Quando i registi italiani raccontavano i nostri emigranti
di Flavia Capitani

Avevano la faccia di Nino Manfredi o Alberto Sordi gli immigrati di 30 anni fa. Gli italiani erano costretti ad andare all’estero a cercare lavoro e i grandi registi raccontavano le loro storie di emarginazione. Franco Brusati in “Pane e cioccolata” mostrava la storia di Nino, emigrato in Svizzera con un contratto di tre mesi come cameriere, che viene licenziato, perde il permesso di soggiorno e rischia di essere espulso. E mentre Sordi cercava una moglie nella lontana Australia in “Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata”, Raf Vallone ne “Il cammino della speranza” di Pietro Germi interpretava la parte di un minatore siciliano disoccupato costretto a emigrare in Francia, clandestinamente, pagando un trafficante.

Quando l’Italia è diventata un paese meta di immigrazione, il cinema ha timidamente provato a raccontarne il nuovo volto. Esempi sporadici, storie spesso di marginalità, a volte di denuncia. Nel 1990 Michele Placido in “Pummarò” ripercorreva le vicende di un laureato del Ghana che arriva in Italia per cercare il fratello e attraversando le campagne del Casertano, Roma e Verona, si rende conto delle condizioni in cui vivono molti immigrati. L’incontro con lo straniero passa attraverso la storia d’amore in “Un’altra vita” e “Vesna va veloce” di Carlo Mazzacurati e “Un’anima divisa in due” di Silvio Soldini, mentre Maurizio Zaccaro in “L’articolo 2” nel ’93 mostrava un caso esemplare di incontro – scontro fra due culture: un immigrato algerino che vive a Milano e viene considerato bigamo dalle leggi italiane, mentre è in regola secondo quelle del suo paese d’origine.
Nel 1994 con Gianni Amelio e il suo “Lamerica” il cinema italiano mostra l’origine e l’arrivo dei grandi flussi migratori dei primi anni ’90: vicende umane, singole e collettive, che dai telegiornali passano al grande schermo per far vedere quello che gli italiani non conoscono. Solo qualche anno più tardi il giovane Matteo Garrone sceglieva una prospettiva completamente diversa per trattare gli stessi temi e in “Terra di mezzo” raccontava con toni buffi strane storie di immigrati a Roma. Se il cinema italiano vuole tornare a raccontare la società italiana, deve affrontare storie di vita reale interpretate da attori senegalesi o sudamericani o film in cui quei trentenni che popolano il cinema italiano siano un po’ meno provinciali e un po’ più multietnici. Come nella realtà. (29 aprile 2005 - ore 16.58)
http://www.ilpassaporto.kataweb.it/dettaglio.jsp?id=29700&s=5
|