei sono partiti alle 14, gli altri due alle 15 e 15. In totale, secondo quanto dichiarato dal Ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu alla Camera dei deputati l’8 ottobre, più di mille stranieri sono stati espulsi dall’Italia verso la Libia in soli 4 giorni. Sembra che queste espulsioni siano avvenute con la copertura di un Accordo recentemente concluso tra i due Paesi in materia di lotta all’immigrazione clandestina, Accordo che non figura nella lista degli Accordi di riammissione firmati dall’Italia con paesi terzi.


Molti elementi lasciano pensare che queste espulsioni siano state effettuate in condizioni che non permettevano il rispetto di un certo numero di prescrizioni previste dal diritto internazionale.


Durante il soggiorno di queste persone all’interno del « centro di prima accoglienza » di Lampedusa, ai rappresentanti dell’UNHCR, malgrado le richieste ripetute e la legittimità di un loro intervento in presenza di potenziali richiedenti asilo tra i detenuti, è stato impedito l’accesso per molti giorni in un luogo nel quale erano detenuti centinaia di uomini, donne e bambini. Solo dopo che la maggior parte di loro erano già in viaggio per la Libia il responsabile del centro ha consentito l’accesso ai rappresentanti dell’ONU. Giovedì 7 ottobre, il consigliere regionale Lillo Miccichè (Verdi), che aveva chiesto di visitare il centro alle 13.00, si è visto rispondere solo alle 17.00, quando numerosi espulsioni erano già state effettuate. Di fronte al tentativo di quest’ultimo di entrare nell’aeroporto per ritardare la partenza degli stranieri espulsi, le forze dell’ordine lo hanno violentemente respinto, spingendolo a terra. Parallelamente, solo dopo la fine delle operazioni di espulsioni, due senatrici italiane, accompagnate da esponenti della « Rete antirazzista siciliana », hanno potuto ottenere l’autorizzazione a visitare il centro, oramai quasi vuoto. Oltre alle condizioni materiali deplorevoli nelle quali le due senatrici hanno trovato gli stranieri detenuti che hanno incontrato nel centro, hanno potuto costatare che nessuna informazione era stata data a questi, sia sulle ragioni del trattenimento che sull’eventuale accesso alla procedura per la domanda d’asilo. Gli stranieri presenti nel centro, tenuti in condizioni igienico sanitarie e ambietali poco dignitose, erano privi di ogni contatto con l’esterno, se non per telefono. Per i minori presenti non erano previste misure specifiche, e molti di questi erano stati classificati come adulti in seguito a verifiche sommarie, quanto inesistenti, sulla loro età. I visitatori hanno ottenuto tutti testimonianze concordi sul fatto che, ne per il trattenimento ne per l’espulsione degli « indesiderabili », sono state prese in considerazioni le situazioni individuali delle persone, ma che la decisione si basava sulla logica « quanti ne arrivano, tanti vengono espulsi », privando gli interessati di ogni diritto alla difesa, sia per quanto riguarda il ricorso ad un interprete e ad un avvocato, che per la possibilità di un ricorso effettivo contro l’espulsione.


1. Trattamenti inumani e degradanti


Le testimonianze raccolte dai pochi testimoni che hanno potuto accedere al centro durante o immediatamente dopo le operazioni di respingimento, sono sufficientemente concordi e precise da far pensare che le condizioni nelle quali erano stati reclusi gli stranieri durante il periodo incriminato, rientrano nella definizione di « trattamenti inumani e degradanti » vietati dall’art.4 della Carta europea dei diritti fondamentali, così come dall’art.3 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Infatti sono costitutivi di questo tipo di trattamenti : il sovraffollamento (più di 1000 persone in un centro che ne può accogliere meno di 200), le pessime condizioni igieniche, una infrastruttura inadatta alle necessità minime della vita quotidiana (le persone essendo obbligate a dormire per terra, all’aperto, senza lenzuola o coperte), l’uso di metodi coercitivi per costringere le persone ad imbarcarsi sull’aereo (sono state usate le manette in plastica), ai quali si aggiunge l’impossibilità di comunicare con il mondo esterno (sia per problemi di lingua che per l’assenza di una cabina telefonica), l’incertezza legata all’assenza di informazioni sulla sorte delle persone detenute, la paura dell’espulsione, ecc… Tutti elementi che emergono dai rapporti fatti dai visitatori del centro di Lampedusa il 7, 8 e 9 ottobre.


2. Espulsioni collettive


L’articolo 4 del protocollo 4 della Carta Europea dei Diritti Umani e l’articolo II-19-1 della Carta dei Diritti Fondamentali, impediscono le espulsioni collettive. Secondo la Corte Europea dei Diritti Umknai (caso Andric c/Svezia n°45917/99, caso Conka c/Belgio n°51564/99, v. allegato 2), si intende per espulsioni collettive « ogni misura che costringa degli stranieri, in quanto appartenenti ad un gruppo, a lasciare un paese, tranne nel caso in cui tale misura sia presa in seguito e sulla base di un esame ragionevole e obiettivo della situazione particolare di ognuno degli stranieri che formano il gruppo ». Ora, nonostante le autorità italiane abbiano a più riprese sostenuto di aver proceduto ad un esame individuale della situazione di ciascuno degli stranieri accolti nel periodo in oggetto nel centro di Lampedusa e che ognuno di questi è stato identificato, le circostanze del loro soggiorno al centro, così come riportate dalle testimonianze, e soprattutto l’estrema rapidità con la quale l’espulsione di un gran numero di migranti è stata organizzata, rendono questa tesi difficilmente credibile. Da un lato il centro di Lampedusa, centro di prima accoglienza di persone appena sbarcate sull’isola, non è abitualmente predisposto ne equipaggiato per mettere in atto le procedure di identificazione. Gli stranieri sono peraltro informati, fin dal loro arrivo, che l’identificazione non avverrà sul posto, ma negli altri centri dove saranno trasferiti. Dall’altro non si capisce come sarebbe stato possibile, per l’amministrazione italiana, procedere ad un esame individuale, ragionevole e obiettivo, dei dossier e delle situazioni di un migliaio di persone detenuti nell’isola di Lampedusa, in pochi giorni se non, addirittura, in poche ore. Molte associazioni italiane, così come membri del parlamento italiano hanno peraltro interpellato ufficialmente, al momento dei fatti, il governo italiano per conoscere le modalità dell’esame delle situazioni individuali delle persone espulse, nonché la lista delle stesse, recante nazionalità e stato civile completo. Ad oggi non è stata ottenuta alcuna risposta.


Dalle testimonianze emerge che il principale metodo di identificazione sia in realtà limitato ad un esame molto sbrigativo degli stranieri, effettuato sulla base della loro presunta origine (« a vista », per così dire), e delle indicazioni fornite da due persone designate come interpreti.


Di questo tri( ??), emergerebbe che la maggior parte delle persone identificate come « d’origine sub sahariana », sarebbero state trasferite in centri di accoglienza siciliani, mentre gli altri, identificati in gran parte come « egiziani », sarebbero stati trattenuti a Lampedusa in attesa dell’imbarco per la Libia. Questi ultimi sono stati peraltro allontanati dal territorio italiano in gruppi di almeno 100 persone per ogni aereo, poiché tra l’1 e il 7 ottobre, più di 1000 persone sono state espulse. I ponti aerei sostenuti con la Libia durante quei giorni, hanno permesso quindi una espulsione « per gruppi » di stranieri.


3. Principio di non respingimento


Questo metodo estremamente sommario di « identificazione » degli stranieri arrivati a Lampedusa ha delle conseguenze dirette sul rispetto del principio di non respingimento, così come previsto dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e dall’art. 33 del Trattato Europeo : « nessuno degli Stati firmatari espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso le frontiere di un territorio dove la sua vita o la sua libertà sono minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad un gruppo sociale o alle sue opinioni politiche ». Questo principio di non respingimento è stato, a più riprese, riaffermato dall’Unione Europea come asse centrale della protezione dei rifugiati, sia nella Carta europea dei diritti fondamentali, all’epoca del Consiglio Europeo di Tampere, o nel testo della Comunicazione della Commissione Europea del 21 marzo 2001. Questo principio, se non implica obblighi per gli stati sull’accoglimento della domanda d’asilo, impone in ogni caso l’obbligo di procedere ad un esame individuale, ragionevole e obiettivo delle domande. Come si è appena visto (vedi punto 2), questo esame è stato manifestamente impossibile. Ne risulta che persone che avrebbero potuto chiedere legittimamente la protezione che l’Italia, ratificando la Convenzione di Ginevra e i successivi protocolli, si è impegnata ad assicurare, hanno potuto essere respinti senza che la loro eventuale domanda fosse presa in considerazione. Il fatto che i rappresentanti dell’ACNUR presenti sul luogo non abbiano potuto avere accesso al centro che dopo la partenza della maggior parte dei potenziali richiedenti asilo (vedi sopra) costituisce in tal senso un aggravante.


4. Respingimento verso un paese che non presenta le garanzie minime per la protezione delle persone.


In conformità all’art. II-19-2 della Carta Europea dei diritti fondamentali, « nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato dove esiste un serio rischio che egli venga sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti. ». Scegliendo di espellere collettivamente degli stranieri verso la Libia, paese che non ha firmato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, l’Italia si è assunta il rischio di non rispettare le prescrizioni sia di queste disposizioni, che della Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali, nonché l’insieme dei testi internazionali di difesa dei diritti umani. Infatti la Libia è stata più volte segnalata per essersi resa responsabile di gravi violazioni dei diritti umani : così riporta il rapporto di Amnesty International « Time to make human rights a reality », (AI MDE 19/02/2043). D’altronde le testimonianze concordano nel dire che la Libia utilizza la pratica di rafles de migrants che si trovano sul suo territorio per chiuderli in campi di detenzione militari particolarmente inumani. Le condizioni carcerarie sono palesemente insostenibili, vengono riportate un gran numero di sevizie di ogni genere, e ogni tentativo di evasione o di ribellione viene risolto con esecuzioni sommarie. Nel suo rapporto, Amnesty International rende conto di gravi violazioni dei diritti umani da parte dello Stato libico, in particolare nei confronti di immigrati e richiedenti asilo, che sono vittime di detenzioni arbitrarie, di processi inesistenti o iniqui, di uccisioni, di sparizioni o torture nei campi di detenzione. Prova ne è la testimonianza di centinaia di Burkinabè, recentemente espulsi verso il paese dì origine, e che assicurano di essere stati detenuti in condizioni inumane, comprendenti tra l’altro privazione d’acqua, di cibo e di cure.


Numerosi immigrati eritrei e nigeriani riportano gli stessi fatti dopo essere stati privati dei loro documenti e dei loro beni, e espulsi verso i rispettivi paesi d’origine. Di recente l’organizzazione internazionale Human Rights Watch si è vista rifiutare dalle autorità l’accesso di suoi rappresentanti in Libia, per una visita pianificata da tanto tempo, nel corso della quale intendeva indagare sul trattamento riservato ai migranti e ai richiedenti asilo in quel paese. Secondo HRW, « i richiedenti asilo e i migranti che vivono o transitano in Libia, soprattutto se vengono dall’Africa sub sahariana, subiscono violenze da parte della polizia, detenzioni arbitrarie e condizioni di detenzione deplorevoli. I respingimenti e le espulsioni verso paesi come la Somalia e l’Eritrea, dove gli espulsi corrono seri rischi, sono frequenti »


(comunicato HRW, 7 dicembre 2004).


Espellendo senza alcun riguardo diverse centinaia di persone in Libia, tra le quali si possono trovare persone bisognose di protezione internazionale, l’Italia si assume la corresponsabilità per le violazioni dei loro diritti fondamentali, violazioni delle quali queste persone potrebbero essere vittime.


In considerazione di quanto fin qui riportato,. le espulsioni collettive fatte dal governo italiano all’inizio del mese di ottobre presentano indubbiamente il carattere di violazione grave dei diritti umani e del diritto d’asilo, senza che le persone che sono state vittime siano in condizioni di esercitare il ricorso eventualmente previsto, in particolare davanti alla Corte europea dei diritti umani.


Gli Stati membri e l’UE hanno sempre proclamato la loro adesione al rispetto della libertà e dei diritti fondamentali, in particolare il diritto d’asilo. Ne sono testimonianza i diversi strumenti quali la Convenzione di Ginevra del 1951, la Convenzione europea di salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali del 1950, così come la Carta europea dei diritti fondamentali del 2000. Oggi, benché l’UE abbia affermato a più riprese la propria volontà di creare uno spazio di « sicurezza e di giustizia » europeo, ci si può legittimamente chiedere di quale sicurezza e di quale giustizia hanno beneficiato i migranti e i richiedenti asilo che sono arrivati a Lampedusa all’inizio di ottobre del 2004.


Come associazioni impegnate a tutela dei diritti umani e per i principi di uguaglianza, noi non possiamo non reagire di fronte alle ingiustizie messe in atto dal governo italiano in relazione ai suoi obblighi internazionali ed europei.


In qualità di garante dei Trattati, la Commissione vigila, con la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sul rispetto dei diritti comunitari in tutti gli Stati membri. Respingendo, tra il 2 e il 9 ottobre, più di 1000 migranti potenziali richiedenti asilo nel quadro delle espulsioni collettive verso la Libia, le autorità italiane si sono rese colpevoli di violazioni del diritto d’asilo, come riconosciuto dal Trattato di Amsterdam, nonché dalla Convenzione Europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali, della quale l’Unione Europea si è impegnata a rispettare i principi e della Carta Europea dei diritti fondamentali, integrata nel Trattato Costituzionale firmato il 29 ottobre 2004, i cui principi sono di riferimento ai lavori della Corte di Giustizia Europea (vedi allegato 1).


In nome degli impegni internazionali ed europei presi dagli Stati membri dell’UE, vi chiediamo di condannare l’Italia per le infrazioni di seguito riportate:


Violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio: tenuto conto del tempo trascorso tra l’arrivo dei migranti e il loro respingimento, si può affermare che queste persone (più di 1000 in totale) non hanno visto esaminare le loro domande individualmente, non hanno potuto avere accesso all’assistenza di un avvocato e ancor meno di un interprete. Inoltre, la decisione di respingerli presa dal governo italiano non ha consentito alcuna possibilità di ricorso da parte dei diretti interessati.


Violazione del divieto di infliggere trattamenti inumani e degradanti, come riportato nell’art.4 della Carta europea dei diritti fondamentali e all’art.3 della Convenzione europea per il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.


Violazione del divieto di praticare espulsioni collettive come riportato all’art.4 del protocollo n.4 della Convenzione europea per il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali e all’art.19 della Carta europea dei diritti fondamentali.


Attraverso un esame superficiale delle domande, il governo italiano ha proceduto ad espulsioni collettive vietate dall’insieme della legislazione internazionale in materia.


Violazione del principio di non respingimento come prescritto dall’art.33 dell’Atto Unico Europeo del 1986. Questo principio impone l’esame individuale delle domande, e vieta il respingimento degli interessati verso paesi dove esiste un "serio rischio contro l’integrità fisica di queste persone" (richiamato all’art. 19/2 della Carta europea).


Noi associazioni chiediamo alla Commissione Europea di agire da un lato affinché nessun Stato membro dell’UE possa non ottemperare ai propri impegni e obblighi in materia di immigrazione e asilo, dall’altro perché il respingimento e le espulsioni collettive siano cancellate definitivamente dalle politiche migratorie dell’UE.


Per queste ragioni, preghiamo la Commissione di volersi occupare di questo caso, segnatamente avviando un procedimento d’infrazione per l’accertamento della violazione del diritto comunitario da parte dell’Italia, e per il riconoscimento della responsabilità italiana per i danni subiti dagli espulsi.


Crediamo che i diritti fondamentali quali il diritto alla difesa, la protezione contro i trattamenti inumani e degradanti, il divieto delle espulsioni collettive e il principio di non respingimento dei rifugiati siano parte integrante del diritto comunitario e che l’assenza di un intervento della Commissione verrebbe interpretata come mancanza di responsabilità nella difesa di tali principi


Annexe 1 :


La Charte des droits fondamentaux dans le contexte européun :Un paramètre de référence pour les tribunaux


"Il nous semble intéressant de nous y référer [à la Charte], étant donné qu'elle constitue l'expression, au plus haut niveau, d'un consensus politique élaboré démocratiquement sur ce qui doit aujourd'hui être considéré comme le catalogue des droits fondamentaux, garantis par l'ordre juridique communautaire. "


Avocat général Mischo, (Affaire 20/00)


Malgré sa jeunesse, la Charte européenne des droits fondamentaux a déjà influencé les tribunaux européens.


Une nouvelle jurisprudence est en train de se constituer jour après jour. Des informations parfaitement actualisées sur les derniers développements sont disponibles sur le site Internet de la Cour de justice des Communautés européennes (CEJ).


Régulièrement évoquée dans les délibérations des Avocats généraux, la Charte ne peut  qu'influencer les conclusions de la CEJ. Au début de l'année 2002, deux ans après la proclamation de la Charte (décembre 2002), les Avocats généraux l'avaient citée dans 14 des 23 affaires qu'ils ont eu à juger dans le domaine des droits de l'homme.


Le Tribunal de première instance s'est également appuyé sur la Charte. Dans un important jugement datant du 3 mai 2002, il a modifié les règles régissant l'accès des particuliers aux tribunaux européens, sur la base de l'article 47 qui garantit aux particuliers dont les droits ont été violés, "le droit à un recours effectif devant un tribunal".


Le 11 juillet 2002, la Cour européenne des Droits de l'Homme a également établi un précédent en faisant référence à la Charte dans un arrêt sur le droit des transsexuels de se marier.


Les Avocats généraux


Les Avocats généraux ont fait référence à la Charte dans plusieurs affaires importantes, parmi lesquelles: Affaire C 340/99: il s'agissait d'un litige opposant la poste italienne et une société privée de services de livraison concernant le droit de la poste à percevoir des droits postaux pour des services qu'elle n'assure pas.


L'Avocat général Alber a fait référence à l'article 36 de la Charte sur l'accès à des services d'intérêt économique général.


Affaire 173-99: le syndicat BECTU contestait la façon dont le gouvernement britannique avait transposé dans son droit national certains aspects de la directive européenne sur le temps de travail. BECTU représente les employés du secteur des médias - dont beaucoup sont engagés en vertu d'un contrat de travail de courte durée.


Un arrêté du gouvernement britannique prévoyait que les employés devaient travailler au minimum 13 semaines, sans interruption et auprès du même employeur, pour avoir droit à des congés annuels payés. L'Avocat général Tizzano s'est appuyé sur la Charte (article 31) afin d'assurer la "confirmation du fait que le droit à des congés annuels payés constitue un droit fondamental".


Affaire C-122/99 et C-125/99: affaires jointes relatives au statut des fonctionnaires travaillant pour le Conseil européen. 'D', soutenu par la Suède, avait formé un pourvoi contre une décision du Conseil lui refusant le droit à l'allocation de foyer octroyée aux couples mariés. D revendiquait le même droit que les partenaires mariés, sur la base du fait que le couple qu'il forme avec un autre citoyen suédois du même sexe était enregistré en Suède. Ses arguments ont cependant été refusés. L'Avocat général Mischo a fait référence à l'article 9 de la Charte pour confirmer la différence entre le mariage, d'une part, et des unions entre individus de sexe identique d'autre part. Il a ainsi interprété la clause comme n'empêchant pas une union entre individus du même sexe d'avoir un statut identique au mariage, mais a confirmé la différence entre les deux formes d'union. Cette interprétation s'aligne sur la jurisprudence existante de la CEJ et de la Cour européenne des Droits de l'Homme. (CEDH).


Affaire C-377/98: le gouvernement des Pays-Bas demandait une annulation de la directive 98/44/CE relative à la protection juridique des inventions biotechnologiques imposant aux Etats membres de protéger ces innovations au moyen de leur droit national des brevets. La directive précise les inventions issues de variétés végétales, de races animales ou du corps humain n'étant pas brevetables. Les Pays-Bas demandaient une annulation de la directive pour plusieurs motifs, contraire selon eux au principe de "subsidiarité " et de sécurité juridique. Ils avançaient en outre que la directive violait les obligations en vertu du droit international ainsi que le droit fondamental au respect de la dignité de l'être humain. L'Avocat général Jacobs a reconnu que tous ces principes constituaient des droits fondamentaux. Toutefois, dans son arrêt, il a fait référence à des clauses de la charte établissant le droit à la dignité humaine et au respect du consentement libre et éclairé des donneurs


d'éléments du corps humain et des bénéficiaires de soins médicaux. La Charte renforce encore la valeur de ces droits spécifiques, a-t-il déclaré, et tout instrument communautaire qui les viole serait illégal.


Affaire C-353/99: l'Avocat général Léger a fait référence à l'article 42 de la Charte, qui établit le droit d'accès aux documents du Conseil et de la Commission - déjà reconnus par le traité d'Amsterdam - comme un droit fondamental.


Les Avocats généraux avaient déjà interprété des clauses de la Charte, notamment dans l'affaire 'D' ci-dessus.


Dans l'affaire C-20/00, l'Avocat général Mischo avait donné sa propre interprétation de l'article 17 relatif au Droit de propriété, conformément à la jurisprudence de la CEDH.


Les conclusions des Avocats généraux ne lient pas la CEJ mais suggèrent des solutions juridiques susceptibles de l'influencer. Ces conclusions ne font parfois référence à la Charte que de manière marginale, mais dans certains cas, les Avocats généraux l'utilisent pour interpréter les droits fondamentaux, en rappelant toutefois qu'elle n'a pas force contraignante. L'absence de statut juridique de la Charte ne signifie cependant pas qu'elle est sans effet. Les trois Avocats généraux Tizzano, Léger et Mischo ont déclaré que "la Charte a indéniablement placé les droits qui en font l'objet au plus haut niveau des valeurs communes aux États membres ".


Il ne s'agit pas de la considérer comme "une simple énumération sans conséquence de principes purement moraux". L'Avocat général Tizzano l'a qualifiée de "paramètre de référence substantiel pour tous les acteurs - Etats membres, institutions, personnes physiques et morales- de la scène communautaire."


Tribunal de première instance


Le Tribunal de première instance a rendu son premier arrêt sur l'accès des individus aux tribunaux européens dans l'affaire opposant la Commission européenne à une société d'armement à la pêche, Jégo-Quéré. Celle-ci contestait un règlement de l'UE interdisant l'utilisation de filets de pêche dont le maillage est inférieur à une certaine dimension. La Commission européenne estimait que l'action devait être considérée comme irrecevable, soutenant que le règlement a une portée générale. Le Tribunal n'a cependant pas trouvé cet argument satisfaisant, car les individus et les entreprises ne pourraient alors contester les mesures générales ayant un impact direct sur leur situation. Il a jugé que le concept d' 'intérêt individuel' ne devait plus limiter à des cas exceptionnels le droit des individus à contester des règlements européens. Faisant référence à l'article 47 de la Charte, ainsi qu'à la Convention des Droits de l'Homme, il a redéfini le concept de la manière suivante: Une personne doit être considérée comme individuellement concernée par une disposition communautaire de portée générale qui la concerne directement si la disposition en question affecte, d'une manière certaine et actuelle, sa situation juridique en restreignant ses droits ou en lui imposant des obligations. Le nombre et la situation d'autres personnes également affectées par la disposition ou susceptibles de l'être ne sont pas, à cet égard, des considérations pertinentes


Dans un arrêt précédent du 30 janvier 2002, le Tribunal de première instance avait fait pour la première fois référence à la Charte des Droits fondamentaux dans une affaire impliquant un opérateur autrichien de téléphonie mobile et la Commission européenne. L'entreprise s'est plainte auprès de la Commission au sujet des redevances fixées par le gouvernement autrichien pour la concession de téléphonie mobile, mais sa plainte a été rejetée. Au moment de déterminer le cadre juridique, le Tribunal a évoqué les articles 41 et 47 de la Charte, établissant le droit des personnes à un traitement impartial de leur affaire, et le droit à un recours effectif en cas de violation de leurs droits.


En faisant ces références explicites à la Charte, le Tribunal a confirmé le droit à un traitement impartial et à un recours juridique et a reconnu l'impact juridique de la Charte, dont la valeur politique ne peut pas être ignorée par les tribunaux européens.


Annexe 2 : arrêt Conka c/ Belgique


TROISIÈME SECTION


AFFAIRE CONKA c. BELGIQUE (Requête no 51564/99)


ARRÊT


STRASBOURG 5 février 2002


En l'affaire Conka c. Belgique,


IV. SUR LA VIOLATION ALLÉGUÉE DE L'ARTICLE 4 DU PROTOCOLE No 4 À LA CONVENTION


56. Les requérants dénoncent une violation de l'article 4 du Protocole no 4 à la Convention, aux termes duquel : « Les expulsions collectives d'étrangers sont interdites. »


D'après eux, le terme « expulsion collective » doit s'entendre de toute « mise en œuvre collective de mesures d'éloignement du territoire ». Distinguer la décision préalable de la mise en œuvre de l'expulsion conduirait à vider la disposition de tout contenu, dans la mesure où les législations de tous les Etats membres imposeraient aujourd'hui l'existence formelle d'une décision individuelle précédant la mesure d'expulsion, de telle sorte qu'à distinguer la décision de sa mise en œuvre, plus aucune expulsion collective ne serait plus condamnable de nos jours, ce qui priverait l'article 4 du Protocole no 4 de tout effet utile.


S'agissant en particulier des décisions d'expulsion prises à l'encontre des requérants, ceux-ci estiment qu'elles traduisent une volonté affirmée des autorités de procéder à un traitement collectif de la situation d'un groupe de particuliers, en l'occurrence les Tsiganes de Slovaquie. Ils en veulent pour preuve certains documents officiels, parmi lesquels des lettres adressées le 24 août 1999 par le directeur général de l'Office des étrangers au ministre de l'Intérieur et au Commissaire général aux réfugiés et aux apatrides, dans lesquelles le directeur général annonce un traitement rapide des demandes d'asile émanant de ressortissants slovaques, afin de donner un signal dissuasif clair à l'attention de nouveaux requérants potentiels. Les requérants se réfèrent aussi à une « Note d'orientation générale relative à une politique globale en matière d'immigration », approuvée le 1er octobre 1999 par le Conseil des ministres et dans laquelle figure notamment le passage suivant : « Un projet de rapatriement collectif est actuellement examiné, tant pour donner un signal aux autorités slovaques que pour éloigner ce grand nombre d'illégaux dont la présence ne peut plus longtemps être tolérée » (paragraphe 31 cidessus).


De même, le 23 décembre 1999, le ministre de l'Intérieur aurait déclaré, en réponse à une question parlementaire : « En raison de la concentration de demandeurs d'asile de nationalité slovaque à Gand, un rapatriement collectif en Slovaquie a été organisé » (paragraphe 23 ci-dessus).


De l'avis des requérants, ces éléments révèlent un dispositif général destiné à traiter collectivement un groupe de particuliers, depuis la prise de décision jusqu'à la mise en œuvre de l'expulsion. A cet égard, il serait significatif que le processus ait été baptisé « opération Golf » par les autorités. Dès lors, quelle que soit l'apparence formelle des décisions produites, il ne saurait être affirmé en l'espèce qu'il y a eu « un examen raisonnable et objectif de la situation particulière de chacun des étrangers qui forment le groupe ».


57. A ce grief, le Gouvernement oppose une exception tirée de ce que les requérants n'ont pas attaqué devant le Conseil d'Etat, notamment par la voie d'un recours en suspension d'extrême urgence, les décisions constitutives de la violation alléguée par les intéressés, à savoir celles du 29 septembre 1999.


La Cour constate que ce recours coïncide avec celui que le Gouvernement invoque au titre de l'article 13 de la Convention combiné avec l'article 4 du Protocole no 4. En conséquence, il y a lieu de joindre l'exception au fond et de renvoyer, quant à celui-ci, à l'examen du grief tiré d'une violation de ces dispositions.


58. Quant au fond du grief tiré d'une violation du seul article 4 du Protocole no 4, le Gouvernement se réfère à la décision d'irrecevabilité rendue par la Cour dans l'affaire Andric c. Suède ((déc.), no 45917/99, 23 février 1999) pour estimer qu'il n'y a pas d'expulsion collective lorsque la situation de l'étranger requérant a fait l'objet d'un examen individuel et objectif lui permettant d'avancer ses arguments contre l'expulsion. Or, bien que les ordres de quitter le territoire du 29 septembre 1999 se soient substitués aux précédents, tant l'Office des étrangers que le Commissariat général aux réfugiés et aux apatrides, qui est un organe indépendant, impartial et quasi juridictionnel, auraient donné aux requérants la possibilité d'exposer leur cas. La décision concernant Mme Conková comporterait trois pages de motivation circonstanciée, tapée en petits caractères et expliquant en quoi l'intéressée ne s'exposait pas à des traitements contraires à l'article 3 de la Convention dans son pays d'origine.


Quant à M. Conka, il n'aurait même pas daigné se présenter devant le Commissaire général, alors pourtant que celui-ci l'avait dûment convoqué.


L'examen de l'opportunité d'éloigner les intéressés se serait encore poursuivi à la police de Gand, puisque certains demandeurs déboutés auraient été néanmoins autorisés à quitter librement le commissariat, notamment pour des motifs humanitaires et administratifs. L'examen individuel se serait même poursuivi pour certains, dont les époux Čonka, jusqu'au pied de l'avion, puisque le versement des montants de l'aide sociale pour tout le mois  d'octobre aurait été effectué pour chaque chef de ménage au prorata exact de la composition de chaque famille, au franc près. Bref, il aurait été largement satisfait aux exigences de l'article 4 du Protocole no 4.


59. La Cour rappelle sa jurisprudence d'après laquelle il faut entendre par expulsion collective, au sens de l'article 4 du Protocole no 4, toute mesure contraignant des étrangers, en tant que groupe, à quitter un pays, sauf dans les cas où une telle mesure est prise à l'issue et sur la base d'un examen raisonnable et objectif de la situation particulière de chacun des étrangers qui forment le groupe (Andric, décision précitée). Cela ne signifie pas pour autant que là où cette dernière condition est remplie, les circonstances entourant la mise en œuvre de décisions d'expulsion ne jouent plus aucun rôle dans l'appréciation du respect de l'article 4 du Protocole no 4.


60. En l'espèce, les demandes d'asile des requérants ont fait l'objet de décisions de rejet prises le 3 mars 1999 et confirmées le 18 juin 1999. Motivées et accompagnées d'un ordre de quitter le territoire du même jour, les décisions du 3 mars 1999 ont été rendues à la suite d'un examen de la situation personnelle des intéressés, sur la base de leurs dépositions. Quant aux décisions du 18 juin 1999, elles se fondent, elles aussi, sur des motifs tirés de la situation personnelle des requérants et renvoient à l'ordre de quitter le territoire du 3 mars 1999, dont les recours urgents avaient suspendu les effets.


61. La Cour note toutefois que les mesures de détention et d'éloignement litigieuses ont été prises en exécution d'un ordre de quitter le territoire daté du 29 septembre 1999, lequel était fondé uniquement sur l'article 7, alinéa 1, 2o, de la loi sur les étrangers, sans autre référence à la situation personnelle des intéressés que le fait que leur séjour en Belgique excédait trois mois. En particulier, le document ne faisait aucune référence à la demande d'asile des requérants ni aux décisions des 3 mars et 18 juin 1999 intervenues en la matière. Certes, ces décisions étaient, elles aussi, accompagnées d'un ordre de quitter le territoire, mais à lui seul, celui-ci n'autorisait pas l'arrestation des requérants. Celle-ci a donc été ordonnée pour la première fois par une décision du 29 septembre 1999, sur un fondement légal étranger à leur demande d'asile, mais suffisant néanmoins pour entraîner la mise en œuvre des mesures critiquées. Dans ces conditions, et au vu du grand nombre de personnes de même origine ayant connu le même sort que les requérants, la Cour estime que le procédé suivi n'est pas de nature à exclure tout doute sur le caractère collectif de l'expulsion critiquée.


62. Ces doutes se trouvent renforcés par un ensemble de circonstances telles que le fait que préalablement à l'opération litigieuse les instances politiques responsables avaient annoncé des opérations de ce genre et donné des instructions à l'administration compétente en vue de leur réalisation (paragraphes 30 et 31 ci-dessus) ; que tous les intéressés ont été convoqués simultanément au commissariat ; que les ordres de quitter le territoire et d'arrestation qui leur ont été remis présentaient un libellé identique ; qu'il était très difficile pour les intéressés de prendre contact avec un avocat ; enfin, que la procédure d'asile n'était pas encore terminée.


63. Bref, à aucun stade de la période allant de la convocation des intéressés au commissariat à leur expulsion, la procédure suivie n'offrait des garanties suffisantes attestant d'une prise en compte réelle et différenciée de la situation individuelle de chacune des personnes concernées.


En conclusion, il y a eu violation de l'article 4 du Protocole no 4 à la Convention.


 


Annexe 3


Témoignages relatifs au traitement réservé aux migrants de la part des autorités libyennes.


*Le Pays* (Ouagadougou)


ACTUALITÉS


18 Octobre 2004


Propos Recueillis Par Hervé Yameogo


Le vendredi 15 octobre 2004, le Burkina Faso a accueilli plus d'une centaine de nos compatriotes rapatriée de la Libye. Ils ont été reçus au stade du 4 août où ils ont été recensés avant que chacun ne rentre chez lui. Nous leur avons rendu visite pour en savoir plus sur leur Odyssé forcée.


Nicolas Yoani : (Secrétaire général de la communauté burkinabè en Libye): " Nous ne devons pas pleurer sur notre sort"Ce rapatriement est une politique libyenne visant maintenant à purifier son pays. Je dis purifier parce qu' en 1999 les Libyens ont fait savoir que l'Afrique c'est Libye et que la Libye c'est l'Afrique. Nous sommes alors partis dans ce pays pour y travailler. Et aujourd'hui on nous dit que la Libye est victime d'une invasion d'immigrés clandestins. On ne sait pas ce que ça veut dire. Tous ce que nous savons c'est que nous avons été victimes, sinon les otages des ambitions politiques de certains pour se libérer de je ne sais quoi. Mais ce qui est sûr c'est que les membres de cette communauté ont acquis une certaine expérience dans ce pays-là. Maintenant il s'agit de savoir comment utiliser cela pour le développement du Burkina Faso. Nous sommes des adultes et nous ne devons pas pleurer sur notre sort surtout que nous sommes conscients de ce qui se passe. Nous devons au contraire nous battre pour relever notre pays. Parmi nous, il y a des gens qui ont exercé dans plusieurs secteurs d'activités. Et cela est un atout pour le Burkina.


Moi j'ai passé trois ans et demi là-bas mais il y en a qui y ont fait 4 ans ou dix ans de séjour. Il faut dire que les Libyens ont été clairs en nous rapatriant. Ils ont dit qu'ils exigent maintenant certaines conditions pour rentrer en Libye. Il y a d'abord le passeport qu'il faut avoir auprès de l'ambassade de Libye au Burkina; ensuite une fois arrivé en Libye il faut être muni d'un contrat de travail; enfin il faut être enregistré au niveau de l'administration Libyenne. Tous ceux qui ne sont pas en possession de ces différents papiers ont été priés de quitter le pays. C'est ce qui nous a été dit officiellement à travers notre ambassade.Nous avons été rapatriés par un cargo. Il avait à son bord 161 Burkinabè à ma connaissance, dont 85 prisonniers et le reste composé de gens qui étaient obligés de partir parce que ne remplissant pas les conditions. Je voudrais remercier ambassade du Burkina en Libye qui nous a beaucoup soutenus afin que nous puissions emporter nos bagages. Personne ne se plaint d'avoir laissé une aiguille là-bas à Tripoli. Nous lui manifestons notre gratitude pour tout ce qu'il a fait et continue de faire pour nos compatriotes qui y sont toujours...


Yannick Tougma: " Les Libyens sont racistes"


Je ne suis pas satisfait de mon séjour en Libye. La vie y est dure. Beaucoup de nos frères étaient désoeuvrés et parcouraient les rues dans la misère. Il y en qui ont logé dans des enclos parce qu'ils n'avaient pas les moyens pour louer un appartement. Et les Libyens sont racistes.


Ousseni Boly: " La Libye est un grand espoir pour l'Afrique"


Je suis parti en Libye en 1999. Grâce à Dieu je gagnais bien ma vie. Vu l'ouverture de la Libye pour l'Union africaine, beaucoup de gens s'y sont rués. Mais c'était des gens qui émigraient sans un visa parce que le Guide de la Révolution libyenne le leur avait permis. La Libye était sous embargo et ne contrôlait pas les entrées de ces gens qui foulait son sol. Aujourd'hui il n' ya plus d'embargo ; les Européens ne veulent plus les Africains chez eux. La Libye doit contrôler l'immigration sur son sol. Elle n'a pas chassé les gens définitivement. Elle a seulement dit de partir et revenir dans les conditions et les normes pour avoir de bons boulots car il y aura l'installation de grandes société en 2005. La Libye est un grand espoir pour toute l' Afrique. Je pense que les


Africains doivent nourrir de nouvelles idées pour l'exploitation du potentiel de ce pays. Je remercie les autorités burkinabè. Je remercie le Guide de la révolution libyenne de s'être toujours mis à la disposition de l'Afrique.


Mais il faut qu'il veille à la sécurité des Noirs chez lui. Sa population n'épouse pas forcément sa vision à l'égard des Noirs africains.? Nous aimerions que notre ambassade soit mieux dotée pour protéger les compatriotes qui résident en Libye. Quand nous avons des problèmes avec la police libyenne par exemple l'ambassadeur ne peut pas nous voir quand il le désir. Cela n'est pas normal. Il faut que la Libye respecte les droits de l'homme. Il serait bon de réfléchir dans le cadre de l'Union africaine, sur la possibilité de création des agences de recrutement pour aller y travailler.


Issoufou Ouédraogo (Ex prisonnier en Libye): " On nous privait d'eau en prison"


Nous avons été refoulés à cause de la couleur de notre peau. Le racisme sévit en Libye. Nous n'y sommes pas aimés. Nous sommes payés en deçà de notre dû . Ils nous demandent des papiers sans créer les conditions qui puissent nous permettre de les établir sur place en Libye. Notre rapatriement n'a pas été fait dans l'ordre. Il y en a qui ont été extirpés de leur maison sans bagage. Certains sont sortis directement de la prison pour être rapatriés.


Version 06/01/05


D'autres n'avaient rien, même pas de chaussures. C'est grâce à la solidarité des uns et des autres qu'ils ont pu s'habiller convenablement. En prison, nous étions pas bien traités. On nous privait d'eau et de nourriture et il n'y avait pas de soins pour les malades. On a été dépossédé de nos papiers (passeport, carte d'identité...)


Dramane Bakoan: " Ce retour n'a pas été volontaire"


J'ai fait un an et demi en Libye. Ce rapatriement n'a pas été volontaire. Les autorités libyennes se sont servies de ce terme pour faire croire à face du monde que nous quittons leur pays de bon gré.


Il y avait une telle pression que nous étions obligés de partir. Des gens ont été arrêtés dans la rue pour être rapatriésPioussè Kouarabou (Ex prisonnier en Libye): " Je n'ai plus rien"Je pense que ce qui nous est arrivé est de la faute du président libyen. Il nous a fait venir travailler comme des esclaves durant l' embargo qui pesait sur son pays. Et une fois l'embargo levé, il nous jette à la porte. Moi j'ai été saisi sur mon lieu de travail par des policiers. Ils m'ont retiré tous les papiers et même les 700 F CFA que j'avais sur moi. Présentement je n'ai rien sur moi. Je ne sais pas comment rentrer au village. Je n'ai ni sou ni papier.


http://fr.allafrica.com/stories/200410210199.html


*Mamadou Sangaré( SP-CSBE : " les rapatriés de Libye n'étaient pas des délinquants"*


*Le Pays* (Ouagadougou)


INTERVIEW


21 Octobre 2004


Publié sur le web le 21 Octobre 2004


Propos Recueillis Par Hervé Yameogo


Après avoir recueilli les propos de nos compatriotes rapatriés de la Libye le 15 octobre 2004, nous donnons la parole au Secrétaire permanent du Conseil supérieur des Burkinabè à l'étranger (CSBE), Mamadou Sangaré, pour avoir une version officielle de la situation.


*Aviez-vous été saisi auparavant par les autorités libyennes du rapatriement des Burkinabè qui sont rentrés à Ouaga le 15 octobre 2004 ?*


Oui, nous avons été saisi du projet de rapatriement des Burkinabè par notre ambassade à Tripoli. Le 20 juillet 2004, les autorités libyennes ont initié une rencontre avec l'ensemble des ambassadeurs des pays de l'Afrique subsaharienne pour échanger avec eux et leur donner l'information selon laquelle elles voudraient rapatrier toute personne en situation irrégulière. Notre ambassade nous a fait parvenir l'information. Et depuis lors nous suivions l'évolution de cette affaire.


*Cela veut-il dire que c'est une mesure qui ne concerne pas seulement le Burkina?*


C'est tout a fait cela. Ça ne concerne pas seulement le Burkina Faso. Tous les ambassadeurs des pays subsahariens ont pris part à cette rencontre. Cela veut dire qu'ils sont concernés au même titre que le Burkina.


Naturellement, chaque pays a cherché avec les autorités libyennes, les possibilités et les meilleures conditions de l'organisation de ce rapatriement. Chaque pays ayant des lois et règlement, il est important que les gens qui s'y rendent veillent à être en conformité avec ces lois. Chaque pays a aussi ses ambitions économiques et sécuritaires. Et parfois, il peut arriver qu'on ait du mal à contrôler un certain nombre de situations. Je pense que ce qui est mis en exergue ici, c'est le fait que des gens soient en situation irrégulière.


*Savez-vous pour quelle raison certains de nos compatriotes rapatriés ont fait la prison en Libye ?*


Le mot prison est un peu fort dans leur cas. Lorsque nous avons reçu l'information disant qu'il y a des détenus qui font partie de notre contingent (161 personnes dont 2 femmes), ça nous a un peu troublé. Nous pensions à des délinquants ou à des gens qui se seraient rendus coupables de crimes, d'infractions, etc.. Mais nous nous sommes réjouis de constater à leur arrivée ici au Burkina que ce n'était pas le cas. Toute chose qui renforce notre fierté et notre satisfaction quant au comportement de nos compatriotes à l'étranger. En fait, il s'agit simplement des gens qui ont fait l'objet de raffle lors de contrôles de routine. Cette opération était envisagée par les autorités libyennes dans la logique du rapatriement. Lorsqu'on vous interpelle et que vous êtes en situation irrégulière on vous amène dans des lieux de détention et après on vous achemine vers chez vous. Voilà un peu la nuance : ce n'était pas des prisonniers. Au niveau national, nous avions même mis un dispositif de sécurité en place pour que ces personnes qui étaient indiquées comme des prisonnières soient traitées spécialement. Mais à leur arrivée, l'ambassade nous a rassuré que ce n'était pas des délinquants. Immédiatement, nous avons levé le dispositif. Elles ont tous été traitées alors à la même enseigne que les autres.


*Que fait d'une manière générale votre institution à l'égard des Burkinabè vivant à l'étranger?*


Version 06/01/05


Le Conseil supérieur des Burkinabè de l'étranger est un service du ministère des Affaires étrangères. Le Secrétariat permanent du Conseil à travers ses attributions, n'est que la cheville ouvrière du gouvernement et dans cette logique oeuvre pour le bien-être de nos compatriotes vivant à l'étranger. Je m'explique : le Burkina est un pays de migration. Les gens s'en vont, parfois de façon ordonnée ou de façon désordonnée. Ils peuvent être confrontés à des problèmes. Sachant cela, le gouvernement a mis sur pied cette structure qu'est le Conseil supérieur des Burkinabè à l'étranger pour pouvoir suivre nos compatriotes là où ils vont dans la mesure, naturellement, des moyens dont il dispose. Mais un grand effort doit être encore fait pour rapprocher l'administration centrale de nos compatriotes qui sont à l'étranger. Et cela est matérialisé à travers les missions consulaires que nous organisons chaque année en direction de ces personnes-là, et qui constituent pratiquement l'administration centrale en miniature. Puisque ces missions sont composées des représentants de la sécurité, de la justice, du ministère des affaires étrangères, qui se déplacent à l'étranger pour délivrer le maximum de pièces et autres documents burkinabè afin de permettre à nos compatriotes de se mettre à jour vis-à-vis des lois des pays d'accueil.Mais, il y a des situations qui nous dépassent dans la mesure ou chaque pays à sa réglementation.


Lorsque par exemple l'accès à un pays requiert l'acquisition d'un visa et que vous y allez de façon clandestine, il est certain que ce cas est très difficile à gérer. Toutefois, tant que la possibilité s'offre à nous de sauver un compatriote en lui délivrant tel ou tel document, nous le faisons.


*Avez-vous un appel à lancer ?*


Aujourd'hui, les migrations internationales sont de plus en plus complexes. Cela préoccupe tous les pays du monde, tant le pays de départ, le pays de transit que le pays d'accueil. Si je prends le cas de l'Europe, les politiques sont beaucoup plus restrictives en matière d'immigration. Cela veut dire qu'il faut qu'on essaie d'évoluer vers une émigration beaucoup plus ordonnée. Ordonnée en ce sens que le candidat à l'émigration doit être averti de ce qu'il doit remplir comme conditions, de ce qui l'attend là-bas et du devoir qu'il a de se mettre en règle vis-à-vis des lois et règlements de son pays d'accueil. Ce n'est pas toujours évident. Malheureusement, il y a des gens qui vont en ordre dispersé, certes à la recherche d'un mieux-être. C'est normal. Mais nous pensons que pour que le mieux-être qu'ils cherchent puisse être utile à eux et à pays, il faut organiser l'émigration. Ce n'est ni un encouragement , ni un empêchement à partir. Mais nous disons qu'il faut que ce soit fait de façon ordonnée de sorte que nos compatriotes qui émigrent ne soient pas confrontés à des problèmes là-bas et soient parfois obligés de revenir dans des conditions un peu difficiles.Pour ce faire, la presse est d'un apport très précieux. Elle est un partenaire important qui peut contribuer à porter l'information et à mener la sensibilisation partout Burkina ; puisque c'est un phénomène qu'il faut gérer tant en amont qu'en aval. En amont, il faut que les gens sachent où ils vont et comment ils doivent y aller. En aval, une fois arrivés à l'étranger, qu'ils sachent comment se comporter et ce qu'il faut faire. Voilà tant de choses pour lesquelles nous comptons beaucoup sur les médias du Burkina pour pouvoir nous aider dans ce sens. C'est, naturellement, un travail de longue haleine mais je pense qu'au fil du temps, on pourra se réjouir un jour de voir que c'est une migration bien spécialisée qui sera beaucoup plus rentable.


*This Day* (Lagos)


NEWS


October 23, 2004


Posted to the web October 25, 2004


By Ndubuisi Francis


Lagos


No fewer than 1000 Nigerian deportees have arrived the country from Libya in the past one week as the North African country is said to be clamping down on aliens without valid resident documents. The deportees started arriving the Murtala Muhammed Airport, Lagos in chartered flights from the beginning of the week,  according to Immigration sources.


THIS DAY gathered that the deportees were mostly Nigerians who had taken unconventional routes to enter European countries but got holed up in Libya.


According to Immigration sources, the deportees were from various states of the country, some of whom may have been stranded in Libya for months and even years.Some of the deportees at the international wing of the Murtala Airport, Lagos yesterday declined interviews when approached by newsmen.Investigations revealed that while most of them were said to have either left for their various states or tried to put up with relations in Lagos since arriving the country, some of those still at the airport were those deported yesterday or without the necessary funds to travel home or to acquaintances in Lagos. It was gathered yesterday that even when some of the deportees had managed to make some savings while there, they were not allowed by the Libyan authorities to take their funds and belongings before deportation.


The deportation of Nigerians from Libya is not a new phenomenon. It has in fact been intensified in the past few years.


*Libya Deports Hundreds of Nigerians*


http://allafrica.com/stories/printable/200410250340.html


*Vanguard* (Lagos)


NEWS


October 23, 2004


Posted to the web October 25, 2004


By Kenneth Ehigiator & Adaku Icheku


HUNDREDS of Nigerians were yesterday deported home by the Libyan government in a chartered aircraft.The deportees, mainly youths, were brought into the country in batches, with the first batch arriving the NAHCO shed of the Murtala Muhammed Airport, Ikeja, Lagos late Thursday night. Although the exact number of deportees is not immediately known, Weekend Vanguard learnt that it runs over a thousand. Efforts to ascertain the number of the deportees from the relevant authorities also proved fruitless, as officers said to be armed with the figure were not available for comments.


Some of the deportees advanced varied reasons for their deportation from Libya. While some said they were brought back home because of President Olusegun Obasanjo's continued assurance of the Libyan government that Nigeria's economy was now comfortable for Nigerians, others quoted the Libyan government as acting under pressure from the European Union. According to them, the EU is accusing the Libyan authorities of allowing immigrants without necessary papers to use Libya as a launch pad to crossing into Europe through the Meditarranean sea.


At NAHCO shed yesterday, only a few of the deportees were seen on ground, as several others had already left for their various homes across the country.



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