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“Gesù non era cristiano”.
Aldo Ettore Quagliozzi
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Cos’è propria di una qualsivoglia religione di questo mondo, seppur fattasi chiesa, la “verità” o la “carità”? La “carità” non può che essere una ed una soltanto, nel senso che, sotto questo cielo immenso ed a tutte le latitudini, essa ha lo scopo primo ed ultimo di umanizzare ogni atto della vita del singolo o della comunità sua di appartenenza, riconoscendo nel prossimo più prossimo suo, nell’immanenza storica, l’incarnazione del profeta o dell’essere che sta alla base di qualsivoglia predicazione. Ben altra cosa è la “verità” che è una costruzione “artefatta”, ovvero fatta ad arte, affinché le proprie proposizioni “catechistiche”, nel più ampio significato possibile, assurgano a verità incontrovertibili ed universali.
Una verità per tutti.
E questo avviene quando una religione diviene una chiesa con interessi enormi e non sempre commendevoli nella contemporaneità, per la qual cosa una religione fagocita o annienta, anche brutalmente, le “verità” altrui, così come è ampiamente riconosciuto nell’ambito di tutte le religioni.
Si chiede – alle pagine 98 e 99 - Gustavo Zagrebelsky nel Suo già citato straordinario lavoro “Contro l’etica della verità” – Laterza editore (2008) € 15,00 -:
“L’etica cristiana è etica della carità o della verità? Per Gesù di Nazareth, non c’è dubbio, la carità predomina. La sua predicazione è l’amore concreto. Non risulta che egli abbia mai parlato dell’umanità, né che, in campo etico, abbia mai fatto uso di verità generali ed astratte. Il suo atteggiamento è tutto compreso nel volgersi ai tormentati da malattie e dolori (Mt 4, 24), nell’indirizzare parole salvifiche concrete (Fanciulla, alzati) alla piccola figlia del capo della Sinagoga (Mc 5, 41; Lc 9, 54). Le sue parabole parlano di tutti gli esseri umani in carne ed ossa, con i quali si è in rapporto; parlano del prossimo (Lc 11, 36-37). Il più grande comandamento è il comandamento della carità concreta, da cui tutta la legge dipende: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente; amerai il prossimo tuo come te stesso (Mt 22, 37; Mc 12, 33). All’adultera che, secondo la legge, avrebbe meritato la morte, Gesù, voltosi intorno e visti i suoi accusatori che, non avendo potuto scagliare per primi la pietra, se ne erano andati via, dice: Neanch’io ti condanno, e aggiunge un’esortazione, non una minaccia: Va’ e non peccare più (Gv 8, 9). (…)”.
È l’etica della “carità” che manca, che è sempre mancata in tutte le predicazioni assolutiste per le quali non è scandalo affermare che la propria “verità” è più “verità” di tutte le altre messe assieme. La storia delle predicazioni sul filo delle lance o delle spade ne è una testimonianza crudele assai.
Sulla “verità” esistenziale dell’uomo di Nazareth ne ha scritto, su “Il Fatto Quotidiano”, Paolo Flores d’Arcais col titolo “Gesù non era cristiano”, che di seguito trascrivo in parte.
“Gesù non era cristiano. Era un ebreo osservante, che mai avrebbe immaginato di dar vita a una nuova religione e meno che mai di fondare una Chiesa. Non si è mai sognato di proclamarsi il Messia, e se qualcuno degli apostoli ha ipotizzato che fosse Cristo, lo ha fulminato di anatema. All’idea di essere considerato addirittura Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, secondo il Credo di Nicea, sarebbe stato preso da indicibile orrore. Gesù era un profeta ebreo itinerante, esorcista e guaritore, che annunciava l’euangelion apocalittico del Regno incombente per intervento divino. Ha predicato quasi esclusivamente in Galilea, per pochi mesi se stiamo ai tre sinottici, al culmine dei quali, recatosi a Gerusalemme, avendo provocato qualche disordine, viene condannato alla crocifissione per sedizione. Storicamente, una figura di minore importanza rispetto a Giovanni che battezzava sulle rive del Giordano, e ad altri predicatori apocalittici del suo tempo. Come ha scritto il maggior biblista cattolico italiano del dopoguerra ‘la vicenda di Gesù, al di fuori di quanti a lui si richiamano, è stata, in realtà, di poca o nessuna rilevanza politica e religiosa: una delle non poche presenze scomode in una regione periferica dell’impero romano, messe prontamente a tacere in modo violento dall’autorità romana del posto con la collaborazione, più o meno decisiva, di capi giudaici’ [Giuseppe Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, Bologna 2002, p.39]. Il Gesù di cui parla Joseph Ratzinger (…) non è invece Gesù, bensì il Cristo dogmatizzato dai Concili di Nicea (325) e Calcedonia (451), dominati e decisi dagli imperatori di Roma, che con il Gesù della storia nulla ha a che fare e anzi contraddice e nega sotto ogni aspetto essenziale. (…). …Joseph Ratzinger pretende di fare anche lo storico, (…). Spiace dirlo, ma per tener fede alla spericolata pretesa di dimostrare la continuità tra Gesù di Galilea e il Cristo di Nicea, il professor Joseph Ratzinger è costretto a prodursi in quelle che sotto il profilo storico sono vere e proprie falsità, talvolta incredibilmente smaccate. (…). Il Papa sostiene che le primissime comunità che si formano intorno alla fede che Gesù sia risorto, malgrado ‘tutte le discussioni difficili su ciò che dei costumi giudaici avrebbe dovuto essere conservato e dichiarato obbligatorio anche per i pagani’ (…), su un punto sono unanimi: ‘con la croce di Cristo l’epoca dei sacrifici era giunto al termine’ (p. 58). La cosa gli sta particolarmente a cuore e vi insiste più volte: ‘tanto più sorprendente è il fatto che su una cosa – come si è detto – ci fosse concordia fin dall’inizio:i sacrifici del tempio – il centro cultuale della Torà – erano superati’ (p. 257). Questa affermazione è incontrovertibilmente falsa. Prendiamo gli Atti degli apostoli 24, 17: ‘ora, dopo molti anni, sono venuto a portare elemosine al mio popolo e per offrire sacrifici’. (…). Chi parla è l’apostolo Paolo, a Cesarea, dove è stato portato prigioniero per essere interrogato personalmente dal governatore Felice. Del resto, non potrebbe che essere così. L’offerta di sacrifici è il cuore della pratica religiosa ebraica, almeno quanto le preghiere. Per questo da tutta la Palestina e anche dalla diaspora – affrontando i rischi di lunghi viaggi – si viene in pellegrinaggio a Gerusalemme: il Tempio è il luogo per eccellenza dei sacrifici. Scannare e bruciare gli animali costituisce il tratto più importante della vita liturgica del Tempio, anche perché il sacrificio è cruciale come offerta di purificazione di peccati e colpe (…). (…). Altrettanto sconcertante il rifiuto di Ratzinger (…) di prendere atto che la prima generazione dei cristiani aspettava il compiersi dei tempi e l’avvento apocalittico del Regno nel corso della sua stessa esistenza. Anche qui la testimonianza di Paolo è di cristallina evidenza. Nella prima lettera ai Tessalonicesi, il testo più antico del Nuovo Testamento (probabilmente del 49) scrive: Noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore (4,15), segue la descrizione di quanto avverrà, voce di arcangelo, squillare della tromba di Dio, il Signore che discende dal cielo, e la sequenza delle risurrezioni e del rapimento comune dei fedeli tra le nuvole. Il vangelo di Marco, che è scritto a distanza di una generazione (circa il 70, quasi certamente subito dopo la distruzione del Tempio ad opera di Tito) tramanda la stessa convinzione già annunciata da Gesù: In verità vi dico, non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute (13,30). (…). Le aspre divisioni che ancora sussistono tra chi vede Gesù come uno zelota rivoluzionario oppure, sul versante opposto, come un semplice maestro di saggezza, e tutta la gamma delle posizioni intermedie che comunque contrastano con il mainstream del Gesù predicatore e guaritore di un incombente fine dei tempi, non mettono mai in discussione, infatti, ciò che è acquisizione comune: Gesù non si proclamò mai Figlio di Dio nel senso della Seconda Persona, non fondò nessuna Chiesa (ne nacquero moltissime, ciascuna con il suo vangelo spesso incompatibile con quelli concorrenti, e la tradizione che per prima scolorì fu proprio quella della comunità originaria di Gerusalemme – che sopravvive forse nella eresia degli ebioniti – il cui capo del resto era il fratello di Gesù, Giacomo, e non Pietro), i racconti delle apparizioni per provare la risurrezione differiscono sotto ogni profilo e sono impossibili da conciliare (Bart D. Ehrman). La risurrezione ovviamente è l’evento capitale. Ratzinger riconosce che ‘nessuno aveva pensato ad un Messia crocefisso. Ora il fatto era lì, e in base a tale fatto occorreva leggere la Scrittura in modo nuovo (p. 273). Ma il fatto è la morte sulla croce. Della risurrezione abbiamo invece solo la testimonianza di come nel tempo (i vangeli sono redatti tra il 70 e il 110) si siano stratificate incompatibili narrazioni su come apostoli e discepoli elaborarono il lutto: si aspettavano il Regno, arriva la morte più infamante, fuggono (nessuno di loro è presente sul Golgota), poi qualcuno (Pietro, carico di sensi di colpa per averlo rinnegato? Una delle donne?) si convince di averlo visto, in un viandante, un giardiniere, o attraverso una apparizione di tipo mistico. E nelle Scritture cercano nuove interpretazioni che prefigurino gli eventi che hanno elaborato . Questo per quanto riguarda la storia. Altra cosa è la fede, ovviamente. (…).”
agosto 2011
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