|
Le lettere di El Khayat a Khatibi
Ignazio Apolloni
|
Considero un onore poter parlare delle lettere che si sono scambiati la El Khayat e Khatibi. Non sono solito farlo perché preferisco a mia volta scriverle sia pure a persone del passato purché abbiano connotato o riempito pagine di storia nelle sue diverse espressioni. Ovviamente le mie rimangono senza risposta sicché più che in dialoghi si estrinsecano in monologhi. Ci si può trovare la facile accusa di essere state, quelle donne, reticenti, succubi, portate eccessivamente ad accettare l’insignificanza in nome della superiorità del maschio cui si doveva l’obbedienza, ma non manca l’ironia quale molla per scardinare le regole in nome della parità dei sessi.
Anche questa è la tematica che muove l’ardire della Khayat a cercare un interlocutore sul quale riversare le proprie insoddisfazioni o insofferenze verso una società che si indovina cristallizzata su posizioni o interpretazioni coraniche fuori del tempo. La Khayat infatti, formatasi in Francia e per avere soprattutto frequentato la Sorbona è un’intellettuale allo stato puro, nutrita di vaste letture di ordine filosofico o narrativo, attenta ai fenomeni della trasformazione in atto nella società occidentale nella quale si riconosce, sebbene magrebina. È peraltro una psicoterapeuta e postula l’utilità dell’analisi della psiche quale possibile fonte alla quale attingere per liberarsi dalle costrizioni.
Ma non è soltanto la sua dimensione di donna proiettata nella società – con i limiti che essa impone se specialmente intessuta di principi radicati in secoli di sottomissione del genere femminile a quello maschile – a caratterizzare la figura della Khayat perché molto di più si interroga nel libro, e quindi nelle lettere che scambia con il Khatibi, su un possibile aimance tra i due sessi: per poi porsi lo stesso problema in altri ambiti del rapporto tra esseri umani o tra umani e vegetali, o animali. È, il suo, un ricercare insistentemente nell’universo momenti di profonda intesa con l’altro, l’empatia che non sfocia necessariamente nella passione o nell’amore carnale. Le sue lettere sono, sul punto, pudiche; quasi da adolescente; velate di sofferenza per non potere esprimere brutalmente la voglia di amare o essere amata: e con altrettanta delicatezza risponde alle sue richieste di aiuto il destinatario delle sue missive.
Se le lettere della Khayat sono ammantate di poeticità, lirismo, musicalità, persino romanticismo, in quella che somiglia appunto più a una scansione del verso che non alla narratività da cui sembrerebbero essere sostenute, quelle dello scrittore, pensatore, filosofo, amante dell’estetica Khatibi, sono ricche di filosofemi: sono cioè più il frutto della mente raziocinante che non del cuore. È quindi il conflitto tra questi due estremi, corpo e spirito, logos e religiosità, sia pure vicina alla laicità occidentale, a costituire il relais da cui parte la relazione amorosa tra i due interlocutori (la corrispondenza degli amorosi sensi di Goethe che si sostanziano in questo caso nella pur sempre improbabile definizione dell’aimance).
Succede però, nel libro, che la materia, un tempo definita dell’amor cortese (stornellatori e trovatori oltre che poeti d’oltralpe dell’epoca cavalleresca) inevitabilmente – e non solo per stanchezza ma per altre urgenze – sfugga di mano ad entrambi per poi rientrarci appena le circostanze del momento lo richiedano. Purtroppo tra le circostanze dolorose, capaci di annientare per qualche tempo il coriaceo amore della Khayat per la scrittura, ci sarà la malattia e successivamente morte della figlia; tra quelle un po’ mondane e un po’ da studioso ci saranno i convegni ai quali il Khatibi viene invitato, o i suoi viaggi di piacere. L’aimance, la problematica delle epistole tra i due però è sempre là, in agguato, a dire come i fili frattanto si sono intrecciati al punto da non potere più essere districati.
Disquisiscono difatti su civilizzazione marocchina con l’orgoglio di sentirsi come popolo tra i grandi se non al primo posto tra i paesi arabi; di logica formale attingendo alla sapienza della grecità classica; di misticismo; di metempsicosi; dell’importanza del silenzio per avvertire i segni della vita che scorre ma che pure ha bisogno della scrittura per riempirsi di senso.
Insomma, una lettura coinvolgente, da togliere il fiato e il sonno, da fare gridare al miracolo per la resurrezione di una tematica (l’aimance) mai troppo indagata né abbastanza capita. Ed allora forse non guasta ritornare a porsi la domanda se sia preferibile all’amore di oggi così come è praticato quello fatto di sguardi timidi, sottili messaggi subliminali, carezze a fior di pelle o a fior di labbra, memorie incancellabili legate al primo apparire dell’insonnia che aiuta a non dimenticare. Ciò in quanto solo la memoria e il sogno riescono a nobilitare la realtà.
Ma per non lasciare inespresse le suggestioni createmi dalla figura del “maestro” (un autentico maestro per saggezza e profondità di pensiero), e quelle suscitate da lui sull’ “allieva” mi preme dire dell’ammirazione che non può non provarsi leggendo le calibrate risposte del Khatibi all’urgenza della Khayat di averle. Misurate fino a una sorta di lavoro ingegneristico non tralasciano nulla, non lasciano nulla nell’ombra, semmai problematizzano, così rendendo più fertile il dialogo di carattere introspettivo sull’essere e sul divenire che sostanzia il volume. Il professor Khatibi, dalla sua posizione di mentore della forma più avanzata di cultura dell’intera area del Maghreb (in ciò eguagliato dall’ancor più famoso scrittore Tahar Ben Jelloun, almeno da noi) avrebbe potuto in modo lapidario lasciarsi andare alle definizioni, troncare lo sviluppo, la proliferazione delle idee, arrestare il flusso di sempre nuove domande postegli da una insaziabile donna che vuol sapere fino a che punto si sia liberata o stia liberandosi dai condizionamenti di una civiltà ormai prossima ad essere superata dagli eventi.
Lavoro non facile già quello del “maestro” di accettare la sfida di misurarsi in una corrispondenza, in verità molto letteraria, piuttosto che travasare i risultati delle sue ricerche da studioso in enciclopedie o regesti. Epperò egli trova il tempo per coltivarla così diventando il partner ideale, l’amico al quale confessare angosce o speranze, propositi di rivolta ed aspirazioni alla notorietà: dalla quale tutte le altre donne arabe sembrano escluse. Doveroso dunque l’omaggio a chi ha inteso dar vita – consapevolmente o no non importa – a una sua creatura (questa volta non proprio di sabbia, per mutuare il titolo di un romanzo del Ben Jelloun), regalandoci perciò una scrittrice di un’area geografica che ne ha un grande bisogno. Anticipatrice – questo è il nostro augurio – di tali fermenti da mettere in crisi l’uso del velo visto come sottomissione della moglie al marito o della figlia agli adulti di casa.
Mi sia infine consentito di fare due domande alla Khayat.
1) Quale valore dà alla sua visita allo Stato di Israele (dove non credo si sia mai recato il prof. Khatibi) e perché richiama l’espressione berbera Tassanou per dire Amore mio o in alternativa Occhi miei, quasi che la lingua araba o francese non conoscesse niente di simile. La mia curiosità nasce dal fatto che nel mio romanzo Marrakech, presentato proprio nella sede nella quale ci troviamo, la protagonista è una ragazza berbera mentre in un altro mio romanzo Gilberte è invece una ebrea.
2) Perché prova collera contro la scienza se solo essa, se ben coltivata e se perciò avesse già raggiunto traguardi più avanzati, avrebbe potuto salvare sua figlia da una morte prematura simile a quelle da lei citate che hanno colpito nel momento migliore della loro produzione la regista francese Christine Pascal e Sarah Kayne, drammaturga i cui lavori cominciavano già ad avere una vasta risonanza.
aprile 2013
in recensioni e presentazioni: |
|
dello stesso autore: |
|