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Se il divino diviene il problema.
“L'infantilismo della religiosità”
Aldo Ettore Quagliozzi
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Scrive il professor Franco Cordero a conclusione del capitolo primo del Suo pregevolissimo lavoro “Il brodo delle undici” – Bollati Boringhieri,(2010), pag.194, €14,00 -:
“Mater Ecclesia, (…), appare largamente insediata tra testa e midolla: con l’apparato rituale comanda la leva affettiva; regola un crepuscolo logico (l’autorità soffoca le dispute de grazia ed libero arbitrio; vi sono cose da non dire; meglio non pensarle); rimette i peccati; traffica indulgenze; e assicurando l’anima nel possibile aldilà, esercita un dominio psichico. Tale prassi erode mente e morale autonome: chi le coltiva rischia l’anima; la via salutis sta nel camminare in fila; ingegnose casistiche disarmano l’etica, sul presupposto che tutto sia riparabile. L’infinita misericordia divina apre comode vie, purché uno abbia sotto mano chi l’assolve, né occorrono particolari stati d’animo: basta l’attritio o paura dell’inferno; contritio, dal verbo contero, indica le pene d’un cuore virtuosamente frantumato. Siamo agli antipodi dell’eroico agonismo calvinista. Lì risultano salvi i soli automi della grazia divina: idea repellente; sedici secoli fa Pelagio, monaco britanno trapiantato a Roma, la rifiutava, campione d’un severo umanesimo cristiano dove ciascuno gioca le sue sorti senza favori o remissioni; e prevale l’ecclesiarca Agostino, fautore d’una religione di massa; perciò vela eufemisticamente l’idea, radicata nella sua dottrina, d’una doppia predestinazione (…); e il doublethink ortodosso snerva i fedeli abituandoli al discorso equivoco (…). Viene fuori una religione semiatea, mercantile, comoda, i cui effetti negativi penetrano nel codice genetico, dal cinismo pragmatico alla furberia infingarda”.
Dotta assai la Sua scrittura. Ove si rivelano i fondi oscuri di una religione fattasi chiesa, i suoi contrasti interni, risolti spesso con la violenza, il martirio, i roghi. Ed il puzzo di quei roghi non si disperde facilmente nell’aere, sol che lo si voglia percepire. Ristagna acre e pesante assai ad ogni intemerata dei vertici della religione di Roma, così come di tutte le religioni, quali esse siano. A tutte le latitudini, a tutte le longitudini. Merita lo scritto del Saggio Autore una precisazione, anzi una rivelazione a proposito del titolo della Sua pregevole opera.
Scrive per l’appunto il Saggio nell’incipit del primo capitolo:
“Il brodo delle 11 era la scodella dell’ultima colazione nel Regno sabaudo, quando le impiccagioni avvenivano a quell’ora del sabato. Battono ore sinistre ma l’Italia sonnambula non pare essersene accorta. (…).”
In altre occasioni ho avuto modo di scrivere sulla “credulità” in campo religioso come una potente forza di condizionamento delle coscienze e delle menti, anche le più libere, e, di conseguenza, come strumento di controllo politico e sociale all’interno del paese. Come non ricordare di quel dio che entra di soppiatto nelle cabine elettorali nell’immediato dopoguerra per controllare il voto degli abitatori del bel paese? E di tutte le madonne piangenti nelle ubertose contrade del bel paese? La sconfitta di Pelagio (354(?)- 420), monaco britanno, ha consentito il trionfo di una “religione semiatea, mercantile, comoda, i cui effetti negativi penetrano nel codice genetico, dal cinismo pragmatico alla furberia infingarda”. Necessario e provvidenziale sostegno, sempre, a tutte le forme illiberali di governo.
Di quella “credulità” ne ha scritto in una Sua corrispondenza Umberto Galimberti col titolo “Il cristianesimo dei miracoli”, pubblicata su di un supplemento del quotidiano “la Repubblica” e che di seguito trascrivo in parte.
“Leggiamo nel Vangelo di Giovanni (20,29) che Gesù disse: - Voi credete perché vedete, ma beati saranno coloro che crederanno senza vedere -. (…) …c'è chi si incarica di diffondere un cristianesimo, che, al pari delle religioni animiste, trova nelle apparizioni e nei miracoli il fondamento della fede e il sigillo della santità. Non mi pare sia questo il messaggio originario che Cristo ha voluto dare a quanti riponevano e ripongono la loro fede in lui. E ne è prova il fatto che non ha esitato a mostrare a tutti il dolore della sua passione e a pochissimi il miracolo della sua resurrezione, quasi a significare che il suo messaggio non doveva trovare conferma nell'eccezionalità del miracolo, ma nella partecipazione al dolore che affligge la condizione umana. E invece la fede che si appoggia alle apparizioni e ai miracoli che cosa attende da questi due eventi che fuoriescono dall'ordine naturale? A me pare che quanti si nutrono di questa fede attendono la guarigione dalla malattia, il risolvimento istantaneo di problemi che angustiano, la protezione contro la precarietà dell'esistenza, l'auspicio di un futuro felice perché conforme alla proprie aspirazioni e ai propri desideri. In pratica, con i loro pellegrinaggi, con le loro devozioni i fedeli che si affidano ad apparizioni e miracoli, anche se non consapevolmente, vogliono di fatto piegare la volontà di Dio all'esaudimento dei loro più pressanti bisogni e più ardenti desideri. Ma soprattutto vogliono sapere se Dio esiste davvero, altrimenti inutile e vana sarebbe la loro preghiera. E allora che prova migliore c'è dell'esistenza di Dio e della sua attenzione per la condizione umana di quella offerta dalle apparizioni e dai miracoli? Apparizioni e miracoli sottoposti a verifiche scientifiche col piacere di constatare che di fronte a certi fenomeni la scienza è muta. La cosa non mortifica la scienza che, per il solo fatto di essere un sistema ipotetico deduttivo, è ben consapevole dei propri limiti. La cosa mortifica la fede se questa prende quota a partire dai limiti della scienza e non dalla natura del messaggio che, nel caso del cristianesimo non è lì a dirci che il soprannaturale esiste all'unico scopo di esaudire i nostri bisogni e i nostri desideri. Una religione come quella cristiana che, piaccia o non piaccia, ha dato forma e sostanza alla cultura dell'Occidente dovrebbe difendersi da quanti alimentano l'infantilismo della religiosità, perché non è educativo far presa sugli aspetti più primitivi e più ingenui della nostra psiche e consegnare ad essi l'immagine di Dio. Del resto non era proprio Gesù che, in occasione della sua trasfigurazione, proibì ai suoi discepoli di raccontare ad alcuno quello che avevano visto? (Vangelo di Marco, 9,9).”
gennaio 2011
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