Grazia Perrone - 30-10-2004 |
Non sono interessata a "decretare" la morte (anagrafica) del comunismo perché ritengo che essa sia già stata, ampiamente, denunciata e documentata da, autorevoli, militanti tra i quali ne cito (per rimanere in ambito marxista) solo tre: Bruno Rizzi: autore (nel 1939) di un libro dal titolo eloquente: La burocratisation du monde nel quale veniva avanzata la tesi che l'URSS non era né carne né pesce (né capitalista né socialista) bensì uno Stato dominato da una nuova classe: la burocrazia. L'originalità dello scritto (la teoria sociologica delle tre classi era già stata formulata, nel 1889, da Peter Kropotkin nel libro scritto in francese: La grande Rivoluzione) risiede nel fatto che Rizzi riteneva che la "nuova classe al potere in URSS" (ovvero la burocrazia) si era imposta - nel primo dopoguerra - anche in altre parti del mondo. In particolare nell'Italia fascista, nella Germania nazista e, persino nelle democrazie anglosassoni. La tesi di Rizzi non ebbe alcun seguito fino a che non venne ripresa [1], nel 1946 da Burham. Cornelius Castoriadis fondatore e animatore della rivista "Socialisme ou barbarie" il quale dopo "(...)aver scoperto il marxismo (...)" [2] aderendo al Partito Comunista greco arriva ad una concezione critica dello stalinismo aderendo al trotzchismo. Dal quale si discosta pervenendo - nella prima metà degli anni '50 - alla conclusione che la società burocratica di tipo sovierico (..)"esprimeva una unità profonda fra struttura e sovrastruttura. Unità strutturale nella quale la "statizzazione" dei mezzi di produzione costituiva lo strumento più idoneo per il saccheggio di tutte le risorse economiche ed intellettuali da parte della burocrazia, vera e propria classe dominante di nuovo tipo. [3] Il terzo che cito è Milovan Djilas "braccio destro" di Tito nella guerra partigiana (è responsabile militare e politico della zona, cruciale, del Friuli Venezia Giulia) e delfino designato alla successione al quale va ascritto il merito di aver formulato - nel 1957 col libro La nuova classe (in Italia sarà tradotto solo nel 1967 per le edizioni Il Mulino di Bologna) - la prima e documentata analisi (dall'interno della società esaminata e non più in senso empirico) delle stratificazioni burocratiche presenti nei paesi dell'Est. Djilas pagherà con il carcere - e la perdita di tutti i benefit connessi allo status di ... dirigente operaio - questa sua ... esternazione letteraria (chiamiamola così). Ho citato tre Autori di impostazione marxista (tra i tanti appartenenti ad altre ... "parrocchie") per evidenziare come - anche in un'ottica marxiana - tutti gli Autori citati siano pervenuti (attraverso percorsi intellettuali diversi) alla stessa conclusione alla quale era giunto (lo ripeto ... nel 1889) un anarchico russo: Peter Kropotkin che analizzava - dal punto di vista dello spostamento del potere da una classe ad un'altra - un'altra Rivoluzione: quella francese del 1789. E' un nome - quello di Kropotkin - che non cito a caso. Quando, nel febbraio 1921 (molto tempo prima della morte di Lenin e dell'ascesa al potere di Stalin), il grande filosofo morì i suoi compagni (anarchici) erano già (quasi tutti) nelle galere ... socialiste. Il potente Kamenev dispose che - per un giorno - fossero liberati. A narrarlo è Victor Serge (che si era "convertito" al bolscevismo cosa che non gli risparmierà - subito dopo l'omicidio Kirov nel 1934 - di finire in un gulag sovietico dal quale riuscirà ad uscirne vivo, grazie alla mobilitazione internazionale, poco prima delle "grandi purghe" del 1936) in una memorabile pagina del libro Memorie di un rivoluzionario nella quale documenta il mesto corteo di detenuti che sfilò dietro le bandiere nere dell'anarchia. In quell'occasione Aaron Baron - che non uscirà vivo dai lager di Stalin - esplicita in maniera forte e chiara (di fronte ai dignitari del partito "operaio") tutto il suo disprezzo nei confronti del nuovo dispotismo russo (siamo nel 1921!!!!), che utilizza i boia che lavorano nelle cantine (la polizia segreta di Lenin e, poi, di Stalin!!!!) che getta nel disonore il Socialismo e che utilizza la violenza governativa per schiacciare la Rivoluzione. Rivoluzione che fu schiacciata - dall'Armata Rossa - a Kronstadt pochi giorni dopo i fatti narrati da Serge (marzo 1921). Ai ribelli di Kronstadt non fu concessa nessuna delle rivendicazioni avanzate ma solo calunnie e ... piombo. Fu, persino, respinta la richiesta di costituzione di una milizia popolare composta da volontari (operai e contadini). Il nuovo potere socialista preferì (ri)costituire l'esercito nazionale che si era sfaldato nella primavera del 1917 e che - con quest'atto rivoluzionario - aveva dato il via alla Rivoluzione (che alcuni pensavano fosse) sociale. [4] Lenin - a proposito di Kronstadt - al X Congresso del Partito bolscevico affermò : (...)"La lezione di Kronstadt è questa: in poltica serrare i ranghi e rafforzare la disciplina; nel partito accelerare la lotta contro i menscevichi e i socialisti rivoluzionari; in economia, soddisfare, quanto più possibile i contadini medi [5]. Dubito molto che i lettori di frg conoscano la teoria del "socialismo in un solo paese" oppure quella del, cosiddetto, "comunismo di guerra". Fase "dottrinaria" (che va dal 1920 al 1929 anno del, definitivo, allontanamento di Trotzky e della, cosiddetta, "sinistra" bolscevica dalla "stanza dei bottoni") di una pallosità unica nel corso della quale fu attuata una fase di "economia sperimentale" (chiamiamola così) e poco "scientifica" (finalizzata - in ultima analisi - a "stabilizzare" il fronte interno scosso da rivolte operaie e contadine sempre più virulente) denominata Nep che arricchì (in ossequio alle disposizioni di Lenin) i contadini medi o ... kulaki che furono, successivamente, sterminati da Stalin perché erano diventati - economicamente - troppo potenti. Così come mi fa sorridere (e lo farei di gusto ... se non fosse per le tragiche ripercussioni che una simile dottrina - elevata a dogma inconfutabile - ebbe su milioni di persone in Europa e nel mondo) l'allusione al "socialismo scientifico". Teoria secondo la quale - nella Russia del 1917 - il socialismo sarebbe stato (...)"storicamente possibile sulla base di due condizioni, necessarie entrambe che sarebbero: 1) sviluppo industriale ottimale unitamente all'esistenza di un forte e organizzato 2) partito rivoluzionario (solo quello di Lenin ... naturalmente). Ovvero più o meno le stesse motivazioni addotte dal Psuc catalano per giustificare la politica "di destra" del Governo di Unità Popolare che si opponeva al colpo di Stato militare di Francisco Franco. Politica reazionaria che si inasprì (in senso staliniano) dopo le giornate di Barcellona: maggio 1937 [6]. Tanto premesso (e mi scuso per la schematicità della formulazione) chiarisco che sono, almeno, due le discriminanti dialettiche, storiche e politiche che vorrei far rilevare e che mi pongono, in radicale, dissenso con le tesi sostenute dal Nannetti in questa nota. La prima attiene alla genesi del movimento di emancipazione sociale ... che è antecedente la nascita della Terza internazionale (stalinista) e che fu caratterizzata dalla lotta interna tra: autoritari ispirati da Marx e da Engels o fautori della linea parlamentarista e del partito uber alles che sfocerà, poi, nella socialdemocrazia del rinnegato Kautsky. E già questo lessico (utilizzato da Lenin in un, noto, libello) la dice lunga sulla futura ... degenerazione linguistica (e non solo) che caratterizzerà nei decenni successivi il partito che dice di ispirarsi al socialismo ... "scientifico" e antiautoritari ispirati da Bakunin che vede nel rifiuto della lotta parlamentare e nell'azione diretta dei lavoratori l'arma vincente della, futura, rivoluzione sociale. [7] Lotta interna che sfocerà - nel 1872 nel corso del Congresso di Saint Imier in Svizzera - nella scissione delle sezioni dell'internazionale di "scuola" latina: Italia e Spagna in primis. [8] La seconda discriminante attiene alla giustificazione etica e politica del terrore rivoluzionario. Su questo tema cruciale - il rifiuto della violenza fine a se stessa - esiste un'ampia documentazione polemica e ... dottrinaria che - specie in Italia - coinvolse i "capi" anarchici (come Malatesta) e quelli comunisti (come Gramsci). (...)"Se per vincere - scrive Errico Malatesta in piena "ubriacatura" sovietica e nel bel mezzo della violenza scatenata dai fascisti che avevano già assassinato Giacomo Matteotti [9] - si dovesse elevare la forca nelle piazze, io preferirei perdere(...)". La differenza etica (coerenza mezzi/fini) tra socialismo "scientifico" e socialismo anarchico sta tutta qui. Su quella "dottrinaria" il discorso è molto più lungo e complicato. Sono pronta a riparlarne - in dettaglio - se Nannetti lo vorrà. Note: [1] Burham è l'Autore del libro edito nel 1946: The managerial Revolution: un libro che Rizzi ha denunciato per plagio. [2] cfr. Massimo Salvadori nella prefazione al libro: la società burocratica di Cornelius Castoriadis - SugarCo Edizioni, 1978 [3] ibidem [4] Non cito qui (per ragioni di spazio) la repressione del movimento machnovista in Ukraina limitandomi, per il momento, a citare le fonti bibliografiche: La Rivoluzione sconosciuta di Volin edita dalla Franchini negli anni '70 e L'altra anima della rivoluzione di Paul Avrich del medesimo periodo. [5] cfr. 1921 - 1981 Kronstadt di Sergo Costa - Cooperativa Tipolitografica Editrice - Carrara, 1981, pag. 84 [6] Il Psuc ovvero il partitino (nel 1936) di stretta osservanza staliniana operante in Catalogna nel quale militarono, tra gli altri, gente del calibro di Togliatti, Longo e Vidali. In "arte" il compagno Carlos Contreras al quale Hugh Thomas attribuisce la "brillante" idea di (..)"fingere un attacco nazista per liberare il leader del Poum" (Andreas Nin). "Liberazione" nel corso della quale il leader non stalinista (già ridotto in fin di vita dalle torture che gli erano state inflitte per costringerlo a "confessare") viene assassinato. Per saperne di più su questo, squallido "evento" cfr. Hugh Thomas - Storia della guerra civile spagnola, Einaudi Editrice, 1965, pagg. 478/9 [7] Il tema è complesso e - se sarà il caso - lo affronterò nel merito utilizzando il materiale storico lasciatoci in eredità da intellettuali del calibro (tra gli altri) di Enzo Santarelli [8] Per coloro i quali fossero interessati ad approfondire il tema dell'influenza di Bakunin in Italia segnalo un libro di Nello Rosselli edito, nel 1967, dall'Editrice Einaudi: Mazzini e Bakunin - dieci anni di movimento operaio in Italia 1860 - 1872 [9] cfr. Errico Malatesta - Il Terrore Rivoluzionario - Umanità Nova (quotidiano anarchico) n. 19 del 1° ottobre 1924 |
gp - 30-10-2004 |
Per una, curiosa, coincidenza Paolo Mieli nella sua consueta rubrica giornaliera affronta il medesimo argomento che abbozzo nella mia nota. Lo ripropongo, senza commento, come ulteriore spunto di riflessione. Sabato 30 Ottobre 2004 Iniziò con Lenin la violenza «aberrante» del comunismo Apprendo dalla sua pagina, caro Mieli, che Pietro Ingrao, coscienza pensante della rivoluzione socialista, si dice «turbato» dall’invasione sovietica dell’Ungheria nell’autunno del 1956: che nobiltà d’animo! Un «errore» definisce ancora quell’invasione, che alla lunga avrebbe danneggiato la stessa causa dell’Urss. Siamo alle solite. Errore, cioè una seppur colpevole deviazione da una linea inflessibilmente giusta, anzi storicamente necessaria, non già la logica conseguenza di un regime al quale Ingrao guardava - e guarderebbe ancora oggi, se fosse possibile - con ammirato orgoglio. Ma quanti bicchieri di vino dovrebbe concedersi ancora oggi per tutti gli «errori» di cui non si fa nemmeno più menzione? Adriano Tassi, Ferrara , -------------------------------------------------------------------------------- Caro signor Tassi, in primo luogo Pietro Ingrao merita grande rispetto non foss’altro perché questo genere di riflessioni critiche sulle malefatte del socialismo reale ha iniziato a farle già da molti anni, quasi da solo in quel partito comunista di cui era tra i massimi esponenti. In seconda istanza, ritengo (anche alla luce delle numerosissime lettere che ho ricevuto sul caso aperto dal libro a lui dedicato) che questi approfondimenti - come quelli, riconducibili allo stesso nodo, di Vittorio Foa o del più giovane Claudio Petruccioli - giovino alla creazione di un contesto più pacato che ci dà la possibilità di far meglio i conti con la storia della sinistra italiana. Tanto più che non si parla solo dell’indimenticabile 1956. Nel libro di Antonio Galdo a lui dedicato (edito da Sperling & Kupfer), Ingrao definisce «azzardata ed equivoca» l’equazione che mette sullo stesso piano gli orrori del nazismo e quelli del comunismo. Ma lo fa con un indurimento della nota tesi secondo la quale il comunismo fu un’ideologia tendente al bene poi degenerata nello stalinismo mentre il nazismo avrebbe teso al male fin dalle fondamenta del suo edificio ideologico. Afferma Ingrao che «il leninismo e lo stalinismo hanno praticato una violenza aberrante, dal basso, nel nome dei deboli e degli sfruttati, mentre quella del nazismo è stata una violenza dall’alto, pura e cieca». La differenza di fondo fu dunque nella sorgente da cui zampillò quel fiume. Ma la violenza fu «aberrante» in tutti e due i casi. Di più. Ingrao in quell’intervista imputa tale violenza a «leninismo e stalinismo» e non, come di prammatica, soltanto a quest’ultimo. In un altro passaggio della conversazione è ancora più esplicito: «Già Lenin affermava la costruzione violenta dello Stato e del potere politico, e non si trattava soltanto di una risposta rivoluzionaria al sangue del capitalismo. Era un’idea sbagliata, sbagliatissima, di sopraffazione e di schiacciamento, che avrebbe colpito, prima o poi, anche una parte del movimento operaio». Dopodiché Galdo gli ricorda che nel Novecento Lenin fu il primo in Europa a firmare il decreto per l’apertura di un campo di concentramento in cui rinchiudere (e mandare a morte) oppositori e dissidenti. E Ingrao ne trae questa conclusione: «Ieri ci illudevamo che ci fosse una differenza sostanziale tra Lenin e Stalin, i due personaggi centrali nella storia del comunismo e consideravamo Stalin il traditore degli ideali di Lenin. Non era vero». Sono idee - mi obietterà, caro Tassi - che gli studiosi liberali hanno espresso già da decenni. È vero. Ma il fatto che adesso quei concetti siano attribuibili ad Ingrao li può far conoscere e discutere anche da persone molto più giovani di lui che ancora oggi sono sorde a questo genere di considerazioni. E - le assicuro - non è poca cosa. |
Giuseppe Aragno - 30-10-2004 |
Carissimi. Se storici sedicenti "liberali", si ponessero, in termini così smaccatamente ideologici, il problema della violenza «aberrante», anche la storia della rivoluzione francese - senza la quale, ahimé, temo che i liberali veri non sarebbero ancora nati - troverebbe la sua storiograficamente devastante revisione. Piaccia o no a Mieli, Galdi e Tassi - storici? - nei tragici strappi rivoluzionari, la violenza "aberrante" dei carnefici ha spesso radici nella stupidità ferina delle vittime, delle quali, poi certo, può far comodo ignorare le responsabilità. Piaccia o no, a Mieli, Galdi e Tassi, la zarismo feudale esce di scena sotto i colpi del bolscevismo, ma lo sostengono fino in fondo, provocando un'infinità di disastri i liberali. E liberali sono coloro che negano a Weimer, ciò che poi concederanno ad Hitler. Liberale è la tragedia latino americana, liberale il dollaro che paga Pinochet e massacra Allende. Liberale il dramma dei nostri figli. Contatele. quando avrete tempo, contatele, le aberranti "violenze" che sono a monte dell' "aberrante" violenza bolscevica e stanno producendo oggi, a valle di questo nostro tempo infelice, una violenza ancora più "aberrante". Liberali, certo. E cosa, sennò? |
Giuseppe Aragno - 30-10-2004 |
Credo, come Nannetti, se ben interpreto le sue intenzioni, che la nostra destra non possa continuare ad usare impunemente la scorciatoia del “comunismo mangiabambini". Riporto, a questo proposito, alcune considerazioni di Gaetano Arfè, studioso socialista di cultura e tradizione riformista, turatiana e matteottiana, che è stato partigiano in Valtellina. Uno studioso, insomma, al di sopra di ogni sospetto. I brani citati sono ricavati da dattiloscritti senza titolo e data. Credo si tratti di una intervista e di un intervento ad un convegno organizzato dal Partito della Rifondazione Comunista negli anni della sua nascita. “Il partito comunista - scrive Arfè - ha in Italia una sua radice autoctona che trae vita e alimento da quel complesso fenomeno dalle molte facce, dalle molte voci e dalle molte anime che comincia a formarsi allo scadere del primo decennio del secolo, che ha il suo denominatore culturale nell’antipositivismo e politico nell’antigiolittismo del quale diventarono interpreti, in campo socialista, Gramsci e Togliatti, non Bordiga. A determinare il coagulo del partito comunista d’Italia e a segnarne il destino è, comunque, la Terza Internazionale. Questo comporterà, al passo con l’involuzione del regime rivoluzionario di cui Stalin sarà l’artefice, l’accettazione dei principi dello Stato-guida e del partito-guida e l’insorgere d’una contraddizione rimasta insanata tra gli interessi dello Stato sovietico e quelli della rivoluzione. La contraddizione, composta a forza e cementata col terrore, troverà la sua formula nel socialismo in un paese solo. Gramsci in carcere ne intuì la portata e le conseguenze. Togliatti, a Mosca, per ragioni di sopravvivenza politica oltre che fisica ritenne di poterla accettare. […] Soltanto dopo l’aggressione nazista all’URSS, nel 1941, l’antifascismo diventerà parte organica dell’ideologia comunista e […] i partiti comunisti dell’Europa occupata saranno all’avanguardia nella resistenza e diventeranno i 'partiti dei fucilati'”. Togliatti, prosegue Arfè, diventa così “in Europa il personaggio che meglio e più di ogni altro coglie ed esprime la potenzialità del nuovo corso. Fa riemergere il filone autoctono del comunismo italiano - schierati intorno a lui sono i discendenti diretti dei tre patriarchi, Giorgio Amendola, Giulio Einaudi, Antonio Giolitti, e, nella scia di Gramsci, promuove il superamento delle carenze tradizionali del socialismo italiano - criteri organizzativi e metodi di direzione politica fermi all’età giolittiana, sottovalutazione della “battaglia delle idee”, superamento delle pregiudiziali della tradizione massimalistica - traducendo l’operazione in atti politici audaci e lungimiranti, brillantemente motivati e che gli consentono un’adesione realistica a tutte le pieghe della storia italiana - la politica di unità nazionale estesa ai monarchici, l’amnistia ai fascisti, il voto dell’articolo 7 che inserisce il concordato nella costituzione italiana - ma tutto questo nell’ambito di una contraddizione, insuperata e di fatto insuperabile, la fedeltà, perinde ac cadaver, ai dogmi dello stato-guida e del partito-guida. L’adesione al Cominform e la condanna di Tito, l’accettazione cinica dei crimini giudiziari dello stalinismo a Mosca e dintorni, la risposta al XX congresso e alla rivolta ungherese del ‘56 sono fatti che distorcono, mortificano, vanificano la “via italiana” al socialismo. Il memoriale di Yalta è tardivo e già inadeguato al passo dei fatti”. Ci sono ad un tempo tutti gli elementi critici per un giudizio storico e, tuttavia, vi è anche il riconoscimento d’un ruolo essenziale svolto nella vita politica del nostro paese. E non è tutto. “Dentro questi limiti- scrive Arfé - il contributo che il partito comunista dà al consolidamento della repubblica nata da una maggioranza numericamente modesta, alla formazione di una coscienza democratica e antifascista di massa, al progresso del mondo del lavoro resta di fondamentale importanza nella storia dell’Italia democratica e la conferma storica sta nel fatto che nonostante la scialba mediocrità dei suoi tardi eredi la formazione maggioritaria e più matura della sinistra d’oggi è di matrice togliattiana, ma sta anche, per altro verso, nel fatto che il partito da lui creato non è sopravvissuto al crollo dell’impero sovietico, si è lacerato e ha perso la propria autonomia ideale e culturale e con essa la capacità di una costante e mordente iniziativa politica. Ha assunto, direbbe quel maestro di satira politica che fu Fortebraccio, i connotati di un identikit incompiuto ". La conclusione che ne ricava lo studioso – che era e resta un riformista – è quella che segue e sulla quale io penso sarebbe il caso di fermarsi a riflettere: “Ad alimentare la speranza che esso possa ricomporsi in dialettica unità fondendo nel calore della lotta le tradizioni storiche del socialismo italiano è, innanzi tutto, un fattore negativo: l’incapacità, la volgarità, la rapacità, l’irresponsabilità, con tratti tra il grottesco e il demenziale, della coalizione che oggi governa l’Italia e che è la traduzione in farsa del dramma che fu il fascismo, ma che possono essere, col limite che promana dal contesto storico europeo, anch’essi devastanti”. Già anni prima, in un intervento – l’unico credo – ad una riunione di vertice del nascente partito della rifondazione comunista, lo stesso Arfé, dopo aver insistito sulla necessità di “un ripensamento critico storiograficamente unitario di tutte nostre esperienze dottrinali e politiche” ammoniva: non rimarremo prigionieri del passato, se “il bilancio critico dei cardini delle nostre tradizionali dottrine rapportato alla storia e da essa confortato” ci consentirà “di sfrondarle dalle incrostazioni ideologiche ormai senza vita e di restaurare il circolo di scambio, vitale per entrambe, tra cultura storica e cultura politica.” Io vorrei che il nostro dibattito seguisse questa via. E rubo ancora le parole ad Arfè: “il primo motivo di riflessione che lungo questa linea vi sottopongo è quello di una valutazione aderente alla realtà d’oggi, delle trasformazione sostanziali avvenute nel sistema economico dominante e che ne caratterizzano le tendenze. Esso non si fonda più soltanto su una oppressione di classe, ma sulla sfruttamento e sullo sperpero criminoso delle risorse necessarie alla sopravvivenza dell’umanità. E’ questa oggi la contraddizione principale e da essa scaturisce l’indicazione di due linee di ricerca, l’una di natura dottrinale, l’altra politica. Nella cultura prevalente oggi nei vertici della sinistra la capitolazione ideologica è giunta al punto da considerare come intrisa di utopismo e di massimalismo - il rimprovero che tra il serio e il faceto faceva a me un vecchio amico e compagno - la dottrina classica del socialismo riformista sostituendola col culto idolatra del mercato. Io credo invece che oggi siamo autorizzati a domandarci addirittura se il sistema sia riformabile alla luce delle tradizionali metodologie riformistiche, […] partendo dalla constatazione che in un regime di programmato e praticato ottundimento delle intelligenze e della coscienze, di marcia, in un clima di restaurata unità nazionale estesa ai fascisti, verso ordinamenti di tipo tribale, la conta dei voti cessa di essere strumento di democrazia. […] Senza entrare nel merito delle molte e complesse questioni che qui si pongono, io credo che non si possa oggi non prendere atto che per ragioni oggettive e soggettive, ma irreversibili, è mutata nella dinamica e nella dialettica della società di oggi la funzione della classe operaia e che l’emarginazione, di per sé, non è il terreno più idoneo a far maturare una coscienza rivoluzionaria. La povertà di per sé, ammoniva don Milani, non è uno stato di grazia. C’è chi di qui ha tratto la conclusione che gli strati più deboli e indifesi vadano abbandonati alle cure del volontariato, come gli animali ai buoni sentimenti degli zoofili e che si debba rincorrere una non meglio identificata “gente”, a interpretarne e rappresentarne le aspirazioni instillate, fomentate e esaltate dal martellante imbonimento televisivo. lo credo invece che si tratti non già di accantonare e tanto meno di rinnegare un tratto che ha caratterizzato tutta la storia del movimento operaio e che è parte integrante del suo patrimonio etico, ma di sottoporre a verifica la formula accantonata, ma ancora suggestionante, della politica di alleanze intorno alla classe operaia, guida sicura di tutte le forze progressiste. Il conflitto di classe non è e non potrà mai essere spento. ma l’antagonismo principale, dove convergono tutte le contraddizioni del sistema, ha cambiato, a mio avviso, luogo e natura. Non è più quello che oppone il proletario al padrone, ma quello che contrappone gli interessi ciechi di un sistema che sempre più sfugge al controllo di quegli stessi che ne manovrano le leve, agli interessi generali della umanità ne! suo insieme. Il capitalismo imperialistico di Hilterding, di Kautsky, di Lenin ci ha dato due guerre mondiali, quello di oggi toglie il pane a centinaia dì milioni di esseri umani, minaccia di togliere a tutti l’aria e l’acqua” |
gp - 31-10-2004 |
Le ideologie - caro Giuseppe - sono dirimenti ma utili perché - esplicitandole - aiutano a comprendersi specie se afferiscono alla teoria e alla prassi del movimento di emancipazione (globale). Lo Stato ("socialista" o no) non si ... "estingue" per decreto del partito (solo quello di Lenin ... beninteso!) né è possibile imporre il Socialismo con i carri armati o prepetuarlo attraverso l'uso "legittimo" (nel senso sociologico di Max Weber) della violenza da parte degli apparati (repressivi) dello Stato. E non è possibile tacere sul fatto che la dittatura del proletariato si è rivelata - in realtà - una dittatura (di una minuscola minoranza intruppata in un partito/chiesa) sul proletariato. L'affermazione di questa (ma non è la sola) verità storica rappresenta l'eredità politica del '68. Un'eredità dalla quale non transigo. Un caro saluto Grazia |
Giuseppe Aragno - 31-10-2004 |
Cara Grazia, temo che le ideologie, per quanto dirimenti, in questo caso, non abbiano aiutato la comprensione. A chiare lettere: la condanna del bolscevismo non è in discussione. Da tempo, però, i carri armati non impongono il socialismo. No: esportano libertà e democrazia. E non c'è cordone sanitario, non c'è guerra fredda, non c'è rivoluzione. Li guidano, i carri armati, gli stessi personaggi che menano scandalo per le "libertà calpestate", le violenze esercitate dai bolscevichi. Gli stessi personaggi che armano il vero e falso terrorismo e insanguinano il pianeta. All'origine di questo macello non c'è l'illusione di fare un mondo di eguali, no. C'è la volontà di difendere un mondo di diseguali. Non è una tragedia di poco conto. Per dimensioni territoriali, protervia ideologica, danni compiuti, vittime contate e programmate, siamo ai vertici della barbarie. Se dico che cinquecentomila bambini iracheni sono stati uccisi da un embargo criminoso, nel silenzio consenziente o la comprensione prezzolata degli storici-giornalisti "liberali", transigo con l'eredità del Sessantotto? Se osservo che studiosi da agitprop, decontestualizzano ed "usano" la tragedia bolscevica al fine di sollevare una cortina fumogena che consenta al capitale di continuare a seminare morte e distruzione, mi metto fuori dal terreno ideale dei valori per cui ho lottato da giovane? E' consentito sospettare che l'uso aberrante della violenza leninista si inserisca nella deprecabile - e tuttavia talvolta storicamente necessaria - tradizione della violenza rivoluzionaria (il 1789 non fu comunista), compresa quella bakuninista, mentre la teorizzata, reiteratamente e storicamente praticata e insaguinata dottrina dell'uso "legittimo" (nel senso statunitense) della violenza da parte degli apparati (repressivi) di uno Stato affidato a un governo fantoccio, si inserisca nella non meno deprepecabile e, tutto sommato, più ignobile violenza controrivoluzionaria, senza dover per questo sentirsi un sessanttottino pentito? Un saluto sinceramente caro. |
Grazia - 31-10-2004 |
(...)"Se dico che cinquecentomila bambini iracheni sono stati uccisi da un embargo criminoso, nel silenzio consenziente o la comprensione prezzolata degli storici-giornalisti "liberali", transigo con l'eredità del Sessantotto? (..)" No ... se aggiungi che ciò è avvenuto a causa di un embargo imposto dall'ONU al quale il governo di centrosinistra - quand'era al potere - non si è opposto. (...)"Se osservo che studiosi da agitprop, decontestualizzano ed "usano" la tragedia bolscevica al fine di sollevare una cortina fumogena che consenta al capitale di continuare a seminare morte e distruzione, mi metto fuori dal terreno ideale dei valori per cui ho lottato da giovane?(...)" No ... se aggiungi che è una pratica ampiamente utilizzata, storicamente, dagli ... "intellettuali organici al potere" (qualsiasi potere). (...)"E' consentito sospettare che l'uso aberrante della violenza leninista si inserisca nella deprecabile - e tuttavia talvolta storicamente necessaria - tradizione della violenza rivoluzionaria (il 1789 non fu comunista), compresa quella bakuninista, mentre la teorizzata, reiteratamente e storicamente praticata e insaguinata dottrina dell'uso "legittimo" (nel senso statunitense) della violenza da parte degli apparati (repressivi) di uno Stato affidato a un governo fantoccio, si inserisca nella non meno deprepecabile e, tutto sommato, più ignobile violenza controrivoluzionaria, senza dover per questo sentirsi un sessanttottino pentito? (...)" Sì ... se aggiungi che la violenza "legittima" (nel senso statunitense del termine) risale sì alla guerra del 1991 registrando - contestualmente - il passaggio, cruciale, della "guerra umanitaria" in Kosovo. Guerra voluta e agita da governi europei, in larga parte di sinistra (all'epoca), che ha visto in prima fila l’Italia (governi di Prodi e D'Alema). Ciao |
Pierluigi Nannetti - 01-11-2004 |
Se il mio articolo ha suscitato interesse è proprio quello che mi proponevo: mi pare perciò di poter dedurre che il tema non è assolutamente banale e, grazie ai commenti, chiedo ancora ospitalità per poter apportare altre considerazioni e spunti di riflessione. Prima di tutto per quanto riguarda il carattere di scienza del socialismo, il socialismo scientifico. E’ abbastanza noto che Marx ed Engels, ai quali ripugnava soprattutto di definirsi “marxisti” od “engelsiani”, ritenevano di definire la loro teoria dei rapporti sociali “socialismo scientifico”, in opposizione a tutte le varie forme di socialismo “utopistico”. Bisogna però ricordare che, sia in Marx che in Engels, il metodo scientifico era il “materialismo dialettico” e non il solo metodo empirico sperimentale, assunto come unico metodo scientifico. E’ lo stesso metodo che rivendica pienamente Lenin con il suo saggio sulla “Scienza della logica di Hegel”, oltre e più completamente che con “Materialismo ed empiriocriticismo”. E’ evidente che una discussione su questo punto aprirebbe un dibattito che va al di là del problema in questione. Però voglio ricordare che sia Hegel, che la versione materialistica della dialettica hegeliana (appunto la tradizione del socialismo scientifico) ritengono che tale metodo sia più idoneo a capire la complessità e l’onnilateralità dei fenomeni (sia naturali che umani) del metodo empirico, che spesse volte si ferma alla superficie senza indagarne le cause e i fondamenti. Questo riferimento al metodo è importante per capire, ad esempio, la questione dell’uso della violenza nella storia umana. Ci si può fermare alla superficie e diffondere la convinzione che i comunisti siano “mangiabambini” e trovino semplicemente adeguati riferimenti teorici nella teoria dell’autoritarismo (magari mascherato di socialità) per dare sfogo ai loro impulsi. Sul piano morale sarebbero assolutamente da condannare, così come non si potrebbe non condannare e non gioire della disfatta del comunismo. Ma, se non ci accontentiamo di rimanere su di un piano del tutto superficiale (esigenza posta anche nel commento di Aragno, se ho ben capito) e si cerca di capire più in profondità, ci si accorge che la storia dell’umanità, almeno fino ad oggi, è storia piena di violenza. E, di fronte a ciò, o ci arrendiamo e diciamo che la “natura” dell’uomo è così e non possiamo farci niente se non sperare nell’aldilà, o cerchiamo di capire il fondamento oggettivo di tale violenza e di vedere se tale fondamento è destinato a perdurare o no. E’ ciò che è contenuto nell’elaborazione teorica riconoscibile come socialismo scientifico: mi riferisco in particolare ai testi di Marx Engels e Lenin (anche se c’è chi ha tentato di continuare la loro opera, nonostante la poca notorietà). “La storia finora esistita è storia di lotte di classe”: Ecco il fondamento oggettivo di tale violenza. La storia finora esistita ha sempre visto una classe dominante, che ha sempre usato la violenza per dominare. Dunque l'uso della forza e della violenza, tra individui e gruppi sociali organizzati, è un fatto materiale che deve essere indagato senza il minimo ricorso ad apriorismi di stampo moralistico, per non cadere in deformazioni assolutamente retoriche e metafisiche. Occorre risalire alle basi del rapporto materiale in cui si esplica la violenza fisica e bisogna riconoscerne il gioco fondamentale anche quando agisce allo stato latente, di pressione e di minaccia, pur senza un aperto spargimento di sangue. E così se ne può dare una spiegazione senza ricorrere alle innumerevoli confessioni religiose e filosofiche, che oscillano tra il culto della forza e del superuomo, e la rassegnazione e la non - resistenza tipica del cristianesimo. Allora, posto che lo strumento principale dell’uso della forza è lo stato e posto che lo stato è sempre stato usato dalla classe dominante, la classe oppressa non potrà mai elevarsi a classe dominante senza l’uso di tale strumento. E’ su questo punto che si separano socialisti ed anarchici, non c’è bisogno di scomodare l’ossessione “autoritaria” di Marx contro la tendenza “libertaria” di Bakunin. La separazione diventerà anche organizzativa dopo l’esperienza della Comune di Parigi. La lezione tratta dai socialisti (congresso dell’Aja dell’ Internazionale, il quinto tenuto dal 2 al 7 settembre 1872) fu che l’ elemento principale di debolezza della Comune fu proprio la mancanza di una direzione forte e consapevole, insomma di un partito che guidasse il movimento e che avesse nei suoi scopi l’eliminazione del capitalismo attraverso l’uso della forza del nuovo stato che si stava creando, laddove gli anarchici individuavano in questo un germe di “autoritarismo”, che doveva essere combattuto come ogni altra forma di autoritarismo. Sono due orientamenti fondamentali diversi: l’uno, quello socialista, vede lo stato non in termini “demoniaci”, ma come uno strumento materiale usato da tutte le classi sociali dominanti per il loro dominio, e che, dunque, deve essere usato anche dal proletariato nella fase di transizione dal capitalismo al socialismo. Sarà uno stato “sui generis”. Intanto avrà forme politiche completamente nuove, create durante la fase rivoluzionaria dopo aver distrutto lo stato borghese e, poi, il suo contenuto politico, comprendente anche l’uso della forza, andrà progressivamente estinguendosi con la reale trasformazione del modo di produzione e con la graduale estinzione delle classi sociali. L’altro, quello anarchico, vede ogni tipo di stato come l’incarnazione del male, ogni esercizio della forza da combattere e, dunque, anche un eventuale stato proletario, conseguente un movimento rivoluzionario, è da osteggiare. Così, secondo i socialisti, proprio l’anarchismo può essere un elemento di disgregazione delle forze rivoluzionarie, un prezioso alleato “in extremis” proprio della borghesia appena sconfitta. E gli esempi specifici della Comune e della rivolta di Kronstadt lo confermerebbero. D’altra parte, secondo l’anarchismo, indipendentemente da ogni contenuto e da ogni obiettivo a lungo termine, i socialisti “autoritari” vogliono semplicemente sostituire il loro autoritarismo a quello appena rovesciato in un’eventuale rivoluzione sociale vittoriosa. Due orientamenti e due lezioni storiche difficilmente conciliabili. Infine vorrei ricordare la tesi principale del mio scritto: è documentabile senza alcun dubbio (mi pare di averlo già fatto in maniera sufficiente, ma potrei aggiungere molta altra documentazione, che però mi pare fuori luogo in una sede come questa) che la Rivoluzione d’Ottobre in Russia fu pensata e condotta in stretto collegamento con la Rivoluzione Comunista in Europa e come il primo atto di una Rivoluzione Comunista Mondiale, che si fondasse sulla trasformazione della guerra tra gli stati imperialisti in rivoluzione. Era chiaro (e prima di tutto per Lenin) che, senza la vittoria a breve scadenza (qualche anno, se non mesi) almeno in qualche stato europeo capitalisticamente sviluppato, quel processo sarebbe stato inevitabilmente fermato e sconfitto, con la conseguenza che il socialismo in Russia e solo in Russia sarebbe stato impossibile. Era chiaro ai dirigenti dell’Internazionale quello che il socialismo scientifico aveva sostenuto da Marx in poi: che il socialismo è storicamente possibile solo sulla base di due condizioni, necessarie entrambe, che il potere politico sia nelle mani del proletariato e del suo partito e che il modo di produzione sia in forme pienamente capitalistiche. Accertato ciò, quel che è stato il “comunismo” sovietico dopo la sconfitta di ogni tentativo rivoluzionario in Europa (dopo il 1923 è assolutamente finito ogni tentativo in quel senso) non ha niente a che fare con il comunismo. Anzi, l’aver continuato a chiamare comunismo ciò che non lo era, ha comportato una vera e propria deformazione proprio della teoria e dei principi del comunismo, il che rappresenta, più ancora della vittoria con le armi, la vittoria più importante del capitalismo in questa fase storica. In Russia, con la teoria del “socialismo in un solo paese”, si è semplicemente favorito l’introduzione di forme economiche di tipo capitalistico, forme diverse (ricordiamoci che si è passati al capitalismo dall’autocrazia zarista) da quelle occidentali, certo, ma pur sempre capitalistiche, in quanto la forza - lavoro era considerata anche lì una merce e il denaro era usato anche lì come misura del valore delle merci e della stessa forza - lavoro. Si dirà che è stato soprattutto un capitalismo di stato e non privato: benissimo, ma la forma capitalismo di stato è nota anche agli stati capitalistici occidentali; lo sarà stato in proporzione diversa e maggiore, ma il socialismo è decisamente altra cosa. In ciò è contenuto anche il giudizio sulla “burocrazia” come classe sociale dominante. Il tema è interessante e meriterebbe uno spazio più ampio, ma da dove provengono i privilegi della “burocrazia”? Si può dire che esiste un modo di produzione “burocratico”, diverso da quello capitalistico? A mio parere no, perché si può discutere dell’entità di certi privilegi, ma anche nei regimi cosiddetti “democratici” la burocrazia ha notevoli privilegi. Infine, e mi scuserete dello spazio che ancora vi prendo, un’ultima annotazione sul giudizio storico da dare della “democrazia” e della “socialdemocrazia”. Le vicende tedesche del primo dopoguerra non possono essere taciute: quel che ha fatto il governo socialdemocratico in Germania nell’utilizzare la forza dello stato contro il movimento operaio tedesco è completamente da assimilare a quello che faranno dopo i governi fascisti, sia in Italia che in Germania. Anche a questo proposito la documentazione è enorme e ricordo, oltre ai brutali assassini di capi come Karl Liebnecht , Rosa Luxembourgh e Leo Jogisches, l’uso di carri armati contro gli scioperi operai, dove venivano uccisi a centinaia e migliaia. Dunque anche la tesi che i socialisti democratici si presentano con una tradizione “pulita”, nel senso che non contiene episodi di uso gratuito della forza e della violenza, è almeno da rivedere. Trovo, infine, interessante questa citazione di Arfé contenuta nel commento di Aragno: “Il conflitto di classe non è e non potrà mai essere spento, ma l’antagonismo principale, dove convergono tutte le contraddizioni del sistema, ha cambiato, a mio avviso, luogo e natura. Non è più quello che oppone il proletario al padrone, ma quello che contrappone gli interessi ciechi di un sistema che sempre più sfugge al controllo di quegli stessi che ne manovrano le leve, agli interessi generali della umanità ne! suo insieme. Il capitalismo imperialistico di Hilterding, di Kautsky, di Lenin ci ha dato due guerre mondiali, quello di oggi toglie il pane a centinaia dì milioni di esseri umani, minaccia di togliere a tutti l’aria e l’acqua”. Ma questa non può che essere una considerazione di partenza: il capitalismo ormai è diventato un sistema economico contro l’intera umanità. Ciò premesso, il problema di come organizzare le forze e l’energie umane per togliere le leve del potere a chi non le sa nemmeno più controllare, resta. E con ciò anche il modo di risolvere tale problema, che la tradizione del “socialismo scientifico” ci ha tramandato. Certo la tradizione autentica, non quella deformata in quasi un secolo ormai di falsificazioni. |
Emanuela Cerutti - 01-11-2004 |
Il bisogno di autenticità di cui parla Nannetti e la strumentalizzazione intorno alla quale girano le domande di Aragno sono le esigenze più forti che avverto in questo momento storico. Credo che insegnare o studiare storia significhi entrare nelle dinamiche di un passato più o meno lontano per comprenderne l'evoluzione, come nel caso dei rapporti tra comunismo ed anarchismo. Un'evoluzione che non tocca solo il piano concettuale, ma soprattutto quello di realtà: teorie non confermate da una prassi possibile possono sopravvivere come orizzonti o sfondi, ma devono accettare la mediazione concreta. In contesto movimentista, e traslando un po', penso ai nodi emergenti dai dibattiti europei o mondiali: raccordi base-vertice, organizzazione che dà corpo alla spontaneità, distinzioni che permettono di stabilire confini tra cause e conseguenze, analisi che non chiudono gli occhi su rischi, realtà ( e come reale è il potere, sempre), pericoli o contraddizioni, ma ne cercano motivi e soluzioni, alla ricerca di un modello praticabile, di soluzioni condivise. Se questa è democrazia. Credo che a volte sia difficile accettare le svolte del passato: non bastano le stigmatizzazioni per gettare un colpo di spugna sugli orrori, certo, ma la memoria storica deve sapersi guardare allo specchio dell'oggi per distinguere tra revisionismi strumentali e limiti che gli ideali incontrano. Per procedere e non cadere nella palude del passato che non passa. |
gp - 01-11-2004 |
(...)"Due orientamenti e due lezioni storiche difficilmente conciliabili. (...)" Ma che hanno una comune data di nascita: il 28 settembre 1864. Giorno in cui fu fondata - a Londra - nel corso di un meeting di rifugiati politici democratici e di lavoratori provenienti da diversi Paesi l'Associazione Internazionale del Lavoratori (AIT) più nota come Prima Internazionale. L'Assemblea elesse un comitato provvisorio con il compito di provvedere all'organizzazione definitiva dell'associazione che, a sua volta, espresse un subcomitato incaricato di redigere gli atti costitutivi. Atti costitutivi che erano la risultanza dell'Atto di fratellanza (redatto da Mazzini) integrato da alcune dichiarazioni dei rappresentanti francesi e inglesi. La stesura definitiva fu affidata a Carlo Marx che non solo modificò la forma (come gli era stato richiesto) ma la sostanza. Il documento (marxiano) fu, poi, presentato e approvato - nella versione francese - con poche (ma sostanziali) modifiche che accentuavano l'autonomia delle singole sezioni (nazionali) nel corso del primo congresso svoltosi a Ginevra nel 1866. Nella versione approvata dall'assemblea dall'originale frase marxiana: "l'emancipazione economica degli operai è il grande scopo a cui ogni movimento politico deve essere subordinato come mezzo" furono eliminate le due ultime parole: "come mezzo. La neonata Associazione, dunque, non intendeva essere o diventare (come proponeva Marx) un partito politico nel senso tradizionalmente inteso bensì l'antipartito. Ovvero un'organizzazione che mirasse alla distruzione delle classi sociali e di tutto ciò che ne esprime l'essenza e l'esistenza; lo Stato, il Partito o il movimento politico, l'esercito ... la polizia. La Comune di Parigi (e la violenta repressione che ne seguì) aiutò Marx nel rovesciare questa impostazione e provocò la scissione realizzata a Saint Imier (subito dopo il congresso generale dell'Aja che citi) nella quale erano presenti le delegazioni italiane, francesi, spagnole, giurassiane, olandesi e statunitensi. Fra gli interventi di maggior rilievo Gino Cerrito - in uno studio di trent'anni fa - rileva quelli di Bakunin, Carlo Cafiero, Errico Malatesta, Andrea Costa, Guillaime, Schwitzenin, Cames e Gustave Lefrancais. Successivamente aderirono alle mozioni approvate a Saint Imier i trade-unionisti inglesi, i belgi e l'ex braccio destro di Marx: Eccarius. Il resto è troppo lungo da raccontare ... e mi limito a rilevare una "cosuccia" semplice semplice. La Prima Internazionale fu caratterizzata da un'ampia autonomia nazionale delle singole sezioni. Autonomia decisionale (e politica) alquanto ridotta e ridimensionata nella Seconda (quella socialdemocratica) e ... totalmente assente nella Terza. Quella stalinista. |