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Dal fasto, alla decadenza, al declino
(senza rimpianti)
Ignazio Apolloni
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Mi sono accinto alla lettura di “Cuori di pietra” con un misto di curiosità e (un fritto misto di) amore per le cose che ci avrei trovato. Confesso infatti che mi piacciono più i cuori di pietra che il fegato di vitella: sebbene quest’ultimo possa essere fatto alla veneta (tanta cipolla e mezzo bicchiere di vino bianco sfumato); ed io per i veneti ho una particolare simpatia da quando hanno smesso di avere dei dogi per dedicarsi interamente alla conservazione dei propri monumenti. Che io sappia anche Sebastiano Vassalli li predilige al punto di avere dato uno spaccato della loro grandezza con “Marco e Mattio”: e poco ci mancava che gli mettesse addosso uno sparato in occasione di un certo ballo in maschera con tanto di damine e damerini che fa agire quando deve dare un quadro rutilante di quella città.
Altra cosa però l’innominata città di provincia in cui viene edificata la casa dal cuore di pietra. Mi sembra non ci sia altro che fasto, decadenza e miseria. In un arco di tempo così breve (un centinaio di anni) si susseguono e succedono avvenimenti assolutamente poco edificanti. Non è tanto la fuga dalla storia di personaggi minori perché quelli nella storia non c’entrano mai. Non è neanche l’assemblaggio o il si salvi chi può dei derelitti che pur di avere un tetto si prendono quello degli altri. Ciò che mi ha fatto venire l’orticaria è il pessimismo metafisico del suo autore. Prolifico, informato della storia d’Italia quanto basti, sapiente dispensatore di gioie e dolori (più di questi che di quelli) alterna la derisione all’irrisione. Esce fuori un quadretto con tanta pietra e poco cuore (e dire che il libro Cuore ci fece versare fiumi d’inchiostro per non dire lacrime) come se il pessimismo fosse un valore in sé e non l’inesatto opposto della lucida armonia tra cielo e mare, tra body and soul.
Mi ha scritto una volta che piuttosto che venire al sud si sarebbe spinto sul cocuzzolo (leggi polo, e senza riferimento alcuno) del mondo. Ovviamente l’apice del silenzio, della simbiosi tra questo e la creazione sta al nord. Dalla parte opposta ci stanno uomini piccoli e neri, passati dalle caverne ai tuguri, desiderosi di andare ad occupare un posto nella nebbia non avendo potuto stabilmente occupare quello al sole. Eppure l’ho invitato ripetutamente a tornare a cercare di capire i templi dorici o le colonne corinzie, l’idea del barocco che si era fatta l’aristocrazia o il sublimato di liberty che tuttora impregna l’atmosfera nelle lunghe serate di agosto. Tutto inutile, Sebastiano Vassalli, non ama la bruma, lo intristisce l’inesistente loquacità del popolo delle risaie; guarda come il fumo negli occhi il fumo delle ciminiere. E pensare che con le ciminiere si sono percorse miglia marine, si sono catturati gli squali, si è scritto di Moby Dick ed altri cetacei. Al sud comunque non ci torna. Eppure non gli manca né la fantasia per occuparsi d’altro (innumerevoli e grandiosi i personaggi cui dà vita e colore) né la capacità mimetica per fare lui stesso da personaggio. È noto che il critico è restio ad entrare nelle pagine del libro. Evita di restarne invischiato. Ha timore di dovere dare gomitate agli antagonisti (a cominciare dal recensito). L’incertezza nel dare prevalenza all’uno o all’altro lo paralizza, lo svilisce. Resta quindi sospeso il suo giudizio, come è sospeso quello degli dei del cuore di pietra, che infatti nulla fanno per ridare prestigio ad un luogo dove l’opera dell’uomo era intervenuta in modo così determinante. A questo punto però interviene lo scritto e fa di Salamina una reggia. Come se la memoria facesse più grande (o imperitura) la realtà.
Fellini con l’amarcord ha ricreato scenari ormai inesistenti, ha dato voce all’insignificanza. Joyce ha vissuto da aedo il suo esilio triestino. Omero ha trasformato in pupi i suoi guerrieri. La letteratura cavalleresca ha fatto trasvolare la donna sui propri veli dal continente terreno a quello celeste. Qui le fontane, gli zampilli, l’odore dolciastro dei datteri, le piene improvvise dei fiumi hanno esaltato il dominio del bello. Faremmo bene a leggere le mille e una notte e molto meno un decamerone. Potremmo scoprire che lo specchio dei sogni esiste tuttora da qualche parte che non sia una città alta affacciata su una pianura (a sua volta adagiata ai piedi delle montagne: presumibilmente svizzero-alpine).
Ma perché non mi piacciono i cuori di pietra. Perché non ne canterei la passata grandezza, l’armonia delle forme, il fasto aulico. Per la stessa ragione per cui non mi piacciono i cenacoli o le cappelle sistine (potrei fare un’eccezione per i maestri di cappella perché finita la messa trovato l’inganno). Non è chi non sappia che la storia è divenire, tensione verso vette dello spirito e della creazione sempre nuove. La conversazione appartiene alla storia quanto il biplano all’aviazione. Le palme una volta consumate, vanno sostituite da altre. Le piramidi di Giza o quelle di Chichenitza sono già parte dell’immaginario tanto quanto lo sono le babs. Oggi incuriosisce più il formicolio di una tribù di formiche impegnate a trasmettersi messaggi e umori; o il volo eloquente delle api (ma solo per loro), che non il palazzo del Louvre con i suoi cinquecentomila dipinti.
Certo, l’inquisizione. Non credo che i suoi morti siano riusciti a perdonare i carnefici né vorrei che si chiedesse loro il perdono. La bolla dovrà continuare a marchiarli di infamia finché l’uomo sarà dotato di memoria. Troppi ritardi nel riscatto della cultura. Troppe pastoie per rinnegare il proprio passato. Ben vengano dunque libri che ne parlino (e Vassalli ne ha parlato). Si discuta sugli spazi liberi; non coartati da costruzioni, da logiche di potere che fanno il ricco più forte. Si provi a riappropriarsi dell’io e a potenziare quello di coloro che non sanno neanche di averlo. Seguirebbe una esplosione di gioia, un gioco pirotecnico e sfavillante di luci e scintille, un’apparente anomalia nella creazione lenta, troppo lenta fino ad ora: e se proprio dovesse essere accompagnata da sventolio di bandiere, rosse o gialle fa lo stesso, purché si cominci e non si finisca più.
novembre 2012
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