Una Diplomazia asimmetrica - La Cina scompagina l'ordine mondiale
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Una Diplomazia asimmetrica
La Cina scompagina l'ordine mondiale





Sul continente asiatico si sta ormai giocando una partita a quattro tra Cina, India, Giappone e Stati uniti. Il 18 e 19 luglio 2005, George W. Bush ha ricevuto con grandi onori il primo ministro indiano Manmohan Singh - il quale, pochi mesi prima, aveva avviato trattative con i dirigenti cinesi per risolvere le vertenze di frontiera. La Cina tenta di aggirare la forte alleanza nippo-americana e di guadagnare un nuovo spazio nel mondo attraverso una «diplomazia asimmetrica». Primo successo: su pressione di Pechino, la Corea del Nord ha accettato di tornare al tavolo dei negoziati sul disarmo nucleare.

Martine Bulard
Nella lingua cinese, è la posizione delle parole all'interno di una frase - più che le parole stesse - a determinarne il significato.
Il principio si applica perfettamente alla strategia geopolitica della Cina. Da Pechino a Shanghai, dai rappresentanti del governo agli animatori più noti di think tanks, senza dimenticare gli universitari, è impossibile sfuggire alla parola simbolo del momento: stabilità.
Per capire il vero significato del termine, bisogna inserirlo nel contesto di un paese in perpetuo movimento, dove i viaggi all'estero dei dirigenti di stato non sono mai stati così frequenti, dove i circoli universitari, aperti più che mai verso l'esterno, svolgono il nuovo ruolo di teste pensanti per il potere... anche quelli finanziati da generosi filantropi stranieri. Così, il Centro di studi internazionali della prestigiosa università di Beida, a Pechino, composto da tre edifici ultramoderni, è patrocinato da un mecenate di Hong Kong per l'ala sinistra, da un'impresa italiana per il corpo centrale e da una grande ditta di Hong Kong per l'ala destra. Ognuno si è rivolto a un architetto diverso, ma il risultato finale è armonioso e si integra perfettamente al complesso storico (1). Apertura non significa abbandono. Così come stabilità non è sinonimo di immobilismo.
Nel suo ufficio, proprio di fronte alla torre Feng Lian, dove prosperano negozi di lusso inaccessibili ai comuni mortali cinesi, Kong Quan, portavoce del ministero degli affari esteri (Mae), spiega con fare dottrinale: «Prima di tutto, la Cina vuole creare una situazione di stabilità che favorisca lo sviluppo». A molte centinaia di chilometri di distanza, a Shanghai, nel cuore della celebre università di Fudan, nei nuovissimi locali del Centro di studi americani (Cea) - in parte finanziati dall'Agenzia americana per lo sviluppo internazionale (Usaid) - , neppure il professore Shen Dingli, grande specialista di questioni nucleari, e in genere poco incline al politichese, sfugge all'inevitabile riferimento alla stabilità. Niente lo spaventa più di una destabilizzazione - sempre possibile - nella vicina penisola coreana, o in Medioriente, da dove proviene quasi la metà delle importazioni cinesi di petrolio.
Lo studioso, a suo modo, fornisce la chiave per capire ciò che alcuni hanno chiamato la «diplomazia dello statu quo». Per Pechino è preferibile l'ordine garantito - anche se americano, anche se poco favorevole - al caos, che vede come un ostacolo ai progetti di crescita e alle sue aspirazioni mondiali. La crescita assicura infatti la base del patto sociale interno che, a volte più a volte meno, garantisce comunque la continuità del regime. I progetti mondiali mirano invece a ridare alla Cina «il posto che le spetta sulla scena internazionale», secondo l'espressione del portavoce Kong. Un po' meno silenziosa e un po' più attiva oggi rispetto a ieri. Ma molto meno di domani, in sintonia con la crescita di potere del paese.
Contrariamente a quanto si crede, l'economia non è l'unica guida di una diplomazia che si vorrebbe solo tesa a riempire la bisaccia cinese di materie prime o di cereali. Certo, le relazioni internazionali devono contribuire a garantire l'approvvigionamento energetico e la sicurezza alimentare. Ma l'economia si inserisce nella visione più vasta che la Cina ha di se stessa, nella regione e nel mondo.
Fa parte dell'arsenale pacifico indispensabile a un qualsiasi riconoscimento sulla scena internazionale. Non è raro il richiamo alla «storia di questi ultimi cinquecento anni»: senza un'economia forte, non c'è paese che venga ascoltato.
Questa riflessione ha come punto di riferimento tre date che hanno segnato la storia degli ultimi anni. La prima riguarda gli avvenimenti di piazza Tienanmen, argomento ancora tabù per la stampa (2). Il problema non nasce da un'eventuale rimessa in discussione del regime stesso - le opposizioni politiche continuano ad essere proibite, anche se, paradossalmente, gli intellettuali dispongono di una maggiore libertà di movimento. Ciò che più spesso viene sottolineato è il prezzo che si è dovuto pagare rispetto all'esterno. A cominciare dall'embargo occidentale, iniziato proprio quando l'Unione sovietica non era più in grado di rifornire Pechino di materiale ad alta tecnologia, in particolare a uso militare.
Lo choc di piazza Tienanmen ha provocato prima di tutto la fine della «luna di miele» (miyue) con gli Stati uniti. Era durata quasi vent'anni, da quando, il 25 ottobre 1971, la Repubblica popolare cinese era stata ammessa alle Nazioni unite al posto di Taiwan, era poi proseguita con il viaggio del presidente Richard Nixon l'anno successivo, fino all'istituzione di un «partenariato strategico», fattore di sviluppo.
A questo periodo era però seguita una lunga serie di delusioni, il moltiplicarsi di incidenti (come il bombardamento dell'ambasciata cinese a Belgrado, nel 1999) e il rafforzamento dei legami americani col Giappone, il rivale disprezzato.
L'emergere pacifico di Pechino Seconda data importante: il crollo dell'Unione sovietica. Nessun rimpianto per la scomparsa di questo fratello nemico, ma molti studiosi ricordano che l'ex Urss si è distrutta in un impari confronto con gli Stati uniti, peggiorato da una dispendiosa corsa agli armamenti.
«Gli Stati uniti spingono alla competizione e ad un aumento sfrenato delle spese militari - sostiene uno specialista di problemi di difesa militare, che ci tiene a restare anonimo - ma noi dobbiamo puntare alla modernizzazione degli armamenti, per rafforzare la nostra difesa».
Una «modestia» più apparente che reale, visto che le spese militari rappresentano già il 2,4% della ricchezza prodotta. Ma un argomento forte da contrapporre allo stato maggiore, che pretenderebbe molto di più.
In linea generale, secondo i diplomatici cinesi è stata la netta separazione del mondo in due campi, che, alla fine, si è rivelata costosa. E se tutti deplorano il «mondo unipolare» incarnato dagli Stati uniti, nessuno vuole ritornare a un «pianeta bipolare». Non si vuole, per esempio, diventare il capo fila dei paesi in via di sviluppo, il che obbligherebbe a delle rinunce. «Condividiamo con molti paesi in via di sviluppo la preoccupazione della necessaria democratizzazione delle organizzazioni internazionali - afferma Kong - sottolineando l'importanza delle relazioni con l'Africa (3) e con l'America latina. Ma non si tratta di creare un polo. Bisogna uscire dalla mentalità della guerra fredda, per questo preferisco parlare di "sviluppo condiviso". Dobbiamo instaurare la mentalità del negoziato, che presuppone concessioni reciproche. Con lo sviluppo degli scambi commerciali, le controversie si moltiplicheranno. Bisogna affrontarle con uno spirito di contrattazione» ... e non con spirito di campo.
Di fatto, il potere vuole partecipare alla costruzione di un mondo multipolare, di cui la Cina dovrebbe un giorno occupare uno dei primissimi posti - al centro, non alla testa. Cercando di irradiare, non di dominare. La sfumatura non è solo formale (4). E infatti via a ricordare che dall'XI al XVII secolo, all'apice della sua potenza, la Cina ha avuto la più grande flotta del mondo e un reale potere economico e tecnologico (5), senza mai distruggere popoli o civiltà, contrariamente agli europei.
Infine, ed è il terzo dato importante, le autorità cinesi hanno tratto profitto dalla crisi finanziaria che ha scosso l'Asia negli anni 1997-1998. Unico paese ad avere mantenuto il controllo dei cambi e rifiutato le pressioni del Fondo monetario internazionale (Fmi), la Cina è anche la sola ad avere preservato le sue possibilità di crescita quando tutti, Giappone incluso, si indebolivano. Meglio ancora, con lo yuan agganciato al dollaro, ha contribuito a garantire una certa stabilità ad una regione in piena crisi finanziaria (6).
Si è anche permessa di concedere prestiti a interessi ridotti, o aiuti, ad alcune «tigri» allora in difficoltà, guadagnando così la loro fiducia.
Col tempo, la nuova generazione al potere ha costruito una dottrina strategica attorno ai «quattro no» enunciati dal presidente Hu Jintao: «No all'egemonismo, no alla politica della forza, no alla politica dei blocchi, no alla corsa agli armamenti (7)». Si tratta di «costruire fiducia, appianare le difficoltà, sviluppare la cooperazione ed evitare conflittualità». Cosciente delle proprie debolezze di fronte al gigante americano e ai suoi concorrenti asiatici, Pechino sviluppa quella che si potrebbe definire una «diplomazia asimmetrica», molto agile, che privilegia le relazioni bilaterali, pur partecipando attivamente alle organizzazioni regionali, e che allaccia legami economici in tutte le direzioni ricucendo al contempo le vecchie tensioni territoriali.
Così Cina e Russia hanno firmato, il 2 giugno 2005, a Vladivostok, un accordo sulla frontiera orientale - la controversia verteva sul 2% dei 4.300 chilometri di frontiera comune, ma avvelenava le loro relazioni dalla fine della seconda guerra mondiale. «È la prima volta nella storia delle relazioni sino-russe che la totalità delle frontiere comuni è legalmente definita», dichiarava Vladimir Putin nel corso della fase finale delle trattative.
Alcune settimane prima, l'11 aprile 2005, il primo ministro indiano Manmohan Singh e il suo omologo cinese Wen Jiabao avevano firmato un protocollo per risolvere il contenzioso frontaliero che oppone i due paesi dal 1962: Pechino rivendica gran parte del territorio dello stato di Arunachal Pradesh (90.000 kmq) a nord-est dell'India; mentre a nord-ovest, Nuova Delhi reclama l'Aksai Chin, una parte del Cachemire (38.000 kmq). «Siamo solo all'inizio delle trattative - osserva Kong. Ma è la prima volta che un documento ufficiale si occupa della questione delle frontiere». Un passo storico che Pechino desidera arricchire con l'istituzione di una zona di libero-scambio tra i due giganti demografici del mondo (si veda riquadro in pagina).
I nuovi rapporti, però, si ripercuotono sulle relazioni con gli alleati di ieri, in particolare con il Pakistan. «Nel conflitto che lo oppone all'India, siamo diventati piuttosto neutrali», afferma Yang Baoyun, vicepresidente del Centro studi per l'Asia-Pacifico, incontrato all'Università di Beida, a Pechino. Secondo lui, Islamabad «per molto tempo ha tratto beneficio dalle tensioni», ma «la mentalità comincia a cambiare», come testimonia la riapertura della linea di autobus trans-Kashmir chiusa da sessant'anni (8).
Altro segno dell'«emergere pacifico» della Cina: il suo impegno nella crisi apertasi nell'ottobre del 2002 tra gli Stati uniti e la Corea del Nord, la quale si dice ormai pronta a costruire la bomba atomica.
All'origine del gruppo dei Sei (Cina, Corea del Sud, Corea del Nord, Giappone, Russia, Stati uniti) istituito per regolare il contenzioso, Pechino fa fatica a calmare gli ardori di Pyongyang, alimentati dalle dichiarazioni infuocate dell'amministrazione Bush.
Con tutta evidenza, la nuclearizzazione della penisola coreana non fa affatto piacere a Pechino, e, se Pyongyang «si lanciasse nelle sperimentazioni, taglieremmo gli aiuti», precisa Yang Baoyun. Ma le opinioni divergono sul tipo di pressioni da esercitare: alcuni ritengono che gli aiuti vadano tagliati, almeno parzialmente, e ricordano che, già nel 2003, la riduzione dei rifornimenti di petrolio, dovuta ad un opportuno «incidente tecnico», aveva obbligato il presidente Kim Jong-il a riprendere le trattative (9); altri, come Shen Dingli, pensano, al contrario, che «sopprimere gli aiuti, vuol dire uccidere la speranza e istigare al peggio» un regime già nei guai.
«La Corea è un detestabile fardello - riassume un ex diplomatico - un regime in cui la gente muore di fame per il potere di una famiglia.
Ma la Cina è bloccata. Non può né avanzare né indietreggiare». Una parte dell'esercito sembra orientata a pensare che la nuclearizzazione non è poi così grave, e che, in caso di conflitto, «la Corea resta la sentinella della Cina». Pechino ha comunque dimostrato - se non a Washington, ai suoi vicini - di saper modificare la sua politica di vecchie alleanze per entrare in una fase di diplomazia attiva.
Lo prova il rafforzamento dei suoi legami con la Corea del Sud, storica alleata degli Stati uniti, che teme una destabilizzazione del Nord - poiché le difficoltà tedesche ad assorbire l'Est l'hanno resa prudente nei riguardi della dittatura confinante (10).
La grossa spina nella zampa della tigre cinese è il Giappone. «Mai nel corso degli ultimi trent'anni, le relazioni sono state così difficili» dichiara preoccupato Yang Baoyun. Il dato è confermato da tutti gli interlocutori incontrati. Il rifiuto giapponese di fare i conti con la propria storia è riproposto spesso e confermato sia dall'incidente del libro di storia, che minimizza i crimini del Giappone durante l'occupazione, che dalla visita del primo ministro Junichiro Koizumi al santuario di Yasukuni, dove sono seppelliti dei criminali di guerra.
Non si può dire che la Cina abbia, da parte sua, una visione lucida e critica della propria storia, tuttavia, per rendersi conto del trauma causato da questo episodio, basta recarsi al museo di Shenyang, nel nord-est del paese, centro strategico dell'occupazione giapponese, dove sono documentati gli omicidi, le torture e gli esperimenti medici compiuti dall'esercito giapponese già nel 1931, ma anche le recenti dichiarazioni negazioniste di personalità giapponesi (11). Qui, come a Pechino, quando si parla delle manifestazioni antigiapponesi avvenute nella primavera del 2005 - quasi tutte di studenti super controllati e praticamente nessuna di lavoratori - non è raro sentirsi chiedere: «Che direste voi, se una personalità tedesca andasse a raccogliersi sulla tomba di criminali di guerra?».
Il mirino è puntato sul rafforzamento dei legami militari tra Washington e Tokyo, oltre che sui problemi territoriali riguardanti le isole chiamate Senkaku dai nipponici e Diaoyu dai cinesi, strategiche per il controllo marittimo dello stretto di Formosa. Secondo Kazuya Sakatomo, professore all'università di Osaka, «dopo sessant'anni passati ad abbassare la testa, il Giappone sta per soppiantare l'Australia come vicesceriffo degli Stati uniti nella regione del Pacifico e diventa una colonna portante nell'architettura della difesa americana del XXI secolo (12)». La revisione della Costituzione giapponese (13), l'invio di truppe in Iraq, il trasferimento del comando del 1° corpo d'armata americano (per le operazioni nel Pacifico e nell'oceano Indiano) dalla costa ovest degli Stati uniti al campo di Zama, a sud di Tokyo, danno una qualche credibilità a questa tesi (14). Ed è anche il nodo centrale di queste particolarissime relazioni triangolari (Cina, Stati uniti, Giappone).
Del resto, Washington sostiene la candidatura giapponese come nuovo membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite - candidatura immediatamente bocciata dalla Cina, che minaccia anche di utilizzare il suo diritto di veto. «Prima di pensare a insediarsi nel Consiglio di sicurezza, il Giappone dovrebbe ottenere almeno l'appoggio della sua regione», ha dichiarato l'ambasciatore della Cina all'Onu, Wang Guangya, il 26 giugno 2005. Pechino spera di vincere la partita appoggiandosi alla Corea del Sud, che ha vivacemente protestato contro le simpatie militariste di Koizumi (15); all'India, che pretende anch'essa un seggio permanente al Consiglio di sicurezza; e ai paesi africani, con i quali ha dei legami economici assai persuasivi.
Infine, la menzione di Taiwan nella revisione dell'accordo di sicurezza bilaterale nippo-americano (16) ha definitivamente guastato le relazioni sino-giapponesi. Dalla normalizzazione dei loro rapporti, nel 1972, il Giappone ha sempre glissato su questa questione. Gli stessi Stati uniti avevano fatto propria la formula: «Due sistemi, un paese».
L'integrazione di Taiwan alla Cina «può richiedere cento anni o più», come diceva un diplomatico, ma «la separazione è impossibile», inaccettabile per la popolazione, per l'esercito e per il governo.
I discorsi bellicosi degli ultimi mesi e la legge antisecessione adottata nell'aprile 2005 sarebbero dunque più difensivi che offensivi, e traccerebbero una linea rossa, invalicabile per Taiwan e i suoi alleati. Anche se tutti riconoscono che un'operazione militare comporterebbe un costo enorme a livello politico, diplomatico ed economico, nel luglio 2005 il generale Zhu Chenghu non ha esitato a dichiarare: «Se gli americani sparano sul territorio cinese, saremo costretti a rispondere con armi nucleari». Parlava a titolo personale, ma non è stato smentito. Pechino sembra temere una dichiarazione d'indipendenza di Taipei alla vigilia dei Giochi olimpici del 2008, sui quali il potere conta molto, una tappa decisiva da superare di fronte alla regione e al mondo. Da qui le minacce, ma anche le lusinghe.
I dirigenti del Kuomintang, nemici di ieri che non avevano mai rimesso piede in Cina dal 1949 (17), all'inizio di maggio sono stati ricevuti in pompa magna. La recente tournée in America latina di Hu Jintao, il cui principale obiettivo era quello di assicurare l'approvvigionamento di petrolio (Venezuela), materie prime, cereali e soia (Cuba, Messico, Brasile...) mirava anche a fare capire (in particolare, in America centrale) a tutti coloro che hanno ancora «stretti legami con Taipei, che la Cina ha un mercato ben più vasto»... Nell'immediato, per fare pressione sul governo di Taipei, i dirigenti contano molto sui quasi 8.000 imprenditori taiwanesi che hanno investito in Cina. Quanto all'amministrazione Bush, ha finito col calmare la febbre indipendentista del suo alleato, e il Giappone è diventato più discreto.
La contrapposizione resta comunque viva, e un ex diplomatico la riassume così: «Nella storia, la regione ha conosciuto una Cina forte e un Giappone debole, poi una Cina indebolita e un Giappone forte. Ormai, si va verso una Cina alla pari col Giappone e di conseguenza quest'ultimo perde la sua stabilità». Anche se la situazione è in movimento, si è ancora lontani da un riequilibrio delle forze. È vero che la Cina è il primo fornitore asiatico degli Stati uniti, davanti al Giappone; occupa poi il secondo posto, giusto dietro di lui, per le riserve monetarie - curiosamente in buoni del tesoro americani - , ma il suo prodotto interno lordo (Pil) rimane due volte e mezzo più debole di quello del Giappone. Può minacciare Washington di non svolgere più il ruolo di banchiere e di vendere dollari, ma Tokyo interverrebbe subito in aiuto del biglietto verde. Il buon vicino Il rapporto di forze ineguale non esclude la competizione. Se il Giappone spera di uscire dal suo stato di «nano politico» per conquistare il ruolo di leader mondiale nella zona asiatica (diventando membro permanente del Consiglio di sicurezza - cosa che presupporrebbe un riarmo temuto dai suoi vicini, non solo cinesi), la Cina cerca di affermarsi come leader asiatico nel mondo. Da qui il suo dispiegamento nelle istanze multilaterali. L'adesione all'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), nel 2001, le ha permesso di fare un passo decisivo.
Pazientemente, ha conquistato il suo posto nell'Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Ansea), strumento della guerra fredda per eccellenza (18). Da osservatrice nel 1991, è ormai diventata membro a pieno titolo (19) e ha finito con l'ottenere, nel novembre 2004, la creazione di una zona di libero scambio con l'Ansea (20).
In Asia centrale, i suoi obiettivi commerciali (tra cui l'approvvigionamento in idrocarburi) sono comprovati, nell'aprile 2001, dalla creazione dell'Organizzazione di Shangai (con Russia, Kazakhistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan). L'iniziativa ha assunto connotati politici a partire dalla guerra in Afghanistan. La Cina condivide le preoccupazioni russe di fronte all'installazione di basi americane nella regione e quelle delle altre repubbliche di fronte ai movimenti islamisti, considerati indipendentisti (in particolare quelli diretti dagli Uighuri, musulmani cinesi). L'annientamento di ogni movimento di opposizione, come recentemente in Kirghizistan, non è cosa che la disturbi.
Insomma, come scrive il ricercatore americano David Shambaugh, «la diplomazia bilaterale e multilaterale di Pechino si è rivelata estremamente abile nel guadagnare fiducia nella regione asiatica. Risultato: la maggior parte dei paesi guarda ormai alla Cina come a un buon vicino, un partner costruttivo, un interlocutore attento e una potenza regionale che non fa paura (21).» Si può quindi forse parlare di «consenso di Pechino (22)» come di un nuovo modello di sviluppo, secondo il suggerimento di Joshua Cooper Ramo, membro del Council on Foreign Relations (americano) e del Foreign Policy Centre (inglese)? La Cina può prendere la testa di un'unione asiatica, economica e politica?
Non ne ha certamente i mezzi economici: i due terzi delle sue esportazioni provengono da imprese estere installate sul suo territorio, che assemblano prodotti concepiti altrove.
Certo la Cina occupa alcune nicchie molto avanzate (come le fibre ottiche o i cellulari) e si prepara a migliorare la qualità, attirando centri di ricerca esteri, ricomprando imprese per acquisire marchi noti e beneficiare di trasferimenti tecnologici... Per ora, la sua crescita - forte e tuttavia fragile con un sistema finanziario vulnerabile - resta molto dipendente dai paesi dell'Ansea e dal Giappone per la produzione, e dai paesi occidentali per le esportazioni (23).
La minima difficoltà con gli Stati uniti, per esempio, potrebbe comportare, de facto, un freno al suo dinamismo che si rivelerebbe allora politicamente esplosivo.
Vi sono specialisti, tuttavia, che sognano un asse cino-giapponese, come l'asse franco-tedesco in Europa. Nello stesso momento in cui si tenevano le manifestazioni antigiapponesi della primavera 2005, era in corso un incontro, a Pechino, tra intellettuali giapponesi, cinesi e coreani (24). In giugno, è stato stampato anche un manuale scolastico ufficiale, frutto del lavoro di storici delle tre nazionalità.
Ma sono cose marginali. Gli Stati uniti possono essere pronti a delegare una parte ulteriore del loro potere regionale (di ombrello militare), ma pare improbabile che accettino una potenza regionale forte, che si tratti del Giappone o, a fortiori, della Cina.
Questa vuole, tuttavia, progredire rapidamente e senza caos. Ma «potrà emergere - spiega un diplomatico - solo irradiando una cultura che attiri - come avvenne con la nostra lingua, all'origine. Consumare non basta. Bisogna inventare valori che non siano la copia dell'Occidente».
Alcuni ci stanno lavorando, ma sono privi di spazi pubblici di dibattito.
Come dice il nostro interlocutore, bloccando le libertà politiche «la Cina blocca se stessa».



note:


(1) Beida sorge accanto al Palazzo d'estate saccheggiato nel 1860 dalle truppe franco-inglesi durante la guerra dell'oppio.

(2) Il 4 giugno 1989, manifestazioni studentesche, e in parte operaie, vengono duramente represse. Se all'università di Quinhua (Pechino), per esempio, la questione è trattata nel corso di storia dei movimenti sociali, altrove la censura è totale e concerne anche il giornale di TV5, guardato unicamente dagli espatriati e da un pugno di francofili: lo schermo diviene nero non appena i giornalisti affrontano questi avvenimenti.

(3) Si legga Jean-Christophe Servant, «La Cina all'assalto del mercato africano», Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 2005.

(4) Si legga François Jullien, Penser d'un dehors (La Chine), Seuil, Parigi, 2000.

(5) Si legga Angus Maddison, «L'économie chinoise, une perspective historique», studi dell'Ocde, Parigi, 1998. Si veda anche Philip S. Golub, «L'Asia nell'economia mondiale: una prospettiva storica», Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre 2004.

(6) Durante la crisi, la Malaysia ha reintrodotto un controllo dei cambi. Nel luglio 2005, la Cina ha leggermente rivalutato lo yuan.

(7) Discorso dell'aprile 2004, citato da Joshua Cooper Ramo, The Beijing Consensus, The Foreign Policy Center, Londra, 2005.

(8) Dal 7 aprile 2005, una linea di autobus collega, su 172 chilometri, Muzaffarabad, nella parte pachistana del Kashmir, e Srinagar nella parte indiana.

(9) Nel settembre 2004, la rivista di studi internazionali Zhanlue yu guanli è stata chiusa dopo la pubblicazione di un articolo molto critico sulla Corea del Nord.

(10) Si legga Ignacio Ramonet, «Allarme in Corea», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2005.

(11) L'esposizione è completata da una serie di dichiarazioni e manifestazioni in Giappone contro la rimilitarizzazione del paese.

(12) Citato da Simon Tisdall, «Japan emerges as America's deputy sheriff in the Pacific», The Guardian, Londra, 19 aprile 2005.

(13) La soppressione dell'articolo 9 della Costituzione permetterebbe al Giappone di trasformare le sue forze di autodifesa in un esercito regolare.

(14) Si legga Chalmers Johnson, «Coming to terms with China», www.tomdispatch.com/ index.mhtml?pid=2259
(15) «Discorso alla nazione» del presidente Roh Moo-hyun, 23 marzo 2005.

(16) L'accordo strategico firmato nel 1996 è stato rivisto a Washington il 20 febbraio 2005.

(17) Il Kuomintang, diretto da Chang Kai-shek, aveva ripiegato su Taiwan nel 1949. Il partito, che ha guidato l'isola per cinquant'anni, è oggi all'opposizione.

(18) Creata nel 1967 a Bangkok, riuniva all'origine Malesia, Filippine, Thailandia, Indonesia e Singapore, cui si sono aggiunti Brunei, Vietnam, Birmania, Laos e Cambogia.

(19) La Cina fa parte del Forum regionale dell'Ansea per quanto riguarda le questioni di sicurezza in Asia-Pacifico e appartiene a quello che viene chiamato Ansea +3 (Cina, Corea del Sud, Giappone). Si legga Régine Serra, «La Chine, une puissance régionale», Questions internationales n°6 marzo-aprile 2004.

(20) I diritti doganali saranno progressivamente eliminati, fino alla loro totale soppressione nel 2010.

(21) «China engages Asia. Reshaping the regional order», International Security, Washington, vol. 29, n° 3, inverno 2004-2005.

(22) The Beijing Consensus, op. cit.

(23) La Cina è un volano della crescita del Giappone e dell'Ansea, verso le quali è ormai deficitaria. Le sue importazioni sono, in gran parte, costituite da prodotti intermedi, indispensabili alla fabbricazione di beni che in seguito saranno esportati. Questo la rende vulnerabile.

(24) Resoconto della tavola rotonda, «Chercher un nouvel espace», Dushu, Pechino, n° 6, giugno 2005. Si legga anche Wang Hui, «La storia dell'Asia inventata due volte», Le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio 2005.
(Traduzione di G. P).


http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/ultimo/0509lm20.01.html



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