Nel 2003 la popolazione mondiale ha superato i 6,3 miliardi di abitanti, con un incremento rispetto all’anno precedente di 54 milioni; un quinto degli abitanti del pianeta vive in Cina e un sesto in India, mentre le previsioni indicano che nel 2050 la popolazione mondiale potrebbe raggiungere un livello variabile, in relazione al tasso di crescita preso a riferimento, tra i 7,4 e i 10,6 di miliardi di persone.
Senza volerci addentrare sui criteri adottati dai demografi (forbice potenziale, stime sulle fertilità, aspettativa di vita attesa) e prendendo in considerazione la cosiddetta variante media, assunta anche dall’ONU, è probabile che nel 2050 avremo una popolazione mondiale di 8,9 miliardi. Per quella data gli abitanti della terra saranno aumenteti del 50% rispetto ad oggi con un incremento maggior (80,3%) per i cosiddetti paesi in via di sviluppo (PVS).
La metà dell’aumento mondiale della popolazione che si verificherà nel periodo 2000/2050, stimata in 2,9 miliardi, si concentrerà in quattro paesi asiatici (India, Pakistan, Bangladesh e Cina) e in tre paesi africani (Nigeria, Etiopia, Repubblica Democratica del Congo).
Nei paesi a sviluppo avanzato, la riduzione del tasso di fertilità e l’aumento dell’aspettativa di vita produrranno - per effetto dell’incidenza degli over sessanta e dell’età media – sia l’invecchiamento sia una riduzione della popolazione.
Parte dei sette paesi maggiormente sottosviluppati (PMS) avranno nel 2050 una popolazione giovanissima, con una età media di 23 anni (Angola, Burkina Faso, Mali, Niger, Somalia, Uganda Yemen), mentre diciassette paesi a sviluppo avanzato (PSA) avranno una popolazione con una età media superiore ai 50 anni. Tra questi, l’Italia con 52 anni superata solo da Giapppone, Lettonia, e Slovenia con 53 anni.
L’invecchiamento della popolazione - senza precedenti nella storia dell’umanità - ci porrà problemi nuovi rispetto ai quali non abbiamo ancora una cultura e un vissuto consolidato su cui fare affidamento. Basti pensare che i demografi calcolano che nel 2050 il peso percentuale degli anziani sulla popolazione mondiale sarà del 20,1% mentre quello dei giovani sarà del 21,4%.
Nei prossimi 25 anni, l’invecchiamento determinerà in Europa una crescita della popolazione anziana ad un ritmo più elevato degli altri gruppi di età. In Italia, poi, tale crescita sarà accompagnata da un complessivo tasso negativo che farà diminuire la attuale popolazione da 57 milioni (censimento del 2000) a 44 milioni.
Molti osservatori sottolineano che l’immigrazione rappresenterà la componente principale dei cambiamenti demografici in buona parte del mondo industrializzato. Questo perché, da un lato, la popolazione in età lavorativa dovrebbe scendere dagli attuali 303 milioni a 297 milioni entro il 2020 e successivamente a 280 milioni entro il 2030 e, dall’altro, il tasso di dipendenza della popolazione anziana dovrebbe quasi raddoppiare. Le conseguenze su tassi di occupazione (oggi già non ottimali) e su crescita economica sono facilmente immaginabili.
Anche per queste motivazioni (oltre che per ragioni di giustizia e di equità) credo che vada fatta una battaglia culturale per aumentare la sensibilità e l’attenzione generale su quelli che l’UE chiama i diritti dei migranti.
Altra componente fondamentale che attiva il processo migratorio è rappresentata dalla povertà:
Il 18% della popolazione (Europa ed America settentrionale) detiene la metà della ricchezza mondiale mentre il 60% (Asia) detiene solo il 35%;
In Cina il PIL pro capite è di 4.428 dollari e in India è di 2.589.
Sopravvivono con una media di 6 dollari al giorno 2,4 miliardi di persone dei paesi dell’Asia Centro Meridionale e dell’Africa.
La distribuzione continentale del PIL in relazione alla popolazione è vantaggiosa per l’Oceania, l’Europa Centro Orientale e soprattutto per alcuni paesi europei quali Svizzera e Norvegia ed è svantaggiosa per l’America Centro Meridionale, l’Asia Occidentale e l’intera Africa, continente più povero del pianeta. Appare, inoltre, particolarmente sproporzionata la situazione dell’Asia Centro Meridionale dove il 24% della popolazione mondiale ha a disposizione solo il 3,4% del PIL ed ha un reddito pro capite pari a 924 dollari.
Questi dati avvalorano la denuncia di James Wolfensohn, Presidente della Banca Mondiale, in merito ai sussidi all’agricoltura dell’UE per effetto dei quali un allevatore ha a disposizione per ogni mucca europea 5 dollari al giorno mentre la metà della popolazione mondiale sopravvive con meno di due dollari al giorno. Sempre citando i dati della Banca Mondiale, i sussidi alla agricoltura programmati negli USA e nell’UE hanno raggiunto i 350 miliardi di dollari contro i 50 destinati per incentivare lo sviluppo economico dei popoli più poveri.
Sopraproduzione agroalimentare, sperpero di risorse pubbliche, ingerenze di forze malavitose nella gestione delle risorse pubbliche, guasti ambientali ed ecologici derivanti dall’uso smodato della chimica e dello sfruttamento intensivo dei terreni e delle risorse non rinnovabili (quale l’acqua), concorrenza sleale con la debole produzione agricole dei PVS, sono aspetti di questo modello di sviluppo che concorre a determinare ipernutrizione nei paesi del Nord e fame nel Sud del mondo.
Il G8 di Evian (giugno 2003), la Conferenza per il Finanziamento dello Sviluppo (Messico 2002), la stessa UE in diverse occasioni e il Piano di azione dell’UNDP hanno assunto impegni sia per gli aiuti allo sviluppo sia per il contrasto della cause della povertà quali: la diffusione delle malattie; la malnutrizione; l’analfabetismo; la disparità nel trattamento delle donne; il degrado ambientale.
Tuttavia non solo i risultati ancora non si vedono, ma rimangono irrisolti i nodi quali il debito dei PVS, il mancato finanziamento del Fondo per la lotta all’AIDS-malaria-tubercolosi, la liberalizzazione di brevetti per la cura della malaria che, secondo Medici Senza Frontiere, potrebbe permettere la guarigione di sei malati ogni trenta secondi.
Gli effetti positivi del processo migratorio
Gli effetti di questo processo migratorio sicuramente saranno positivi per i PSA, poiché si potrà contrastare il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione, migliorare i conti previdenziali, soddisfare i bisogni del lavoro di cura alla persona e permetteranno il funzionamento dell’apparato produttivo (sia industriale che nei servizi). Ma, è pur vero che le migrazioni internazionali possono generare conseguenze positive anche per i PVS.
Basti pensare all’incidenza delle rimesse degli emigranti sull’economia dei vari paesi (in molte occasioni l’unica forma di finanziamento dall’estero) e alle conseguenze positive dell’emigrazione di ritorno, che con il capitale accumulato può consentire di intraprendere un’attività imprenditoriale con effetti sul territorio di vero e proprio volano economico. È pur vero, però, che la ricerca di occasioni di lavoro e di migliori condizioni di vita - nella fase acuta del processo migratorio - peggiora le condizioni socioeconomiche del paese di origine dell’immigrazione.
Per questi motivi l’INCA aveva valutato positivamente la norma che prevedeva la restituzione dei contributi previdenziali versati dagli immigrati e non sufficienti alla maturazione della prestazione pensionistica nei casi di rientro e considera un errore l’abrogazione della stessa decisa dal Governo Berlusconi.
Convenzione ONU sui diritti dei migranti
In questo contesto si colloca l’azione dell’ONU attraverso l’emanazione della Convenzione sui diritti dei migranti (18 dicembre 1990), che trova origine nella risoluzione per la tutela dei lavoratori clandestini presentata all’Assemblea generale da Algeria, Jugoslavia e Messico oltre 20 ani fa. La Convenzione, sottoscritta da 25 paesi tra i più poveri del mondo, completa le precedenti convenzioni OIL (n° 97 del 1949 e la n° 143 del 1998) e tutela le persone e i loro familiari che eserciteranno, esercitano o hanno esercitato un’attività retribuita in uno Stato di cui non sono cittadini.
La Convenzione, da molti considerata specificazione per i migranti della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, è imperniata sulla tutela della persona e considera le migrazioni un processo da prendere in considerazione nel suo complesso: dai preparativi (diritto ad essere informato su usi e costumi, leggi e cultura, diritti e doveri, lingua parlata e condizione del mercato del lavoro e sistema di sicurezza sociale, ecc.) al rientro (reinserimento socio lavorativo, diritto a godere della prestazioni economiche, tutela per il godimento dei diritti, ecc.).
Ed è con questa ottica che l’INCA ha uffici in Senegal e in Marocco, oltre che in Slovenia e in Croazia, ed ha concordato con la CGIL un piano per la realizzazione di sedi in Romania, Polonia, Tunisia, Egitto e nelle Filippine, affinché la tutela previdenziale di chi ha lavorato in Italia si coniughi con le buone pratiche per l’immigrazione e con il supporto per il reinserimento lavorativo dell’immigrazione di ritorno.
La Convenzione non solo considera il migrante persona portatrice di inalienabili diritti civili, politici, economici e sociali ma, qualora applicata, ridimensionerebbe se non annullerebbe, il principio della repressione quale arma per il governo del processo migratorio.
La sua ratifica ed attuazione si sta rivelando una chimera nonostante la campagna globale realizzata nel 2001, le sollecitazioni per l’adesione ripetutamente avanzate dal Presidente della Commissione Europea (On.le Romano Prodi) e dal Segretario Generale ONU, dal Consiglio Mondiale delle Chiese, dalla Conferenza delle Chiese Europee, dall’appello del Papa Giovanni Paolo II e dal Parlamento di Strasburgo.
La ratifica da parte del Parlamento Italiano avrebbe reso molto più complicata, se non a dirittura impossibile, l’emanazione della legge Bossi-Fini.
Il processo di comunitarizzazione della politica migratoria, che attribuisce al Consiglio dell’Unione Europea il potere di adottare misure in materia d’ingresso e di soggiorno dei migranti, di ricongiungimento familiare e di contrasto dei flussi irregolari, poteva essere assunto nel programma elettorale per le ultime elezioni europee per coniugare tutela del migrante con buone pratiche dell’immigrazione, diritto al lavoro e condizione di vita dignitosi per i più sfortunati con sicurezza dei cittadini europei.
In occasione del semestre di Presidenza italiana dell’UE, le confederazioni sindacali CGIL, CISL, UIL hanno chiesto all’On.le Berlusconi di non ridurre il tema della immigrazione alle questioni sicurezza e controllo delle frontiere, ma di adoperarsi affinché gli stati membri ratificassero la Convenzione ONU.
Cosi come abbiamo chiesto al Presidente di turno del Consiglio di adoperarsi, anche a nome di un paese (l’Italia) che aveva subito un forte e penalizzante processo di emigrazione, per:
la definizione di una normativa europea sul diritto di asilo,
l’inserimento nella Carta Costituzionale Europea del principio di cittadinanza di residenza per tutti i cittadini residenti stabilmente nella Unione non in possesso della cittadinanza di nazionalità,
la tutela della famiglia attraverso la salvaguardia dei ricongiungimenti.
In quella occasione, contestualmente, CGIL CISL UIL avviarono una mobilitazione nei luoghi di lavoro e furono messe in cantiere iniziative per rivendicare una revisione della cosiddetta Legge Bossi-Fini.
Purtroppo né il Presidente di turno dell’Unione né il Governo italiano hanno dato impulso a quanto richiesto e si sono distinti per un sostanziale non governo della questione immigrazione a punto tale che sono al di sotto delle prudenti aspettative le direttive sullo stato giuridico dei cittadini di lunga residenza e sui ricongiungimenti familiari. In modo particolare la direttiva sui ricongiungimenti familiari é stata contestata oltre che dai sindacati e dalle comunità straniere anche dal Parlamento Europeo.
Risoluzione OIL
Anche l’OIL, Agenzia delle Nazioni Unite per la promozione della giustizia sociale e il riconoscimento universale dei diritti umani nel lavoro, nell’ambito dei lavori della 92° Conferenza, ha adottato un piano di azione finalizzato a garantire ai lavoratori migranti l’esigibilità delle norme internazionali sul lavoro con particolare riferimento a quelle relative alla protezione e alla sicurezza sociale.
Poiché il piano prevede lo sviluppo di un quadro multilaterale, anche se non vincolante, e un approccio al tema delle migrazioni basato sulla costruzione di un sistema dei diritti, sarebbe di qualche interesse lo sviluppo di un piano di interventi sui governi nazionali, sulla Commissione UE e sul Parlamento di Strasburgo, affinché nell’ambito della comunitarizzazione imperfetta i diversi attori istituzionali e sociali assumano comportamenti coerenti all’impostazione OIL.
Documento ONU contro il razzismo
Nella passata legislatura il Governo di Centrosinistra e, in tempi più recenti, parlamentari dell’attuale maggioranza di Centrodestra e dell’opposizione hanno condiviso il documento conclusivo della Conferenza ONU contro il razzismo (Durban 2001). Oggi si tratta di rivendicare la ratifica della Convenzione da parte dei Parlamenti nazionali e di fare una battaglia affinché l’Unione Europea si muova con coerenza.
Scrive Nodiscrim nel suo Rapporto sulla Discriminazione razziale nei luoghi di lavoro che il tema della discriminazione razziale diviene sempre più uno dei grandi temi globali del nostro tempo e uno dei più complessi da affrontare. Sradicare il razzismo e superare gli ostacoli all’uguaglianza è una delle grandi utopie del nostro tempo, nella consapevolezza della necessità di coniugare lo sviluppo economico compatibile con la giustizia sociale. Nella consapevolezza che, a fronte delle modificazioni sociali, culturali ed economiche, a fronte della globalizzazione dei mercati e delle forme di produzione, occorre rimettere al centro i valori della persona, i suoi diritti e le sue liberta.
Noi, da parte nostra, non possiamo che condividere quanto affermato da Brunson McKinley, direttore generale OIM presentando a Roma il 1° Luglio 2003 il volume Word migration report 2003.
Per ragioni demografiche, economiche e sociali le migrazioni non possono essere fermate. In un mondo sempre più globalizzato, in cui il movimento delle persone fa parte della vita di ognuno, l’obiettivo finale non è quello di ostacolare la mobilità ma di gestirla al meglio e nell’interesse di tutti.
La vera sfida per i Governi è affrontare il fenomeno in modo umano, razionale consapevole perché possa portare benefici sia ai paesi di origine sia a quelli di destinazione.
L’integrazione tra assimilazione e società multirazziale
L’integrazione degli immigrati è una grande preoccupazione delle società riceventi, contemporaneamente il concetto stesso di integrazione è soggetto ad interpretazioni molto differenti.
Per alcuni la cosiddetta integrazione preventiva è un dovere per l’immigrato, al punto tale che l’onere della prova dell’avvenuta integrazione spetta all’immigrato stesso, non solo accettando norme e consuetudini della società ricevente, ma accondiscendendo ad una condizione subalterna nel mercato del lavoro, accettando i lavori più umili e con minori diritti, non rivendicando l’applicazione del sistema di sicurezza sociale e il godimento dei diritti sociali.
Questa concezione di integrazione presuppone una società omogenea, monolitica e compatta attorno al proprio modello di civiltà rispetto alla quale i nuovi per essere accettati devono, acriticamente e in modo spersonalizzato, conformarsi.
Per altri, invece, coloro che propugnano una società multietnica, il concetto di integrazione è sinonimo di assimilazione ed è contestato alla radice poiché è il frutto del retaggio dell’imperialismo delle società occidentali, perché impone modelli sociali e comportamenti della maggioranza egemone e infine perché coarta l’identità dell’immigrato.
Il rispetto delle culture importate dai migranti e il rifiuto dell’idea stessa di integrazione (definita diversità irriducibile) sono per molti parte integrante del pensiero politically correct.
Tra la società dell’assimilazione propugnata da alcuni e la società multietnica cara ad altri è possibile trovare una diversa concezione di integrazione non solo rispettosa delle identità ma in grado di realizzare la società dell’accoglienza della quale molti oggi parlano.
Ciò è possibile perché "le culture sono fenomeni dinamici e complessi, in perenne evoluzione anche attraverso i contatti e gli scambi con altri universi culturali. I confini tra di esse sono mobili e continuamente ridefiniti, e le forme ibridazione, tanto più nei contesti di immigrazione, sono incessanti e inevitabili."
Dietro l’immigrato c’è un viaggiatore culturale nella sua accezione più ampia, portatore di identità e contemporaneamente ricercatore di identità e che cambia anche senza saperlo e a volte senza accorgersene.
È sottoposto al cambiamento fin da quando decide di partire poiché in quel momento matura il distacco critico e riduce al minimo l’identificazione con l’ambiente in cui è nato ed avvia il processo di identificazione, a volte distorto, e di socializzazione anticipatoria con la società ricevente.
La riprova di ciò è negli atteggiamenti degli emigranti italiani, dei quali sono testimoni privilegiati le operatrici e gli operatori INCA in Europa (Belgio, Germania, Svizzera, Francia e Gran Bretagna).
Per i nostri emigrati il pensionamento e il definitivo ritorno in patria "equivale spesso a una nuova immigrazione, con traumi e problemi di disadattamento del tutto analoghi all’emigrazione all’estero"
Crediamo ad un processo di integrazione multidimensionale e interattivo in grado, come sostiene la Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, di ridurre al minimo i conflitti e di rafforzare l’accesso al benessere per tutti i soggetti interessati.
L’integrazione è un processo binario, non scontato, che presuppone un cammino cogestito dall’immigrato e dalla società ricevente finalizzato all’inserimento sociale e all’apprendimento culturale.
Poiché "l’integrazione è un concetto articolato in diverse dimensioni o componenti", occorre ben definire gli ambiti delle richieste (quali l’insegnamento della lingua, la conoscenza degli usi e dei costumi locali) che possono migliorare le capacità di inserimento socioeconomico, gli ambiti delle libertà (o della sfera privata) quali le convinzioni religiose, gli usi alimentari, l’abbigliamento e i modelli educativi.
Assumere questo complesso di questioni per facilitare le buone pratiche dell’immigrazione richiede non solo l’impegno degli immigrati, ma anche e soprattutto il nostro.
La comunità nazionale, soggetto attivo nella costruzione di una convivenza pacifica e reciprocamente arricchente, deve costruire il contesto favorevole all’integrazione includendo gli immigrati nel sistema dei diritti fondamentali e permettendo l’accesso ai benefici che spettano ai cittadini a prescindere dal passaporto e dalla cittadinanza in un paese dell’Unione Europea.
La politica può fare molto, ad esempio con le forme intermedie di cittadinanza, il diritto di voto alle amministrative e la partecipazione amministrativa.
Anche il Sindacato deve fare di più per la inclusione dei lavoratori immigrati nei propri centri decisionali.
L’immigrazioni e le politiche sociali
Nella relazione tra immigrazione e politiche sociali vanno ben definiti sia il gruppo di questioni che attengono le politiche per l’immigrazione, sia il gruppo di questioni che attengono le politiche per gli immigrati.
Tra le prime (politiche per l’immigrazione) hanno rilievo le politiche di ingresso, di soggiorno e di espulsione, cosi come le politiche di polizia e di controllo delle frontiere. Tra le seconde (politiche per gli immigrati) occorre ragionare in termine di politiche sociali con le relative prestazioni economiche (previdenza e garanzia del reddito, assistenza) e i cosiddetti servizi quali l’accoglienza, l’accesso alla casa e ai servizi sanitari, le politiche attive per il lavoro, l’accesso all’educazione per i minori soggetti all’obbligo scolastico, il diritto alla educazione permanente degli adulti, il riconoscimento del titolo di studio.
La presa di posizione del Parlamento Europeo in materia di immigrazione, integrazione e occupazione può essere assunta come riferimento non tanto perché prova a dimostrare i vantaggi di sistema tra una migliore gestione dei flussi migratori (con particolare riferimento ai paesi ai confini dell’UE a 25) e l’attuazione delle buone pratiche in materia di integrazione ma soprattutto perché una integrazione migliore e completa delle nuove comunità di migranti e delle comunità stabilite da tempo, in particolare sul mercato del lavoro dell’Unione, serve a concretizzare il potenziale economico dei migranti, promuove la coesione sociale e il rispetto delle diversità e contribuisce alla realizzazione degli obiettivi di Lisbona: creare un’economia competitiva e dinamica basata sulla conoscenza, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile, con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale.
Al di là, però, dei buoni propositi del vertice di Lisbona - le cui aspettative sono state messe in crisi dalla congiuntura internazionale, dal rapporto dollaro/euro, dalle politiche liberiste dei diversi paesi - rimangono ferme le conseguenze, in materia di immigrazione, dell’invecchiamento della popolazione del quale abbiamo parlato prima, dell’integrazione dei migranti e della necessità di una cooperazione con i paesi di origine del fenomeno migratorio.
Idee e valori per una politica di convivenza
Partire dalla integrità della persona significa coniugare le opportunità con il reciproco riconoscimento, il legame e la fiducia con la costruzione di relazioni positive.
Se la convivenza è un’Europa capace di una politica estera di pace, di cooperazione, di governo delle migrazioni, come ha sostenuto Kofi Annan davanti al Parlamento Europeo, occorre rivendicare una politica globale ed integrata che consideri le migrazione parte integrante di una politica di pace, di sviluppo, di cooperazione.
Per questo occorre coerentemente superare la visione distorta della comunitarizzazione imperfetta interpretata dalla Agenzia europea per la gestione delle frontiere che vede il controllo delle frontiere e le politiche delle quote di ingresso come strumenti privilegiati del governo del processo migratorio.
La politica di cooperazione non può avere come fine lo scambio di aiuti economici e di logistica in cambio del freno poliziesco alle emigrazione. Il risultato di questa politica è sotto gli occhi di tutti: aumento dei profitti dei nuovi mercanti di schiavi che gestiscono le tratte e il traffico dei clandestini e mancato avvio del processo di sviluppo economico.
L’intreccio tra politiche per l’immigrazione, politiche per gli immigrati e politiche di cooperazione è necessario:
per affermare la politica migratoria come valorizzazione della mobilità;
per fare diventare l’immigrato il fine e non il mezzo per la promozione dello sviluppo, investendo, come propone A. Sen, sulla sua capacità e sul suo capitale umano e sociale;
per affermare un concetto di cooperazione lontano dall’assistenza e sinonimo di sviluppo economico e sociale e culturale;
per promuovere rapporti con i governi, con le istituzioni locali, le forze imprenditoriali, le organizzazioni sindacali dei paesi di avvio del processo migratorio.
Si tratta (per gli immigrati come per gli italiani) di rafforzare e implementare il sistema pubblico di incontro tra domanda ed offerta di lavoro; di rendere conveniente per il sistema delle imprese l’ingresso regolare; di combattere il lavoro nero e l’evasione fiscale e contributiva, oggi oscillante tra il 25 e il 30%; di trovare forme di rappresentanza sociale e sindacale dei lavoratori immigrati nel contesto della rappresentanza generale del sindacato confederale; di affermare politiche per la valorizzazione delle professionalità del capitale umano e sociale della persona immigrata e della sua famiglia.
In questo contesto bisogna rendere più incisiva la funzione statale di indirizzo, di programmazione, di monitoraggio, di governo; più certo il suo impegno finanziario; mettere al centro lo sviluppo locale (dai distretti produttivi ai patti territoriali) e realizzare una concertazione che sappia coniugare gli aspetti solidaristici quali la cooperazione con la gestione dinamica dei flussi di ingressi, le politiche dell’accoglienza con la tutela della famiglia e della identità; il lavoro con la qualità dello stesso, gli aspetti previdenziali e assistenziali e la professionalità.
I figli dell’immigrazione (figli di coppie miste, di immigrati nati in Italia, ricongiunti con la loro famiglia, minori giunti soli, i minori rifugiati) sono oltre 300mila mentre le nascite da genitori stranieri sono oggi stimate in 25/30 mila all’anno. Nel secondo decennio di questo secolo le seconde generazioni in Italia supereranno il milione di persone.
Questi minori, oggi sospesi tra due mondi, sono destinati a diventare membri a pieno titolo delle nostre comunità, saranno protagonisti della nostra società, non si accontenteranno della integrazione subalterna riservata ai loro padri ma vorranno essere riconosciuti cittadini.
La loro integrazione, la loro formazione e istruzione, e il loro benessere è un investimento per il futuro di tutti.
La scuola, motore di convivenza, è il grande investimento non solo per accogliere e formare i figli dell’immigrazione ma per formare i nostri ragazzi alla sfida della globalizzazione.
La scuola, luogo di eguaglianza e di pari opportunità, luogo principe accanto al lavoro dell’integrazione, permette di rendere visibile l’integrazione tra persone di culture, usi, origini, razze diverse.
Oggi sono 200 mila i bambini e i ragazzi stranieri nella scuola italiana appartenenti a 186 nazionalità su 195 Stati esistenti al mondo, erano poco più di 6 mila nel 1983, saranno tra i 570 e i 700 mila nel 2018.
L’intreccio, dentro la scuola, tra istruzione, abilità creative e mentali, formazione ed educazione, è il mix attorno al quale costruire idee e valori condivisi.
Lo studio della lingua italiana, la conoscenza degli usi e del diritto, la consapevolezza del ruolo e della funzione dei soggetti pubblici che interagiscono nel mondo del lavoro, nella società e tra esse e la politica, sono fondamentali strumenti di integrazione, di accesso alla cittadinanza e di lotta alla discriminazione razziale. Devono essere assicurati dal sistema scolastico ma anche, nei proprio paesi, da parte della Autorità consolari prima dell’avvio del processo migratorio il ricongiungimento familiare.
Si tratta di introdurre la figura del mediatore culturale e linguistico, rafforzare lo studio sistematico delle lingue straniere, combattere la dispersione scolastica.
Acquisire la cultura e i valori di una politica di convivenza significa anche
rendere più facilmente accessibile l’acquisizione della cittadinanza dei figli in rapporto al processo migratorio dei genitori,
semplificare le procedure amministrative e ridurre gli anni di permanenza necessari per la naturalizzazione (oggi fissati in 10) per gli adulti che ne facciano richiesta,
agevolare, e non scoraggiare con difficoltà burocratiche o con il cattivo funzionamento delle sedi consolari, il ricongiungimento familiare.