ROM - Il razzismo italiano
L'antropologia positivista italiana di fine ottocento assunse progressivamente marcati connotati razzisti destinati a precipitare negli esiti tragici dello sterminio.
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Con il dilagare dell’ideale positivista, le scienze naturali vennero considerate strumenti prioritari di conoscenza della realtà, rappresentando l'unico vero criterio di studio e di comprensione della società. In piena ottica deterministica, le diverse discipline andavano sottoposte ad un processo di unificazione nella previsione di un sapere omogeneo teso verso un unico obiettivo: l'affermazione dell'ideologia del progresso e dell'ordine.
Il canale preferenziale di un simile orientamento era rappresentato dall'indagine sull'uomo fornita dal sapere antropologico.
Partendo dalle interpretazioni del pensiero di Cesare Lombroso, Paolo Mantegazza e Giuseppe Sergi, l'antropologia positivista italiana di fine ottocento assunse progressivamente marcati connotati razzisti.
Il mito del "buon selvaggio", quintessenza della simbiosi tra uomo e leggi della natura, venne rimpiazzato da una visione distorta e criminalizzata del "primitivo".
Per l'antropologia positivista italiana ciò che rendeva simile il selvaggio al criminale era la sua presunta o scarsa capacità di apprendimento o educabilità.
Le due figure coincidevano in un contesto che tendeva sempre più a temere e rifiutare ogni elemento ritenuto socialmente deviante. In una simile ottica, la perfetta incarnazione di questo nuovo logotipo selvaggio e criminale fu individuato nello zingaro.
Per ovviare al propagarsi di quelli che Lombroso definiva "delinquenti antropologici" (LOMBROSO, 1878, pag. 46) si ipotizzarono una lunga serie di provvedimenti. Generalmente gli zingari venivano "monitorati" dalle questure municipali e, in caso di disordini, catturati ed espulsi dal regno.
Dopo il lungo periodo positivista, l'antropologia italiana e, nello specifico, la "ziganologia", cadono nel più profondo degli oblii.
Gli ultimi baluardi di uno studio ormai estinto e prossimo ad una radicale trasformazione possono essere individuati in Adriano Colocci ed Alfredo Capobianco.
Il contributo fornito dal marchese marchigiano Adriano Colocci (1855 - 1941) si rivela preziosissimo soprattutto per quanto riguarda il discorso relativo alla ziganologia.
Lo studioso entra per la prima volta a contatto con l'etnia zingara nel 1885, quando viene inviato nei Balcani in qualità di rappresentante del Ministero degli esteri.
Affascinato da questa etnia detentrice di un posto a sé nella grande famiglia umana, Colocci raccoglierà tutte le sue considerazioni sulla comunità gitana nella pubblicazione dal titolo "Gli zingari. Storia di un popolo errante", del 1889.
Il saggio raccolse numerosi consensi ed ebbe il grande merito di ridestare l'interesse per una scienza, la ziganologia, ormai chiaramente in declino.
Ormai consolidato protagonista dell'intera scena antropologica europea, Colocci partecipa, nel 1902 e nel 1904, ai due più importanti congressi di etnologia ed antropologia del Vecchio Continente, rispettivamente a Parigi ed a Ginevra. Nel 1905 esce il suo "L'origine des Bohemeins", mentre nel 1911, dopo essere stato nominato nel 1910 presidente della "Gypsy Lore Society", una delle più importanti istituzione mondiale dedicata allo studio degli zingari, si erge a ruolo di massimo protagonista del "Primo Congresso di Etnografia Italiana".
Con un lungo intervento intitolato "Sullo studio della ziganologia in Italia", Colocci, primo italiano a sostenere con vigore l'importanza della ricerca sul campo, cercò di tracciare un bilancio di quella che era stata la ziganologia prima del 1889 e, una volta appurata l'assoluta insufficienza di tale fase dello studio, tentò di delinearne nuove direttive e problematiche. La ziganologia andava, dunque, riformata attraverso il ricorso a tre differenti criteri di ricerca, incentrati rispettivamente sullo studio dell'erudizione, della lingua e dell'etnografia (cfr. COLOCCI, 1912, pag. 157). Attraverso questi criteri di studio, ed in particolar modo con l'analisi dell'erudizione, sarebbe stato possibile colmare il vuoto ed il silenzio che accompagnava lo studio degli zingari dal XV al XIX secolo costituendo una sorta di "scienza degli zingari".
L'ente più adatto per soddisfare una simile richiesta era, all'epoca, la "Società di Etnografia Italiana", ma, come lo stesso Colocci poté intuire, i tempi non erano maturi e la proposta cadde nel vuoto più assoluto.
Un discorso diverso riguarda, invece, la posizione del napoletano Alfredo Capobianco.
Giudice di tribunale a cavallo tra l'800 ed i primi del '900, Capobianco svolge la sua attività giuridica tra Campania, Puglia e Basilicata, prendendo parte a numerosi processi che avevano come imputati degli zingari. Il saggio che scaturì da tali esperienze fu "Il problema di una gente vagabonda in lotta con le leggi", datato 1914,.
L'opera affronta il problema dell'ordine, del rigore e della normalità, indegnamente turbate dall'intera comunità zingara.
Capobianco è convinto che gli zingari costituiscano uno dei temi più interessanti, specialmente sotto l'aspetto giuridico (CAPOBIANCO, 1914, pag. 11).
La parte iniziale del saggio, tuttavia, non è giuridica, bensì di carattere etnologico. Qui l'autore cerca di fornire al lettore una descrizione, sommaria e superficiale, degli usi, dei costumi e soprattutto della morale zingara. L'elemento messo in maggior risalto è, senza dubbio, la particolarità del nomadismo. Un modus vivendi definito da Capobianco come un "camping organizzato etnicamente" (ID., pag. 18) foriero di precarietà e caos. In fondo alla rassegna vengono affrontati anche i temi relativi alla presunta immoralità ed irreligiosità degli zingari.
La pianificazione di un intervento tempestivo contro il dilagare del "crimine zingaresco" diventa l'obiettivo primario del giudice napoletano. Nel già citato saggio "Il problema di una gente vagabonda in lotta con le leggi", Capobianco stilerà una serie di accorgimenti, dalle schedature giudiziarie ai certificati antropometrici di francese memoria, fino a mezzi di espulsione e reclusione, per meglio contenere l'avanzata zingara.
A segnare in maniera definitiva il distacco dell'antropologia italiana dagli ideali positivisti, si pone come ideale spartiacque il "Primo Congresso di Etnografia Italiana" del 1911.
In questa occasione, uno degli organizzatori, Aldobrandino Mochi, aveva contrapposto alla teoria positivista "un approccio storico-geografico che, pur mantenendo la prospettiva diacronica, la veniva svincolando dalle vicende evolutive ed etnico-razziali dei popoli per connetterla, invece, ad una visione spaziale ed areale dei fenomeni culturali e all'influenza dei vari habitat naturali" (AA. VV., 1985, pp. 146 - 147).
Forte di questa reimpostazione teorica, l'antropologia italiana entra nell'era fascista.
La tendenza fascista a voler stabilire la superiorità della "razza italica", nonché la sua vocazione al predominio sulle altre popolazioni mediterranee, porterà l'antropologia ad un ruolo di primaria importanza nel quadro scientifico del regime. Un ruolo che subirà, nel 1938, un’ulteriore modifica. Riconoscendo ufficialmente "la teoria razzista", il fascismo utilizzerà l'antropologia con lo scopo di sancire la purezza e la superiorità della razza italiana. I contenuti di questa nuova tendenza saranno minuziosamente elencati nel "Manifesto degli scienziati razzisti" del 1938.
Tra i suoi autori merita una citazione particolare Guido Landra. Già direttore dell' "Ufficio Razza" al Ministero della cultura popolare, Landra si rivelerà uno dei personaggi più in vista nella lotta alla "piaga zingara".
Arma principale della sua crociata razzista diventa la collaborazione con la rivista quindicinale "La Difesa della Razza", periodico definito ufficialmente come organo di studi antropologici, storici e scientifici, ma che in realtà si afferma come punto di raccolta dei più biechi stereotipi razzisti dell'epoca. Tra i suoi tanti articoli merita una citazione particolare lo scritto dal titolo "il problema dei meticci in Europa". Il lavoro si richiama ad altri due articoli pubblicati sulla stessa rivista nel 1939 rispettivamente da Mario De' Bagni e Vincenzo De Agazio.
Nell'articolo di De' Bagni, intitolato "Gli Zingari. Vita pittoresca di un popolo nomade", gli zingari vengono descritti in modo pittoresco, in un lungo percorso storico usato per sottolineare tutte le caratteristiche di precarietà che da sempre, secondo l'autore, accompagnano l'etnia rom.
Vincenzo De Agazio non si discosterà molto dal lavoro di De' Bagni. Nel suo articolo intitolato "Gli ultimi nomadi", si cerca di far luce sulle origini degli zingari, evidenziando la loro natura votata al caos ed al disordine.
Partendo da questi articoli, Landra fornirà al dibattito sugli zingari una nuova incisività. Nell'articolo dal titolo "Il problema dei meticci in Europa", del 1940, Landra affronterà il "pericolo" derivante dall'incrocio della razza italica con gli zingari (LANDRA G. - GEMELLI A. - BANISSONI F., 1940, pag. 13).
Ponendo in secondo piano la minoranza ebraica, l'antropologo fascista si concentra, quasi esclusivamente, sull'etnia zingara, una razza, a suo dire, "tanto più pericolosa in quanto difficilmente distinguibile dagli europei" (ID., pag. 14).
Sottolineando tutta la carica asociale e perversa degli zingari, Landra auspica per la nazione italiana una presa di posizione simile a quella tedesca, votata, cioè, all'adozione di "seri provvedimenti" contro quelli che egli stesso definirà "eterni randagi, privi in modo assoluto di senso morale" (Ibidem).
Nel continuo tentativo di stigmatizzare i sistemi di vita altrui, l'antropologia fascista elaborò, attraverso una ingarbugliata commistione tra contenuti folklorici ed etnologici, un concetto di razza piuttosto fumoso e contraddittorio.
Il concetto di razza al quale si pervenne fu quello di "razza storica". Un risultato dello sviluppo graduale di concetti già impliciti nelle premesse e nelle posizioni ideali del nazionalismo fascista, che riuniva in sé tutti i significati storici, filosofici ed ideali dei termini "nazione", "stato" e per l'appunto, "razza" nella sua accezione scientifica.
Il concetto che, comunque, conservò sempre una certa distanza da quei fondamenti dell'arianesimo nazista cui, peraltro, si ispirava, portava avanti un'idea di "razzismo totalitario" (SANTARELLI, 1941, pag. 27), tendente al "potenziamento spirituale e fisico, cioè al potenziamento della stirpe" (Ibidem).
Per perseguire un simile obiettivo, il regime preferì una condotta votata, essenzialmente, all'irrobustimento ed alla sanità della stirpe italiana, più che allo sterminio di razze straniere. Come in Germania, i primi provvedimenti nei confronti delle minoranze zingare, non presentavano, dunque, alcuna connotazione razziale.
Per il regime fascista, infatti, gli zingari venivano esclusivamente considerati come semplici "asociali e criminali incalliti" (MASSERINI, 1990, pag. 62).
I provvedimenti si inserivano in un’ottica di salvaguardia dell’ordine pubblico. In tal senso si colloca la circolare dell'8 agosto 1926 per sottolineare la necessità di "epurare il territorio nazionale della presenza di carovane di zingari, di cui è superfluo ricordare la pericolosità nei riguardi della sicurezza e dell’igiene pubblica per le caratteristiche abituali di vita: il vagabondaggio e l’oziosità, che fomentano e agevolano l’accattonaggio e la perpetrazione di vari reati" (Arlati, 1997 b, pag. 34).
Il provvedimento ordinava agli uffici di frontiera di colpire nel suo fulcro l'organismo zingaresco, respingendo le carovane con il corredo di animali, carri e masserizie, ammettendo al transito solo quelle munite dei documenti di viaggio in modo da garantire un numero contenuto di viaggi.
Siamo in una fase di transizione in cui la minoranza zingara viene sostanzialmente ignorata dallo Stato italiano. Basti pensare che alla voce "razza" del "Dizionario di politica" curato da Costamagna per il Partito Nazionale Fascista nel 1940, le uniche volte in cui gli zingari sono menzionati è in relazione alle leggi di Norimberga del 1935 ed ai paragrafi 352, 353 e 354, in merito ai provvedimenti del Reich del 1936.
Tuttavia, con il progressivo consolidamento dell'ASSE, e la relativa convergenza tra nazismo e fascismo, la situazione per i rom iniziò a degenerare.
Con una circolare datata 8 giugno 1938, il Ministero dell'Interno aveva disposto l'istituzione di campi di concentramento ed internamento destinati a persone ritenute capaci di turbare l'ordine pubblico commettendo sabotaggi ed attentati, nonché per persone italiane e straniere segnalate dai centri di spionaggio. (cfr. KARPATI, 1993, pag. 61). Cominciarono le retate su vasta scala e le conseguenti deportazioni di interi nuclei familiari rom.
Nella maggior parte dei casi gli zingari arrestati venivano internati nei campi meridionali d’Abruzzo, Calabria e Sardegna.
L’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale e l’allineamento del fascismo con il nazismo segnerà il definitivo inasprimento delle misure di controllo e repressione.
Anche in Italia, come in tutto il resto d'Europa, gli zingari diventano "razza inferiore" portatrice di caos.
Dalla fine del 1940 a tutto il 1944 più di 6.000 zingari, vennero internati dalle squadre fasciste in campi di concentramento italiani e non.


Tratto dalla ricerca " Il Genocidio dei rom"


di Marco Tomasone
http://www.romacivica.net/amis/ric.asp?id=9


http://www.romacivica.net/amis/schede.asp?id=9&idsch=288



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