TAOISMO E CONFUCIANESIMO FONDAMENTI DEL PENSIERO CINESE
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TAOISMO E CONFUCIANESIMO FONDAMENTI DEL PENSIERO CINESE
Piero Corradini

dalla Rivista Italiana di Medicina Tradzionale Cinese n. 55-56 (1 e 2 1994)

La conoscenza dei fondamenti della cultura e della civiltà cinesi è indispensabile a chi voglia interessarsi seriamente di medicina tradizionale cinese.
È per questo motivo che due anni or sono ho cercato di contattare il prof. Piero Corradini al suo ritorno dalla Cina, dove, a Pechino, per alcuni anni, aveva diretto l'Istituto di Cultura Italiana. L'incontro è stato l'occasione per scambiare qualche impressione sulla Cina e sulla sua cultura, per presentare al professore la Rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese e per chiedergli un aiuto per una migliore comprensione del pensiero cinese. Questo lavoro sul "Taoismo e confucianesimo, fondamenti del pensiero cinese" è la risposta

La tradizione filosofica e religiosa della Cina antica
La Cina è stata descritta spesso come un paese privo di religione e dove le uniche religioni esistenti sono di origine straniera, come il buddismo e il cristianesimo. Al taoismo e al confucianesimo (le due grandi espressioni del pensiero cinese) spesso viene negato il carattere di religione: a maggior ragione per il secondo, a minor ragione per il primo. In realtà, invece, la vita dei cinesi è stata sempre pervasa da un senso della religione onnicoinvolgente e i valori religiosi si ritrovano in ogni manifestazione della loro vita. Basta saperli riconoscere e non classificarli, sbrigativamente, superstizioni, come si è fatto per lungo tempo. Del resto, come dimostrano i ritrovamenti archeologici, fin dall'età della pietra i Cinesi, o almeno i primitivi abitanti della Cina, praticavano riti religiosi. I bronzi sacrificali degli Shang (XVII - XI secolo a.C.) e dei Zhou (XI - III secolo a.C.) sono testimonianza di un'intensa attività religiosa e il gran numero di templi non buddisti e non taoisti, i miao, nelle città e nelle campagne, lo sono ancora oggi. Con i vasi di bronzo si presentavano offerte a questi templi (anche se oggi in parte abbandonati) che sono dedicati ad una moltitudine di divinità o, meglio, di santi patroni, del luogo, di una professione, di una comunità locale. Oltre che ai santi patroni il culto popolare era diretto verso gli antenati: si riteneva che chi avesse compiuto regolarmente il ciclo della propria vita, raggiungendo il benessere se non la ricchezza, giungendo a tarda età ed avendo avuto numerosa prole e discendenza, continuasse a vivere in un aldilà (del quale, nelle tombe, si sono ritrovate anche fantastiche raffigurazioni, in forma di montagne popolate di "immortali") e fosse periodicamente presente, nelle maggiori festività, assistendo i suoi familiari, approvando e disapprovando il loro comportamento. Chi, per le circostanze della vita terrena (morto giovane o in maniera violenta, oppure senza prole) non riusciva a raggiungere questo stato di beatitudine, era condannato a vagare, carico di odio nei confronti dell'umanità che, a torto o a ragione, gli aveva impedito di essere felice cercando di coinvolgere nella sua sorte chiunque incontrasse. Queste anime vaganti dovevano essere placate, il loro dolore doveva essere lenito con apposite offerte che avevano luogo specialmente il quindicesimo giorno della settima lunazione, quando si riteneva che tutti gli esseri in pena tornassero alle loro case. Il mondo appariva, quindi, agli occhi della religiosità popolare, popolato di una moltitudine di patroni e di spiriti, invisibili ma attivi, nel bene e nel male. Bisognava propiziarseli o guardarsene, occorreva fare attenzione ai giorni fausti o nefasti, se si voleva giungere indenni al porto della vecchiezza e, a propria volta, passare allo stato beatifico di antenato. Ma in tutta questa religiosità mancava l'idea di un dio soprannaturale in quanto anche i personaggi più importanti e di grado più elevato del pantheon si riteneva che fossero stati sempre di origine umana, fossero vissuti come uomini e che la loro virtù li avesse innalzati a quel grado. Gran parte di questa religiosità popolare entrò in seguito, nelle pratiche taoiste.
Se il culto degli antenati era essenzialmente familiare, quello del dio della Terra (She) era un culto collettivo. Questa divinità, anche se impersonale e su cui non sono stati tramandati miti e leggende, simboleggiava e propiziava la fecondità ed il raccolto. Ogni comunità aveva un altare all'aperto, in terra battuta e sopraelevato, dove in occasione delle principali ricorrenze del calendario agricolo si offrivano sacrifici e si celebravano cerimonie. Se in un piccolo villaggio questi riti potevano avere la partecipazione corale di tutto il popolo, nelle corti dei sovrani diventavano cerimonie di stato, assumevano particolari caratteristiche di sontuosità e, pur conservando il valore simbolico generale di propiziazione a vantaggio di tutto il paese, erano riservate soltanto ai nobili e ai funzionari, mentre il popolo ne era escluso. Si cominciava, così, a delineare una differenziazione tra il culto di corte e il culto popolare. Quando poi, cominciò a formarsi una classe di funzionari letterati, che non traevano ricchezza e potere direttamente dalla terra - che non possedevano o che non era la loro principale fonte di guadagno - il dio della Terra venne sostituito, per importanza, dal dio del Cielo (Tian), l'Imperatore dall'Alto (Shangdi), che concedeva il potere politico e assicurava al governo dello stato. A lui bisognava riferire sui problemi di governo, il suo accordo era necessario per conservare il potere.
Ma una religiosità così legata alle fasi della vita agricola non poteva essere sentita da chi a quella vita non si sentiva più direttamente connesso e prese a farsi spazio un'esigenza di razionaliz-zazione, aliena da preoccupazioni per il mondo soprannaturale. Confucio, interrogato da un discepolo sul mondo degli spiriti, rispose che non riteneva necessario interessarsene, in quanto bisogna pensare prima di tutto al mondo degli uomini, già di per sé di difficile comprensione.

I due principi fondamentali: yang e yin
Secondo le dottrine tradizionali cinesi tutto procederebbe dalla lotta e dall'unione di due principi fondamentali, yang, principio maschile attivo e luminoso, e yin, principio femminile passivo ed oscuro. Dall'unione dialettica di questi due opposti avrebbe avuto origine il mondo sensibile delle cose. Dal loro equilibrio o disequilibrio derivano i fatti naturali, astronomici e meterologici e su di essi si fondano anche i rapporti sociali. Questi due principi governano il mondo e le divinità del pantheon tradizionale cinese, loro espressione. Il Cielo è yang, così come il Sole; la Terra è yin come la Luna. Dall'unione-scontro del Cielo e della Terra, (cioè degli elementi climatici e metereologici), viene il raccolto col quale il contadino cinese si assicura la sopravvivenza. Per questo i grandi altari del culto pubblico tradizionale cinese, che veniva officiato prima dai re, poi dall'imperatore, in nome di tutto il popolo, erano dedicati - e ancora si ammirano a Pechino - al Cielo, alla Terra, al Sole e alla Luna. Il culto del Cielo e della Terra, con gli altari sparsi dappertutto e grandiosi specialmente nelle città capitali, era un culto agricolo e il sovrano che ne officiava i riti era il primo agricoltore.
In una civiltà agricola, ogni atto della vita lavorativa deve essere compiuto al momento giusto e secondo l'opportunità anche astronomica. Il mondo e la sua vita apparivano così regolati come da un orologio, il calendario che, scandendo il ritmo perenne dell'avvicendarsi delle stagioni e al loro interno di momenti altrettanto importanti, regolava la vita degli agricoltori insieme a quello delle sue piante e dei suoi animali. I due elementi, pure se diversi e in lotta, erano, poi, sempre l'espressione di un incessante svolgersi, la loro risultante si traduceva in un cammino, percorso da tutti, dal quale era impossibile discostarsi, il dao, la cui realizzazione rappresentava l'ideale, un ideale raggiungibile purché vi si adeguasse la vita degli uomini e della natura.
Yang e yin non hanno nulla a che vedere con la distinzione tra bene e male quale si incontra, ad esempio, nel mondo iranico e quale troviamo nel mondo giudeo-cristiano. I testi più antichi, che ci sono giunti nella redazione e nei rimaneggiamenti confuciani, se si propongono il problema che noi chiameremmo "del bene e del male", lo fanno soltanto nei termini di "retto comportamento", strettamente collegato al mantenimento dell'ordine sociale, mai posto in relazione con un'etica trascendente. Se diciamo che yin è principio negativo, in questo aggettivo non c'è più alcun giudizio di valore, così come non c'è, ad esempio, quando si definisce negativa una delle due polarità dell'energia elettrica. Nessuno dei due principii deve prevalere sull'altro e nessuno dei due è migliore o peggiore. Il danno (non il male) per l'uomo può venire soltanto dal troppo prevalere dell'uno sull'altro, dalla mancanza di equilibrio, come quando il troppo sole provoca la siccità o la troppa pioggia le inondazioni.Questo equilibrio, poi, una volta raggiunto, sarà sempre instabile e mutevole. Il libro classico che studia i diversi equilibri dello yang e dello yin, infatti, s'intitola proprio "Classico della mutazione", Yijing.
La continua dialettica tra yang e yin porta il mondo delle cose sensibili verso una continua trasformazione. E le cose sensibili, secondo la tradizione cinese, derivano dalla commissione di cinque elementi, che si trasformano uno nell'altro, in una circolarità cosmica. Mentre nella concezione della nostra classicità e del nostro medioevo gli elementi erano quattro, (acqua, aria, terra, fuoco), e ciascuno di essi tendeva a formare sfere concentriche fino ad un equilibrio finale che non sarebbe stato altro che stasi completa, i Cinesi vedevano il mondo composto da cinque elementi (legno, fuoco, terra, metallo, acqua) ciascuno dei quali produce l'altro e, allo stesso tempo, lo distrugge. Si costituisce così, nella concezione cinese, un ordine ciclico di continua trasformazione, dove il prevalere di un elemento sull'altro non è che parte del grande fluire e trasformarsi del mondo delle cose, sempre al di là di ogni giudizio morale.
Da questa matrice di pensiero si svilupparono le due correnti fondamentali della storia del pensiero cinese, il taoismo e il confucianesimo. Si tratta di due modi diversi di concepire la vita ed il mondo, partendo dalle medesime premesse. Se la natura è il modello al quale deve ricondursi l'uomo per il suo modo d'essere, d'agire e di comportarsi, se i fatti della vita devono essere coordinati e in armonia con quelli della natura, resta da domandarsi se questo adeguamento vada realizzato attraverso il non fare, la semplice contemplazione, il non intervento sul fluire degli avvenimenti oppure se si debba partecipare attivamente, in modo da restaurare continuamente il modello ideale che l'uomo, per conoscerlo, deve studiare a fondo.
Per i taoisti l'ideale etico fu quello del non fare, in quanto il dao stesso, innominabile, indescrivibile, incommensurabile, si realizza da solo e da solo fa realizzare tutte le cose. L'intervento umano non può, quindi, che disturbare l'azione del dao ed è, di per se stesso, un male. I confuciani, invece, predicarono l'intervento attivo.
Il fine cui tendono le due scuole di pensiero, in fondo, è il medesimo, cioè la realizzazione di un equilibrio, di una "grande pace", taiping, un'idea universale, quasi cosmica, di mondo ordinato e tranquillo, dove pace e felicità regnano sovrane.

Le dottrine taoiste
Il complesso degli insegnamenti del taoismo non è frutto della speculazione di una sola persona, bensì di quella di molti, avvenuta in tempi successivi. Esso ha, inoltre, raccolto numerosi elementi della religiosità popolare, dando loro una valenza mistica.
Lo stesso libro attribuito a Laozi, il mitico fondatore del taoismo, il Daodejing, almeno nella forma in cui ci è stato tramandato, sembrerebbe composto da più autori. Il recente ritrovamento, poi, d'un testo arcaico che presenta rilevanti differenze, specie nell'ordine dei versetti, rispetto a quello tradizionale, ha posto nuovamente in discussione l'intero problema.
Il taoismo è una filosofia dell'egoismo. Ma si tratta di un egoismo che non va inteso nel senso deteriore e volgare, distruttivo o, quanto meno, conservatore. Si tratta di un egoismo costruttivo, che conduce alla vera felicità ed alla vera soddisfazione dell'individuo, il quale, limitando la cerchia dei propri interessi e badando a non mettere mai a rischio la sua tranquillità personale, può raggiungere la pace interiore che lo fa essere felice. Per raggiungere questo stato di felicità il saggio dovrà cercare di fuggire dal mondo. L'ideale taoista è quindi l'eremita, che si ritira da tutto e lascia che la natura segua indisturbata il proprio corso. Soltanto nella solitudine più assoluta, infatti, l'uomo può avere cura della sua individualità, del suo io, senza essere distolto da questa occupazione e preoccupazione neanche dalla semplice presenza di altri uomini. Così, mentre Confucio avrebbe predicato la partecipazione attiva alla vita sociale da parte di tutti gli uomini, a seconda del loro rango e della loro capacità, i taoisti propugnavano la fuga dal mondo e l'abbandono di qualsiasi forma di socialità umana. In fondo, l'idea di natura è quella che predomina sempre in tutte e due le correnti di pensiero: solo che i taoisti non facevano alcun tentativo per adeguarvi la società umana, ma vi si immergevano completamente.
La semplice fuga dal mondo, però, non poteva rappresentare la soluzione di tutti i problemi dell'animo umano, in quanto essi si rappresentavano sempre, sotto nuove forme. L'eremitaggio è soltanto un tecnica dell'ascesi, e l'ascesi non può essere mai considerata fine a se stessa, essendo esercizio e volendo, quindi, una solida base teorica. Così nel cristianesimo essa viene concepita come un modo per avvicinarsi maggiormente a Dio e nel buddismo come la via principale per potersi privare del desiderio di vivere e sfuggire all'ineluttabile fatalità del Karma, per il quale ogni essere porta con sé le conseguenze delle buone e cattive azioni compiute anche nelle vite precedenti, ed al ciclo delle nascite e delle morti.
L'eremita taoista, pur cercando di isolarsi al massimo, fino a forme paradossali di egoismo, doveva anch'egli cercare una soluzione, adottare una regola di comportamento. Il principio, che questa regola sottintendeva, doveva essere quello di adeguarsi alle leggi della natura senza tentare di modificarne mai l'andamento, in quanto l'azione dell'uomo non può che essere deleteria, perché dipendente da impulsi e ragionamenti che mai possono abbracciare, tutto intero, l'ordine delle cose.
È il principio del wei er wu wei, cioè del "fare eppure non fare", espresso ed ampiamente svolto, sia pure in forma volutamente oscura nel Daodejing attribuito a Laozi.

Il "Classico della Via e della sua Virtù"
Questo classico fondamentale del taoismo, composto sembra intorno al 300 a.C. (ma del quale sono state ritrovate copie anteriori, pur se diverse) è diviso in due parti e conta in tutto ottantuno capitoli, numero nel quale si è voluto scorgere un recondito significato magico: infatti è multiplo del tre e del nove.
Delle due parti di cui è composto, la prima s'inizia con la parola dao, la seconda con de: ambedue le parole concorrono a formare il titolo. Mentre la seconda viene interpretata, ormai senza contestazione, come virtù o potenza del dao, intendendo la parola virtù non in senso etico, ma in senso naturalistico, magico; il problema fondamentale resta quello dell'interpretazione di dao.
L'ideogramma con cui questo concetto viene espresso, consiste in un carattere composto di due immagini: la prima suggerisce l'idea di movimento, l'altra quella di testa, come a dire "movimento in origine" oppure "origine in movimento". Il significato che ne risulterebbe è quello di una strada (che poi è il significato che gli si dà in lingua parlata) o di movimento di una strada: strada o via, dunque, in senso di viaggio, iter.
Fin dal primo capitolo si chiarisce, comunque, che ogni tentativo di definire il dao è vano, in quanto se potesse essere definito esso non sarebbe più dao. Mentre c'è un modo comune, ordinario, inferiore di considerare il dao per quello che usualmente significa, strada empirica, fissa, spazio temporale, esiste un altro e diverso modo di intenderlo, metempirico, ideale, superiore, che suggerisce semplicemente l'intuizione di una via in movimento, di un flusso o scorrimento interminabile, una via mobile come un fiume. Essere e non essere, vita e morte si alternano costantemente; niente è stabile, permanente, immutabile. Questa via corrente fatta solo di flusso, senza alcun substrato che lo supporti, è difficile e quasi impossibile a concepirsi per il senso comune. Essa sarà, quindi, un'altra via da quella cui si riferisce l'ordinaria terminologia.
E come per il dao si insiste su una concezione altra da quella tradizionale, che sembra troppo permeata di superficialità, così anche per de si trova subito, all'inizio della seconda parte, posto in risalto che si tratta di virtù altra dalla virtù comune, deteriore e convenzionale. Come il dao è, pur non essendo, la virtù taoista è, propriamente, non virtù, così come la potenza è impotenza, l'azione vera è non azione. Il metodo negativo, alla rovescia, è il metodo per superare ed inverare una posizione volgare, giudicata inferiore.

La concezione taoista della società e dello stato
La morale taoista è quindi la morale dell'inazione. Se tutte le cose partecipano del grande flusso del dao, è la negazione, il rovesciamento è l'aspetto vero della realtà, l'unica maniera di fare è non fare, astenersi da qualsiasi intervento sulla natura che sarebbe innaturale. Per questo Laozi, narra la leggenda della sua vita, visse umilmente e nascosto, facendo l'archivista nel piccolo dominio regio di Zhou e, pur riflettendo sui mali e le sciagure dell'umanità che ben conosceva, non mosse un solo dito per alleviarle, deridendo Confucio per il suo attivismo. E ciò non per pigrizia ed egoismo, ma perché sarebbe andato contro il dao. Adoperarsi ad un fine qualsiasi, secondo Laozi, significa ostacolare il flusso, opporsi al libero svolgimento della realtà. La natura ha in sé potenza e virtù per ordinare teologicamentre ad un fine, con provvidenzialità, il mondo sia fisico che morale.
A tutti i livelli, secondo ogni pessimismo (ed il taoismo, in effetti, è un pessimismo) l'essere è male proprio per il fatto che è, che il non-essere s'è macchiato, per così dire, di essere. Chi fa, per il taoismo, falla; per Laozi l'attività può portare soltanto a risultati parziali, fallaci, ingannatori, di natura inferiore, indegni del saggio, del sapiente. E questo egli avrebbe detto a Confucio, in occasione di un famoso supposto colloquio. Ma pure dato che non tutti possono ritirarsi completamente dal mondo e gli stati, sia pure come mali necessari, esistono, nel governarli si dovrà cercare di adeguarsi il più possibile alle leggi del dao, che è poi un modo per condurre le masse ad avvicinarsi e seguire quella stessa legge.
Governare è, quindi, non governare, come fare è non fare. «La grande pace - dice il Daodejing - si potrà ottenere soltanto se i governanti rimarranno inattivi» ed aggiunge: «Più leggi ed ordinanze si promulgano, più ladri e briganti vi saranno».
Secondo Laozi, quando il governo è amministrato con liberalità ed indulgenza, il popolo conduce vita quieta ed agiata, ma quando l'amministrazione è minuziosa, prolissa e molesta, il popolo, impacciato ad ogni passo, non può nemmeno guadagnarsi onestamente la vita. Nel governo degli stati sono richieste doti come l'umiltà e la condiscendenza, che si avvicinano all'inazione. Un sovrano non deve mai mostrarsi orgoglioso, ma deve comportarsi umilmente: infatti il mare ed i grandi fiumi stanno sempre più in basso dei torrenti e dei fossi, ma proprio per questo tutte le acque corrono a loro. Il popolo quindi deve essere trattato con rispetto da chi governa, mentre le misure amministrative e gli interventi d'autorità debbono essere ridotti al minimo. Da questa concezione all'anarchia il passo può anche essere breve. E la concezione taoista del mondo alimentò e sostenne coloro che si sentivano perseguitati ed oppressi dallo stato, dalla società, dall'ordine costituito.

La figura e l'opera di Confucio
Col nome di confucianesimo si intende quel complesso di dottrine filosofiche, a carattere prevalentemente etico morale, il cui maggiore esponente è stato Confucio (551 - 479 a.C.). Tale corrente di pensiero è più conosciuta in Cina, col nome di "scuola dei letterati" (rujia). Confucio, però, non può esserne considerato l'iniziatore né mai affermò di esserlo. Si tratta, infatti, di una concezione del mondo e dei rapporti sociali che si era venuta formando fino dall'antichità più remota e della quale Confucio fu il sistematore, in un periodo di crisi e di particolare tensione della storia cinese. Il confucianesimo ebbe anche altri maestri oltre a Confucio come Mencio (Mengzi, 372 - 289 a.C.), Xunzi (289? - 238? a.C.) e Zhu Xi (1130 - 1200 d.C.) per citare solo alcuni tra i principali ma a lui, comunque, va il merito di avere fissato, per la prima volta, il canone dei libri classici sui quali si è fondato tutto lo sviluppo successivo di questo pensiero. Giustamente, pertanto, questa scuola viene conosciuta in Occidente con questo nome, usato la prima volta dai missionari cattolici del XVII secolo.
Confucio (Kongzi e Kongfuzi, donde la latinizzazione Confutius) visse a cavallo tra il VI e il V secolo a.C. ed era originario dello stato di Lu, attuale Shandong. Studioso attento e appassionato di tutto ciò che restava delle antiche tradizioni, iniziò ben presto a raccogliere attorno a sé dei giovani ai quali insegnava le sue dottrine, che consistevano, appunto, nel trasmettere quella che egli chiamava la saggezza degli antichi. Usava dire che trasmetteva soltanto ciò che gli antichi avevano pensato e praticato; lo studio consisteva per lui nella ricerca di modelli di comportamento tratti dal passato, quando le virtù non si erano state ancora offuscate. Il suo insegnamento verteva essenzialmente sull'arte del governo e sul comportamento personale socialmente inteso. Però, pure insegnando quest'arte, egli non potè sperimentare che una sola volta le sue capacità di amministratore, tra il 501 e il 500, quando il duca di Lu gli conferì gli incarichi di ministro della giustizia e di intendente ai lavori pubblici. Nonostante le amplificazioni entusiastiche della tradizione, che vuole che in questo breve periodo lo stato fosse amministrato in maniera perfetta e che Confucio fosse estromesso, alla fine, soltanto per effetto di basse invidie e malevole insinuazioni calunniose, in realtà non riuscì ad ottenere, nella pratica, il successo politico nel quale aveva sperato, scontentando tutti col suo rigoroso formalismo. Tornò all'insegnamento privato e peregrinò per i diversi stati, raccogliendo discepoli sempre più numerosi e dedicandosi alla raccolta dei testi antichi, in poesia e in prosa, dei quali compose due antologie, raccogliendovi tutti quei testi che considerava consoni al suo insegnamento ed alla sua dottrina. Sono lo Shijing o "Classico della Poesia" e lo Shujing o "Classico dei Documenti". In vecchiaia tornò a Lu dove scrisse una storia, in forma cronachistica, del principato, "Primavera e Autunno" (Chunqiu), dalla quale ha tratto il nome il periodo storico corrispondente, e si dedicò allo studio del "Classico della Mutazione", cercando di comprendere, attraverso la combinazione di linee intere e spezzate, simboleggianti rispettivamente i principii yin e yang, il senso della vita e la situazione cosmica attuale. Terminò i suoi giorni a Lu. Qui nell'anno 479 moriva circondato dal lutto universale. Sul luogo dove venne sepolto i suoi discepoli piantarono 100 alberi, portandone i germogli ciascuno dal suo paese di origine. Finito il lutto si dispersero ma, senza dimenticare l'insegnamento del maestro, ne avrebbero continuato e diffuso il pensiero. Mentre in vita non aveva avuto che delusioni, dopo la morte gli vennero conferiti gli onori più grandi e, nel corso dei secoli, quando il confucianesimo divenne dottrina ufficiale dello stato cinese, gli venne tributato un vero e proprio culto, anche se di carattere esclusivamente civile. Postumamente gli vennero conferiti titoli onorifici di ogni tipo ed ai suoi discendenti, giunti oggi alla sessantasettesima generazione, onori e cariche particolari, che ne fecero una stirpe privilegiata, di una nobiltà che traeva origine non dall'esercizio delle armi o dal potere politico, ma dalla cultura.

Il pensiero confuciano: la "rettificazione dei nomi"
A parte la "Primavera e Autunno", a Confucio non può essere attribuita alcuna opera né la tradizione ci parla di suoi scritti che non ci sono, poi, pervenuti.
I libri classici del confucianesimo sono essenzialmente i "Cinque classici" (Wu Jing) ed i "Quattro libri" (Si Shu). I primi sono costituiti, oltre che dalla "Primavera e Autunno", dalle antologie raccolte da Confucio e di cui già si è detto, dal "Classico della Mutazione", preesistente, e dalle "Memorie sui riti" (Li Ji) che è opera più tarda e raccoglie norme di comportamento che la sua scuola volle attribuire a Confucio. Anche i "Quattro libri" non sono sicuramente opera del Maestro. Di questi uno, il Mengzi, riferisce esplicitamente i discorsi e le idee d'uno dei maggiori continuatori del suo pensiero; gli altri e cioè la "Grande Scienza" (Daxue), la "Medianità Costante" (Zhongyong) e i "Discorsi" (Lunyu), furono composti molto tempo dopo la sua morte.
Confucio non volle mai interessarsi di questioni soprannaturali. Non c'è, nel confucianesimo, alcuno spunto soteriologico, nessun messaggio di salvezza proiettato in un'altra vita. L'uomo potrà realizzare se stesso ed i suoi valori soltanto nella società ed il fine ultimo della vita umana è visto in funzione dell'attività che ogni singolo uomo svolge nella sua posizione sociale. Questa, pure se suscettibile di miglioramento, è sempre, nel momento considerato, fissa e ben determinata. Per raggiungere le finalità proprie alla posizione e agli obblighi sociali di ciascuno, sarà necessario che la conoscenza umana si fondi su qualcosa di inequi-vocabile, che non lasci adito a dubbi (si dice che a quarant'anni Confucio non avesse più dubbi!) e ciò potrà essere realizzato soltanto se ogni cosa, ogni fatto, sarà conosciuto per quello che realmente è, se i nomi saranno corrispodenti a ciò cui si riferiscono. Si tratta della cosiddetta "rettificazione dei nomi" (zhengming), chiave di volta di tutto il pensiero confuciano. Per realizzare, nella pratica, tale operazione, occorre dedicarsi allo studio delle tradizioni e della storia, da cui si potrà comprendere il significato di tutte le cose e, in particolare, grazie ad appropriati modelli, si potrà raggiungere la consapevolezza dei propri doveri.
I doveri dell'uomo consistono soprattutto nella pratica di due virtù: "rettitudine" (yi) e "umanità" (ren). La rettitudine sta nell'osservare dei doveri derivanti dalla propria posizione sociale, l'umanità nella sensibilità, tipica dell'uomo, di amare il prossimo, al quale non si dovrebbe fare mai nulla che non si vorrebbe fatto a se stessi. Sono virtù che non si possono coltivare nell'isolamento, nell'eremitaggio, ma solo a contatto con altri uomini, nell'ambito della società.
Per identificare i doveri prescritti dalla virtù della rettitudine, è necessaria un'adesione completa al mondo e alle sue manifestazioni. Per modello della società umana verrà presa la famiglia, forma primitiva e spontanea di associazione fra uomini. Lo stato sarà concepito come una grande famiglia (e del resto le sue prime strutture non erano state altro che una rete di rapporti familiari), il sovrano sarà "padre e madre" (fu mu) per i sudditi e questi dovranno ricambiarlo con rispetto, amore e obbedienza, come figli. Nessuno potrà sottrarsi ai doveri della propria condizione né questi potranno essere adempiuti in vista di un profitto personale.
L'idea di profitto è completamente rifiutata dal confucianesimo e la cosa ebbe non lievi conseguenze nello sviluppo dell'economia cinese. L'uomo deve fare, e fare per niente. La prosperità dello stato, e quindi del popolo, si realizza soltanto se ciascuno compie disinteressatamente il proprio dovere.
Per realizzare la virtù (yi), il padre, una volta conosciuti i suoi doveri di padre, si comporterà da padre che ama il figlio; il figlio, conosciuti i suoi doveri filiali, amerà il padre, comportandosi conseguentemente e realizzando così quell'altro cardine del confucianesimo e della morale cinese che è la virtù della "pietà filiale" (xiao). Come ha opportunatamente osservato il Granet, si tratta di virtù eminentemente sociali, che non si possono coltivare altro che in contatto con altri uomini e in una società organizzata e civile.
Quanto poi agli individui, essi, per realizzare e coltivare la virtù della rettitudine, dovranno essere attivi socialmente, sia nell'ambito del piccolo mondo familiare, sia in quello più vasto della vita dello stato. Essi non potranno sottrarsi in alcun modo ai doveri connessi alla loro posizione sociale, (che per il confucianesimo è sempre una posizione naturale), né potranno adempierli in vista e in attesa di un profitto personale. Il profitto (li) è, infatti, considerato assolutamente incompatibile con la rettitudine.
Così, per il confucianesimo, bisogna fare, e fare per niente, soltanto al fine di realizzare quell'armonia tra cielo e terra che sola garantisce prosperità e benessere. Il bene, qui, è rappresentato dall'aderenza del comportamento all'ordine naturale e sociale, il male da tutto ciò che causa disordine.
Lo studio della storia era considerato essenziale al fine di poter realizzare la "rettificazione dei nomi". La conoscenza dei nomi giusti poteva venire, infatti, soltanto dalla conoscenza della storia. Era necessario, per il letterato confuciano, prestare attenzione ai modelli trasmessi dalla tradizione storiografica autenticata, che dava indicazioni sui modelli approvati, degni di imitazione. Per questa ragione gran parte degli scritti storici cinesi consiste di biografie. Per mezzo di questo processo di conoscenza, le virtù confuciane - che ognuno, a seconda della sua posizione nella società, era obbligato a praticare - prendevano un significato concreto e fattuale, collegato allo studio della storia che, a sua volta, veniva scritta nel solco dell'ideologia del governo. Il principale compito dell'imperatore, e dei suoi funzionari che agivano in suo nome, era quello di istruire il popolo, di educare le masse (per adoperare un'espressione cinese contemporanea) a comportarsi nella maniera corretta, per mezzo di esempi positivi e negativi. Così la storia dava la possibilità di realizzare ordine e pace nello stato. In questo modo la storia era considerata instrumentum regni, strettamente connesso con la morale e il comportamento pubblico e privato. La storiografia, di conseguenza, primeggiava tra le attività letterarie e fin dall'antichità più remota una posizione ufficiale era assicurata al suo ruolo. Uffici statali vennero istituiti per registrare le attività dell'imperatore e del governo. La documentazione raccolta sarebbe stata utile in futuro, al fine di stabilire i modelli da imitare o da evitare.

L'importanza dei riti
Il fare confuciano si estrinseca attraverso l'osservanza dei riti (li, omofono dell'ideogramma che significa "profitto"), un complesso di norme che regolano i rapporti ed i comportamenti umani, indicando la strada giusta da seguire, in ogni occasione. Per ogni rapporto umano e sociale, per ogni circostanza, sono stabiliti dei riti. In particolare vengono prese in considerazione cinque relazioni sociali fondamentali alle quali, per analogia, possono essere ricondotte tutte le altre. Esse sono quelle tra principe e suddito, tra padre e figlio, tra fratello maggiore e fratello minore, tra marito e moglie e tra amico e amica. Non si tratta mai di un rapporto di parità: anche nella relazione tra amica ed amico si distingue tra quello più anziano e quello più giovane. Per ciascuna di queste relazioni furono codificate regole di comportamento rigide, limitative della libertà individuale. Nel sistema confuciano, infatti, l'unica libertà prevista è quella di migliorarsi per aderire meglio al modello di comportamento proposto e prescritto dai riti. Questo miglioramento può fare raggiungere anche la perfezione totale. Gli uomini sono tutti, più o meno, dotati delle medesime qualità, salvo alcuni, i "santi" (shengren), che hanno qualità eccelse. Si è diversi soltanto per le abitudini contratte e, perciò, a tutti è possibile elevarsi. il mezzo è lo studio che può trasformare un "uomo comune" (shuren) in "uomo superiore" (junren). L'uomo superiore è quasi all'altezza del "santo" ed ha raggiunto il suo stato di quasi perfezione grazie allo studio della letteratura ed impadronendosi dei riti. A questi uomini dotti può essere affidato il governo dello stato.
Il termine stesso con cui i Cinesi esprimono l'idea della bontà e del bene fa esplicito riferimento a questo ordine naturale ed ai rapporti familiari. L'idea di bontà è rappresentata da un ideogramma composto da altri due ideogrammi, uno che rappresenta una donna, l'altro un bambino. Bene è l'amore che unisce madre e figlio, due generazioni nella stessa famiglia.
Per indicare il male, invece, si può dire che non esista alcun ideogramma specifico. A seconda delle situazioni si useranno quello che significa disordine, quello negatore della natura umana, oppure, quello composto, con una posizione chiaramente maschilista, da tre donne contemporaneamente insieme.
Se poi andiamo a vedere come viene rappresentata, ideograficamente, l'idea della virtù dell'umanità, possiamo fare un'altra constatazione interessante. Si tratta, infatti, di un ideogramma che si compone di due parti, una che significa uomo, l'altra che significa due. Esso vuole significare, perciò, il rapporto che deve intercorrere tra una pluralità di uomini. È una virtù che si acquisisce solo vivendo in una società di persone unite dagli stessi interessi di armonia sociale. Nei "Discorsi" Confucio viene continuamente interrogato su questo concetto e, di volta in volta, risponde con le definizioni più varie, tratte da esperienze concrete. Ma, seguendo ancora una volta il Granet, si può dire che, se tutte queste definizioni variano, è perché si tratta di una virtù completa in sé e che solo l'ideogramma che la indica può esaurire. Afferrarne il senso, così vagamente anche se coerentemente espresso nell'ideogramma, è di importanza fondamentale; solo chi possiede questa virtù relativa al rapporto con gli altri può essere chiamato uomo. Per questo al confucianesimo si applica giustamente la definizione di umanesimo, perché considera l'uomo al centro dell'universo, in armonia col cielo e la terra, parte integrante e attiva di una società che si fonda sulla sapienza degli antichi e sull'elevazione morale del singolo.
Come si vede, in questo pensiero non c'è posto per un signore del male, per un diavolo in figura anche personalizzata, come pure, possiamo dire, non c'è posto per il signore del bene, per Dio. E ben se ne accorsero i missionari, sia cattolici che protestanti, che stentarono perfino a tradurre il termine "Dio" in cinese, e dovettero ricorrere a perifrasi o a termini presi in prestito dal linguaggio buddista, suscitando dispute teologiche, sospetti ed accuse di eresia.
I demoni che compaiono nel pantheon popolare cinese, come pure nelle descrizioni degli inferni buddisti, non sono signori del male. Possono essere terrifici, come terrifico è l'uragano che non è cattivo in sé ma lo è soltanto come disordine della natura che consegue ad un disordine sociale. Ed i demoni che sottopongono i dannati alle più efferate torture sono, in ultima analisi, degli esecutori di opere di giustizia, dei boia, ma non dei diavoli nel senso che noi attribuiamo a questo termine.

I continuatori di Confucio: Mencio e Xunzi
La questione del bene e della bontà venne affrontata dal pensiero cinese, più a fondo, nelle generazioni successive a Confucio, nel IV secolo a.C. Meng Ke o Mengzi (372 - 289 a.C.), conosciuto in Occidente come Mencio dalla latinizzazione Mentius, viene considerato il principale continuatore di Confucio, anche se visse oltre un secolo dopo il maestro. I libri che riferiscono i suoi discorsi furono inseriti nel canone confuciano. Anch'egli, come Confucio, trascorse la sua vita insegnando ed offrendo i suoi consigli ai principi; non assunse, però, mai cariche pubbliche. Egli sviluppò in particolare due punti della filosofia confuciana, la politica ed il problema della natura umana e dei suoi sentimenti innati.
Per Mencio ogni uomo può raggiungere il grado di virtù posseduto dai mitici imperatori Yao e Shun, purché sviluppi i "semi" delle virtù stesse, che sono insiti nella sua natura. E questa natura, per lui, è fondamentalmente buona: lo studio e l'applicazione continua debbono contribuire a farla rivelare per quello che è effettivamente; i semi della virtù possono così germogliare e dare frutto.
Mencio esemplifica ciò facendo il caso di un bambino che precipita in un pozzo. Tutti coloro che lo scorgono, anche se il bambino non appartiene al proprio gruppo familiare (ché allora soccorrerlo sarebbe un preciso obbligo) non riescono a nascondere un senso di ansia e spavento. Ebbene, la compassione, l'ansia, lo spavento che essi provano nel vedere un proprio simile, specie se debole e indifeso come un bambino, in una situazione di pericolo, sono i segni distintivi della natura umana, frutto d'un qualcosa d'innato che si ritrova in ogni uomo.
Oltre a quello della compassione, sono innati nell'uomo per Mencio, anche i sentimenti della vergogna, della modestia, del giusto e dell'ingiusto. Sono questi i "quattro semi" delle virtù, da essi potranno svilupparsi grazie ad una adeguata opera di educazione. I "quattro semi" fanno parte della natura umana come i quattro arti fanno parte del corpo: tutti li possiedono. Dalla compassione si svilupperà la virtù dell'umanità, dalla vergogna si svilupperà la rettitudine, dalla modestia la correttezza, mentre il sentimento del giusto e dell'ingiusto è il seme della saggezza. Il loro sviluppo sarà rigoglioso, se stimolato convenientemente dallo studio.
Confucio aveva insegnato che il sovrano deve curare il benessere del popolo e che il popolo deve essere filiale al sovrano. Mencio amplia il discorso e pone l'accento soprattutto sui diritti del popolo. Per lui, infatti, è questo l'elemento più importante dello stato; dopo il popolo vengono gli spiriti della terra e delle messi (cioè l'economia) ed infine il sovrano che ha, però, il compito di garantire l'armonia tra tutti. Se il sovrano viene meno ai suoi doveri e maltratta il popolo, perde la sua dignità, è come squalificato, ed ogni ribellione contro di lui è legittima: egli può essere spodestato e messo perfino a morte. Infatti, il potere deriva da un espresso "mandato del cielo" che, come gli è stato dato, così può essergli tolto, in quanto il mandato è concesso nell'interesse del popolo.
Per governare secondo le virtù confuciane di rettitudine e umanità, escludendo ogni preoccupazione di profitto, il principe deve occuparsi del benessere e dell'educazione dei suoi sudditi. Non si può esigere un comportamento corretto da un popolo affamato. Il principe dovrà fare in modo che il grano nei magazzini sia abbondante e che ai vecchi siano garantiti abiti di seta. Una adeguata divisione del lavoro potrà contribuire a risolvere i problemi economici. Agli estremisti che sostenevano che anche il principe doveva coltivare la terra con le sue mani, Mencio opponeva l'argomento che, come esistono artigiani specializzati, così debbono esistere persone che si dedicano all'arte del governo. È una prima ed antica intuizione della classe politica.
Ma, se è necessario assicurare il benessere del popolo, questo deve anche essere educato. Per Mencio ogni uomo possiede in sé i semi della virtù; per farli germogliare e sviluppare sarà necessario lo studio che consentirà a tutti di raggiungere il pieno possesso e la pratica delle virtù fondamentali. Sicché la natura umana è intrinsecamente buona ed i mali dell'umanità vengono soltanto da scarso studio e conoscenze limitate.
Le affermazioni di Mencio sulla bontà della natura umana non vennero pacificamente accettate dalla scuola confuciana. Anzi, esse dettero l'avvio ad una discussione dalla quale scaturirono interessanti sviluppi ed una scuola di pensiero che, in seguito, si sarebbe distaccata dal confucianesimo, il legismo.
Il maggiore esponente di questa scuola fu Xunzi, (289 - 238 a.C.), vissuto nella generazione successiva a Mencio. Per Xunzi la natura umana è intrinsecamente cattiva e l'uomo tende spontaneamente al male, anziché al bene. Tutto ciò che c'è di buono nell'uomo proviene dall'educazione ricevuta. Se esistono dei semi, essi sono di tutt'altra natura da quelli di cui parlava Mencio. L'uomo nasce con l'amore per il guadagno, è per natura collerico e rissoso, le passioni dei sensi lo dominano facilmente, se non sono adeguatamente frenate. Anche quelle manifestazioni che potrebbero essere considerate buone a prima vista, come l'amore per i propri figli, non sono altro che istinti che l'uomo ha in comune con gli animali. Però l'uomo, diversamente dagli animali, può coltivarsi, elevare se stesso, diventare buono. Anche per Xunzi lo studio è, quindi, di capitale importanza. Per coloro, poi, che non riescono a migliorarsi studiando, si potrà ugualmente fare qualcosa, emanando leggi e regolamenti che, con la forza, assicureranno un comportamento di tutti secondo rettitudine ed umanità.
Compito del saggio è di guidare l'umanità verso le virtù, anche con mezzi di coercizione. «La natura dell'uomo è cattiva - afferma Xunzi - tutto ciò che c'è di buono in lui deriva da un'educazione acquisita»: se i semi esistono nella natura umana, essi sono tutt'altra cosa da quelli descritti da Mencio. L'uomo nasce con l'amore per il lucro, è per natura collerico e invidioso, le passioni dei sensi lo dominano completamente, rendendolo schiavo. Lasciato a se stesso, l'uomo si darebbe alla licenza sfrenata e alla sregolatezza. Gli istinti, come quello dell'amore per la prole, non lo differenziano sensibilmente dagli animali. Però l'uomo può elevarsi, coltivando se stesso e sforzandosi di diventare buono, utile a sé e agli altri. Tutto ciò che esiste di buono al mondo è frutto dello sforzo degli uomini, ciò che è valido proviene dalla cultura e dall'educazione. È necessario, quindi, per realizzare una convivenza civile e ordinata, dedicare i propri sforzi a correggere l'originaria malvagità della natura umana. Questa fu la funzione svolta, secondo Xunzi, dai grandi saggi dell'antichità, di cui era viva la memoria nella tradizione confuciana. Per Confucio e Mencio la storia dell'umanità si era svolta in un continuo regresso morale, l'opera del saggio doveva consistere nel fare sì che si ritornasse al bene originario. Per Xunzi, invece, la storia rappresenta un progresso continuo: nel corso dei secoli, grazie all'opera dei saggi e dei reggitori dello Stato, la natura umana può, infatti, liberarsi dalle passioni e dalle malvagità che ad essa sono connaturate, realizzando così un mondo sempre migliore.
Per Xunzi soltanto vivendo in una società organizzata l'uomo riesce a dominare perfino gli animali che, per natura, sono ben più forti e veloci di lui. Ma se è necessaria un'organizzazione sociale, sono altrettanto necessarie delle regole di condotta, i riti ed il senso della giustizia: essi serviranno a porre dei limiti all'esplodere delle passioni, ad evitare il disordine. I riti, base e fondamento di ogni virtù, che per Confucio dovevano servire soltanto per coloro che non riuscivano a comprendere appieno, debbono essere appresi. Ciò si potrà ottenere soltanto con l'educazione e lo studio, in specie dei classici dove sono esposti i fatti e i detti di coloro che indirizzarono l'umanità verso il retto cammino.
Le conclusioni cui giungeva Xunzi erano ancora, all'atto pratico, vicine a quelle del confucianesimo ortodosso. Ma dalle dottrine di Xunzi derivò una scuola che si distaccò ben presto da quella confuciana, con cui entrò, anzi, in fiera opposizione: la scuola "legista" (fajia), così chiamata per l'importanza che dava ad un governo per mezzo delle leggi e non per mezzo dei riti. Anche i legisti, come i confuciani, predicavano la partecipazione attiva alla vita della società e dello stato, ma con una visione completamente diversa. Infatti, per i legisti, le virtù non sono, né possono essere connaturate all'uomo, ma soltanto un'esigenza della vita comunitaria, che altrimenti sarebbe impossibile. È la comunità umana, cioè lo stato, che deve obbligare gli uomini alla virtù, stabilendo leggi ferree, comminando punizioni che scoraggino dal trasgredirle e conferendo, al tempo stesso, premi a chi si comporta rettamente. L'egoismo dell'uomo può essere stimolato, infatti, dall'aspettativa e dal raggiungimento di immediati e sostanziosi benefici. Come il confucianesimo, infatti, ed a differenza dei taoisti, la dottrina legista propugnava la partecipazione attiva alla vita della società ed alla politica.

La società confuciana
Il confucianesimo ha costituito la base ideologica della società cinese in età premoderna ed ancora oggi esercita su di essa una influenza considerevole. Esso poneva al vertice della sua scala di valori la classe dei letterati-funzionari, coloro che, in possesso della cultura ed in grado di interpretare quella tradizione su cui si doveva fondare ogni azione di governo, gestivano il potere politico e amministrativo. Subito dopo venivano i contadini, produttori dei generi di sussistenza e da cui originava il gettito dell'imposta fondiaria che finanziava le spese dello stato imperiale. Artigiani e commercianti erano tenuti al più basso livello sociale: i commercianti, in particolare, occupavano il gradino inferiore di quella scala di valori. In questo contesto sociale e ideologico, le attività commerciali ebbero sempre un ruolo subalterno. Esse venivano tollerate, quasi male necessario: mai incentivate. Il profitto che erano tese a conseguire veniva condannato moralmente e la ricchezza che poteva provenirne era considerata indegna "dell'uomo superiore" confuciano. Le fiere che si tenevano in campagna o in appositi recinti fuori delle cerchie murate della città, erano sufficienti per gli scambi essenziali di prodotti dell'artigianato rurale e dei campi. I grandi movimenti di merci avevano luogo, in pratica, solo con il trasporto dei tributi, pagati in natura, dalle campagne alle capitali del distretto e di provincia e, di qui, a quella imperiale. Nelle città cinesi è documentata l'esistenza, fino dall'antichità, di mercati da cui si svilupparono organizzazioni di commercianti, specie di corporazioni o gilde, che rispondevano all'autorità mandarinale della riscossione dei tributi e, al tempo stesso, regolavano i rapporti tra gli affiliati. Il tribunale del mandarino imperiale si disinteressava delle dispute commerciali e interveniva solo quando queste, sconfinavano nel penale, lo costringevano a ristabilire l'ordine turbato. Le corporazioni cinesi non ottennero mai, però, dall'autorità statale diritti e privilegi come le corrispondenti organizzazioni dell'Occidente europeo. Esse si limitavano soltanto a fare da tramite tra gli esercenti e l'autorità. Anche il loro ruolo politico fu praticamente nullo, né dai loro aderenti nacque un ceto paragonabile a quello della borghesia europea. Del resto i mercati tenuti rigorosamente fuori o ai margini della città murata dove erano i palazzi amministrativi e le residenze dei funzionari, venivano circondati a loro volta di mura strettamente sorvegliate e si presentavano come villaggi a sé, che si autogovernavano come quelli agricoli. La ricchezza derivante dai commerci non dava al suo detentore alcuno status, ma gli consentiva soltanto di acquistare una carica o di mandare i figli agli studi, per fare loro superare quegli esami di stato che li avrebbero fatti ammettere alla classe dei letterati, avviandoli così alla carriera politico amministrativa. Questa era, infatti, l'unica via per l'ascesa sociale. L'amministrazione dell'impero era burocratica e centralizzata. Essa non conosceva - come del resto non conosce nella Cina Popolare - alcuna separazione di poteri. Come l'ideologia ufficiale è oggi il marxismo-leninismo, integrato dal "pensiero di Mao Zedong", l'ideologia ufficiale dell'impero cinese era il confucianesimo, cui gli aspiranti funzionari, nel presentarsi agli esami di stato e nel sostenere le prove, dovevano mostrare di aderire. Ad esso dovevano conformarsi, nel corso della loro attività di servizio, anche quando amministravano la giustizia. Il governare consisteva, essenzialmente, nell'applicare alla realtà quotidiana i principi che la tradizione confuciana aveva codificato e fissato in secoli di esperienza: di questa tradizione erano interpreti i funzionari e l'imperatore. Della tradizione quest'ultimo era il depositario ed il più qualificato interprete: in un certo senso egli era il primo e più alto funzionario dell'impero, anch'egli obbligato allo studio (e a tal fine aveva i suoi maestri) e sottoposto alle critiche che un apposito corpo di censori, sfidando le sue ire, gli inviava più spesso di quanto non si pensi, anche se sovente con scarso successo. Capo supremo dello stato e fonte del diritto, l'imperatore deteneva, secondo la tradizione, un "mandato celeste" che imponeva a lui, ed a tutti i sottoposti che in suo nome agivano, di fare del tutto perché, in armonia con la natura e con le forze che pervadono e percorrono il cielo, la terra e il mondo degli umani, si realizzasse l'osservanza del dao, della "via", cioè, verso il giusto equilibrio.
L'equivalente sociale del dao erano i li, i riti, norme che regolavano il giusto comportamento di ognuno. Ciascun componente della società, infatti, aveva il suo giusto posto, a lui riservato. In questo ambito doveva ricevere il dovuto e doveva compiere il proprio dovere, senza possibilità di derogarvi. La legge (fa) aveva quindi soltanto valore surrogatorio rispetto alla morale: quando un individuo o un gruppo non voleva o non riusciva a compiere quanto era previsto dalla norma morale, allora intervenivano le punizioni previste dalle leggi. Queste erano considerate, però, una extrema ratio, alla quale era sconsigliabile ricorrere, anche per il funzionario-giudice: dover fare ricorso alle punizioni previste dalle leggi significava, se non altro, aver mancato di adempiere al compito istituzionale di realizzare l'armonia e, quindi, di non essere stato capace di governare.
Su queste basi di governo, fondato sui riti e non sulle leggi, si resse per secoli l'impero cinese, una formazione socio-politica che rimase ineguagliata, per dimensioni, solidità e durata, fino all'epoca moderna. Eppure, se si procede ad un'analisi più approfondita della società cinese tradizionale, essa dimostra, nel suo sviluppo, limiti evidenti in campi particolarmente significativi. Essa mancò, infatti, di razionalizzare il diritto e le procedure giuridiche come non riuscì a differenziare strutture economiche specializzate e a dare ad esse la necessaria protezione giuridica che ne consentisse l'affermazione e lo sviluppo. Così pure in Cina non si svilupparono le istituzioni monetarie necessarie a sostenere un sistema di mercato ampiamente ramificato, anche se, molto tempo prima degli Europei, i Cinesi avevano conosciuto sistemi di pagamento fondati sulla carta moneta. Per il commercio c'è da sottolineare che non si sviluppò mai un forte ordine giuridicamente definito, tale da garantire indipendenza e sicurezza agli operatori, che invece erano costretti a dipendere dai gruppi politicamente potenti, fino a identificarsi con essi. La corruzione del funzionario, spesso più sensibile alla bustarella che non alle esigenze di armonia del dao, divenne rampante nei periodi di decadenza, né v'erano leggi che potessero efficacemente garantire i commerci. Di questo c'è ampia testimonianza nei documenti storici, nella letteratura e nelle testimonianze dei viaggiatori. L'imperatore Yongzheng, nel XVIII secolo, giunse ad istituire speciali indennità per i funzionari esenti da accuse di corruzione, nel vano tentativo di arginare un fenomeno che andava assumendo troppo gravi proporzioni.
Nell'incontro-scontro con l'Occidente, a partire dalla "guerra dell'oppio" (1839), queste debolezze del sistema apparvero sempre più chiare e, nel confronto, la Cina risultò perdente. Dovette accettare trattati ineguali, extra-territorialità e giurisdizione consolare per gli stranieri residenti, apertura forzata dei porti e tariffe doganali imposte dai trattati. Sarebbe dovuto trascorrere oltre un secolo perché la Cina prendesse il posto che le spettava nella comunità internazionale e perché si avviasse efficacemente verso la modernizzazione.


http://www.fondazionericci.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/112



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