I jeans a vita bassa delle quindicenni
Gianni Mereghetti - 21-10-2004




Carissimo Marco Lodoli,

quanto le ha detto una sua studentessa è da considerare con grande attenzione, non solo perchè è una delle espressioni del nulla di cui sono vittime molti giovani d’oggi, ma soprattutto perchè è un grido d’aiuto che proprio dal fondo di questo nulla si alza fino a lei.

I jeans a vita bassa non rappresentano, come molti vogliono farci credere, una moda neutrale, una sorta di ribellione senza bandiera, ma, come i capelli lunghi dei giovani degli anni sessanta, esprimono una cultura, quella che la sua studentessa ben identifica. Nella vita si realizza solo chi ha successo, per gli altri, cioè per il novantanove per cento dei giovani, l’unica prospettiva è la possibilità di comprarsi un paio di mutande di Dolce e Gabbana! Questo è il trionfo del nulla, che la vita sia ridotta al puro apparire, e a chi il caso non riserva la possibilità di farlo in televisione o in un concerto o allo stadio non resta altro che tentare la sorte con un paio di jeans a vita bassa!

Se i nostri studenti, ancor prima i nostri figli, stanno lentamente precipitando nel nulla – e di questo noi siamo responsabili, di questo noi dobbiamo chiedere loro perdono – mi pare allora decisivo per lei, per me capire come sia possibile aiutarli.

Mi permetto allora farle presente che per aiutare una persona, qualsiasi persona, sia giovane sia adulto, è fondamentale capire la domanda che pone, anche se non pienamente consapevole.

E forse lei è proprio la domanda della sua studentessa che non ha colto nella sua profondità, o ancor di più - ma è probabile che mi sbagli - non ha avvertito che dentro la sua determinazione nell’affermare una vita senza prospettive in realtà si nascondeva una domanda a lei, un disperato grido d’aiuto.

La sua studentessa non mi pare abbia il problema della cultura di massa, tanto meno desideri essere diversa dagli altri. Vuole comprarsi “un paio di mutande di Dolce e Gabbana con quei nomi stampati sull'elastico che deve occhieggiare bene in vista fuori dai pantaloni a vita bassa”, perchè non ha altre possibilità che qualcuno la guardi, visto che non può andare in televisione dove tutti la guarderebbero.

La sua studentessa non ha opposto alla sua cultura la filosofia del nulla, ma le ha posto una domanda, l’ha implorata di offrirle uno sguardo di simpatia totale, a lei come persona con un destino di felicità impresso nel DNA. A questa domanda lei ha risposto con una giusta analisi di stampo pasoliniano, quella che vede l’incombenza dell’omologazione, e con un’incitazione a diversificarsi dalla massa. Qui, mi permetta, lei l’ha tradita, perchè al posto di mettere in campo la sua umanità ha risposto con un’analisi, che, quand’anche fosse giusta, non tocca minimamente l’esigenza che la sua studentessa, come ogni ragazza che si compra un paio di jeans a vita bassa, porta dentro il cuore. E’ l’esigenza di Cesare Pavese, quella di uno sguardo di simpatia totale, uno sguardo che tolga l’uomo dal nulla e gli restituisca l’amore al suo “io”.

Su questo io e lei dovremmo interrogarci. I suoi studenti, i miei studenti è questo che domandano e si ficcano più profondamente nel nulla se al posto di trovare il nostro sussulto umano trovano quattro indicazioni di buona condotta o il richiamo moralistico ad avere una personalità. Ma come può un giovane d’oggi avere una personalità se non ha mai incontrato degli uomini appassionati alla vita?

Per questo la sua studentessa ha sfidato lei, me sulla vita. Ci ha chiesto se abbiamo da offrirle qualcosa di più interessante di un paio di mutande di Dolce e Gabbana.

Lei è indietreggiato, lei che è più intelligente, più sensibile, più capace di insegnare di me. Io non indietreggio, accetto la sfida, perchè nella mia povertà, nel mio limite, nel mio fallimento, qualcosa da offrire alla sua studentessa, a chiunque incontri, ce l’ho, è l’esperienza di uno sguardo di simpatia totale a me, quello di Cristo. Uno sguardo per il quale la vita diventa tutta appassionante, in ogni suo aspetto, in quanto segnata da una positività reale che la realizza. E questo è così vero che si può andare a comprarsi un paio di mutande di Dolce e Gabbana senza che questo gesto diventi l’ultima spiaggia di una sconfitta!


interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf

 Redazione    - 21-10-2004
Mario Lodoli ha toccato un tasto scoperto aprendo un dibattito serrato nel paese. Segnaliamo per completezza di informazione l'articolo di Laura Laurenzi su Repubblica del 20 ottobre.

 Anna Di Gennaro Melchiori    - 21-10-2004
Pur condividendo le argomentazioni di Mereghetti, sono tuttavia convinta che l'acuto Lodoli abbia messo il dito nella piaga della questione del "costume" e del naturale desiderio di emulazione degli adolescenti di sempre. L'altro ieri il prof. Pietropolli Sharmet illustrava con la solita lucidità l'obiettivo dei giovani circa il ricorso al piecing "Fare parte di un gruppo, esserci, legittimare la propria incompletezza, il proprio comportamento nel gruppo. Finalmente mi sento diverso da me stesso prima".
Che avesse ragione Umberto Galimberti quando affemò: "Professori senza più fascino, via da quelle cattedre!?". Interrogarsi ogni giorno, magari con un pizzico di autoironia, può sicuramente giovare alla scuola di tutti.

 Anna Di Gennaro Melchiori    - 21-10-2004
Volentieri invio la simpatica "storiella" del dr. Lodolo D'Oria proprio sull'argomento.

Ombelichi a confronto

Come ogni anno un gruppo di adolescenti s’incontra al mare durante le vacanze estive ed i rispettivi ombelichi cominciano a discorrere tra di loro.
Belly – che era sempre in forma e abitava sulla pancia piatta di una vera leader – disse: “Inizio ad averne le scatole piene di prendere un po’ d’aria solo d’estate; è ora che facciamo qualcosa!”.
Tatù – che non perdeva un’occasione per fare da spalla a Belly ed esibiva un tatuaggio a forma di stella – replicò: “Sante parole. Potremmo stare a pancia all’aria anche gli altri mesi dell’anno”.
Il dibattito si animò e Vergy – così timida da celarsi anche d’estate sotto un costume intero, a causa delle forme piuttosto abbondanti della sua padrona – suggerì timidamente: “Ne siete proprio sicure? In fondo non tutti gli ombelichi potrebbero sentirsi a proprio agio”.
“Sei la solita vergognosa” - l’apostrofò Piercy che esibiva con tracotanza un orecchino – “Mi pare un’ottima idea quella di Belly. E poi che male facciamo se respiriamo un po’ d’aria fresca anche in montagna?”.
La stessa Insy – che solitamente non parlava, ma era attenta a copiare le sue amiche in tutto pur di farsi accettare – si dichiarò a favore dell’iniziativa annuendo col capo e pensando che avrebbe potuto mostrare tatuaggio e piercing, che l’adornavano, anche alle amiche di città.
Visto il successo riscosso con la sua proposta, Belly rincarò la dose: “Ma non avete visto che anche i fondoschiena stanno alzando la cresta? Con i calzoni a vita bassa persino loro osano mettere il naso fuori dai pantaloni. Perché proprio noi dovremmo stare qui rintanati?”.
“E’ vero – disse Tatù – se quegli sfacciati dei sederi, col loro sporco lavoro, osano scoprirsi, io faccio la rivoluzione”.
“Mi fa accapponare la pelle il solo pensiero – soggiunse Piercy sogghignando – se quegli zozzoni si dessero delle arie non ci resterebbe che turarci il naso”.
“Battute a parte – disse Sapy, la più saggia della compagnia che era rimasta fino a quel momento in silenzio – io sto bene così. Per nove mesi siamo state il centro della vita. Attraverso di noi passava tutto il nutrimento: era davvero gratificante, ma erano tanti anche i sacrifici. Dovevamo stare attaccate alla nostra mamma e potevamo fare solo movimenti limitati. Inoltre – proseguì Sapy - non potevamo vedere il mondo d’estate e nemmeno cambiare colore con l’esposizione al sole. Certo, non posso gustare la neve d’inverno, ma in fondo mi ritrovo al calduccio”.
“Sei la solita guastafeste – intervenne Tatù – mai una volta che tu esca dagli schemi!”.
“Al contrario – replicò Sapy – ho imparato che troppo spesso diamo per scontati i lati positivi delle cose e, di conseguenza, non li apprezziamo, finendo col ricercare affannosamente soddisfazione dove non ce n’è. Da qui lo scontento che alimenta quella voglia di trasgredire che, seppure fisiologica, quando assecondata, ci lascia l’amaro in bocca”.
“Come sei noiosa – disse sprezzante Tatù – mi sembra di sentire le prediche di mio padre”.
“Quindi secondo te – chiese Belly - dovremmo vivere per sempre in questo modo meschino”?
“Godi di ciò che sei stato e di ciò che hai – ribatté Sapy – ti sei mai chiesta perché la vita, dove le persone indossano la cintura, ha questo nome? Solo ed esclusivamente perché ci siamo noi ombelichi che provvediamo al nutrimento per tutti i nove mesi di gestazione”.
“Ora il nostro compito è finito e ci godiamo il giusto riposo, qui, al centro del corpo, sotto forma di cicatrice, per ricordare ai nostri proprietari che hanno una mamma verso la quale nutrire riconoscenza”. “Dobbiamo essere umili poi – proseguì Sapy - anche perché siamo un buco nel mezzo del nostro corpo; null’altro che un vuoto da riempire. E quindi se siamo un vuoto, potrei addirittura affermare che neppure esistiamo”.
“Tu sei pazza –disse Piercy– noi esistiamo eccome, altrimenti dove sarebbe appeso il mio piercing?
“Hai perfettamente ragione Piercy – replicò Sapy – noi siamo qui apposta per ricordare a ciascuno che al centro dell’uomo ci sono un vuoto ed una cicatrice, lasciati dalle vicissitudini della vita. L’amore riempirà il vuoto e guarirà le ferite. Il mio vuoto ad esempio – concluse l’ombelico saggio - è riempito dalla vostra compagnia con la simpatia di Belly, la timidezza di Vergy, la creatività di Tatù, dai dubbi di Insy e infine dalla tua esuberanza, adorabile Piercy”.

 Lorenzo Caputo    - 23-10-2004
Senza nulla togliere alla simpatica storiella che la Sig.ra o Proff.sa Anna Di Gennaro Melchiori ha inviato, mi sento di dire che non c'è risposta al Mereghetti!
Qualche anno fa c'era un libro di Fromm che in molti hanno letto: "Essere o avere", l'impressione è che siamo rimasti all'essere, cioè all'apparire, quanto poi all'essere qualcuno l'analisi di Mereghetti centra in pieno la situazione.
Infine mi sento anch'io coinvolto in questa ricerca della risposta della giovane 15nne studentessa che parla da Roma (per caso) ma potrebbe, anzi è in qualunque scuola Italiana.
Grazie a tutti per le Vostre riflessioni

 Federico Spanò    - 24-10-2004
Molto interessante il commento di Mereghetti, come pure l'analisi di Lodolo D'Oria.
Pur non condividendo in nulla la posizione "religiosa" di Mereghetti, non posso che trovare una conferma della sua teoria nell'abitudine che ha una delle mie più fiere e irriducibili "vitabassiste" - qui si parla di terza media - di avanzare una pretesa, quasi ogni volta che entro nella sua classe: "Professore, mi vuole bene?". Raccontata così sembra una fissazione, in realtà è solo un modo, improntato a quell'incredibile miscuglio di goffaggine e di autoironia tipico di alcuni tredicenni, per richiamarmi al mio dovere. Non c'è, non ci dovrebbe essere, altro motivo per fare questo mestiere che non sia l'intenzione di fare il loro bene.
Tornando all'ombelico, c'e' voluto Mereghetti per farmici arrivare, ma in fondo il discorso è veramente semplice: se si mette in atto un tentativo di seduzione, moda o non moda, dietro c'è un bisogno di affetto. E la "nullità" di cui soffre l'alunna di Lodoli non è che la nullità di chi non si sente amato. Il quale finisce sempre per ribellarsi, non avendo a disposizione un miglior uso delle proprie energie positive.

 Pierangelo Indolfi    - 24-10-2004
Segnalo da Repubblica di oggi:

Le lenti spezzate negli occhiali dei cinquantenni

di ILVO DIAMANTI

Intrigano molto, i giovani più giovani. I "ragazzi" fra i 15 e i 20 anni, che, perlopiù, frequentano le superiori. Sollecitano la curiosità dei media e degli osservatori, più dei loro fratelli maggiori. (Si fa per dire: perché in larga misura sono "figli unici"). E sono guardati con un atteggiamento misto, di attrazione e disagio. Colpiscono, in particolare, per gli atteggiamenti pubblici. Il look, gli stili di vita. Le ragazze con i pantaloni a vita bassa; mutande, pancia e ombelico in evidenza. Ragazzi e ragazze. Tatuati e, spesso, perforati, con borchie e orecchini, applicati nei punti del corpo più svariati. Tutti, con i telefonini a portata di mano. Quasi una protesi. Che li accompagna in ogni luogo. Anche a scuola. Tanto non li vedi e non li senti. Non suonano, i cellulari. Vibrano, si illuminano. Segnalano l´sms in arrivo. E loro, i ragazzi, non hanno bisogno neppure di guardare, per rispondere. Diteggiano a memoria. Il cellulare sotto il tavolo. Oppure in tasca.
Attirano e al tempo stesso inquietano, questi ragazzi. Taluni dei quali, per sopravvivere all´anonimato, non hanno di meglio che indossare pantaloni a vita vertiginosamente bassa, per esibire meglio le mutande griffate. Come ha osservato Marco Lodoli, in un bell´articolo, pubblicato su Repubblica, una settimana fa. Ragazzi soli, anche quando sono insieme agli altri. Educati al mito dell´identità visibile e vistosa, per quanto fatua. Ben espressa dallo spettacolo televisivo, affollato di veline, grandiepiccolifratelli, amicidimariadefilippi e altre comparse in cerca di un minuto di successo. E per questo rassegnati, quando - i più, quasi tutti - percepiscono l´impossibilità di apparire, di avere il loro istante di visibilità.
Eppure, questa rappresentazione - diffusa - contrasta con altre, raccolte e riprodotte negli ultimi anni. Negli ultimi mesi. I giovani più giovani, gli studenti. I media, gli studiosi, li hanno analizzati e narrati come artefici di una nuova stagione di movimento e di protesta. Impegnati in politica. Mobilitati sui temi della pace e del diritto allo studio. Otto su dieci, nell´ultimo anno, hanno manifestato su questi argomenti. E poi, coinvolti nel volontariato. Nelle parrocchie e nei centri sociali. Così li hanno descritti le nostre indagini sociologiche e le inchieste sui media. In questi ultimi anni. In questi ultimi mesi. Con l´esito di proporre un´immagine dissociata. Quasi che nella stessa generazione coesistessero due diverse etnie, con due diversi profili, due diversi caratteri, distinti e distanti. Quelli (e quelle) dei jeans con la vita bassa e quelli della bandiera arcobaleno; gli amicidimariadefilippi e i nemicidellaguerra; gli involontari e i volontari; i rassegnati e gli impegnati. Il che, in qualche misura, è vero. In ogni società coabitano tipi diversi, per condizione, interessi e atteggiamenti. Ma c´è motivo di sospettare che, in realtà, questi diversi profili coesistano, spesso, nelle stesse persone. Che, cioè, tutti questi ragazzi, tutti questi studenti, in diversa misura, guardino i grandifratelli e marcino contro la guerra. Senza sentire, senza provare, per questo, contraddizione. E che tutti questi ragazzi (o comunque, gran parte di essi) portino i pantaloni a vita bassa, senza sentirsi troppo rassegnati, impotenti e soli.
La dissociazione, il dualismo delle rappresentazioni e delle, implicite, valutazioni riguardo a questi ragazzi, invece, riflettono i problemi di chi li osserva, li studia e li racconta. I quali sono, in larga misura, i "loro" professori. E i "loro" genitori. La generazione di coloro che oggi hanno 15-20 anni. Sono i figli di coloro che hanno attorno a cinquant´anni. (Ormai da tempo la nascita del primo figlio avviene quando i genitori hanno più di trent´anni). I cinquantenni. La generazione nata attorno al 1950. Dopo la guerra. La cui socializzazione è avvenuta quando esistevano ideologie forti, muri alti e confini chiari. In tempi di riferimenti culturali e di valori certi e condivisi. La generazione che ha vissuto la ricostruzione, la scolarizzazione (e la cultura) di massa. Che, negli Anni 60, ha interpretato la stagione della contestazione, da protagonista, mettendo in discussione le certezze e i riferimenti, in base a cui era stata educata. In mezzo a cui era cresciuta. Oggi, trent´anni dopo (e oltre), quella generazione continua ad apparire specifica. Per professione, valori, orientamenti. Per professione: è fatta di insegnanti, impiegati e dirigenti "pubblici", più di ogni altra. Per valori e orientamenti. Coltiva un´idea del lavoro centrata sul posto fisso, continua a preferire lo Stato al mercato, come baricentro della vita sociale. E´ indirizzata a sinistra. Si riconosce nelle grandi organizzazioni sociali e professionali (come il sindacato). Quando si analizzano i dati di un sondaggio, in base all´età, questo segmento sociale emerge sempre, distinto dagli altri. Solo che, nel corso degli anni, si è progressivamente "spostato in avanti". È invecchiato. Negli anni Settanta si pensava che costituisse il segno di una trasformazione progressiva della società. Che i suoi caratteri si sarebbero diffusi ed estesi alle generazioni seguenti. Dieci anni dopo ci si è accorti, invece, che erano i figli di un´epoca delimitata. Una "generazione", appunto. La prima generazione più "istruita" dei genitori. La generazione della cultura e dei consumi di massa. Della svolta antiautoritaria, nei valori e nei rapporti sociali. Una generazione che, nel corso della vita, ha assistito al realizzarsi di molti degli obiettivi per cui si era battuta in gioventù. I muri sono caduti, i diritti di cittadinanza si sono affermati ed estesi, mentre si sono imposti modelli culturali e morali più aperti. I partiti tradizionali si sono dissolti. Le antiche ideologie hanno perso forza. Tuttavia, i (vecchi) giovani del ´68, quelli che si autodefiniscono la "meglio gioventù", hanno scoperto in fretta che non rappresentavano l´avanguardia del cambiamento; ma un´onda anomala. Dopo di loro, il mare è tornato calmo. Le generazioni seguenti hanno imboccato il percorso aperto, con realismo e moderazione. Hanno coltivato il mito del mercato e dell´individuo, si sono ripiegate politicamente al centro o a destra, hanno smesso di protestare. Così, oggi, i cinquantenni, diventati professori, giornalisti, imprenditori, leader di partito e manager, dalle loro posizioni di privilegio, vivono un po´ da "stranieri". Quasi non si riconoscessero nel mondo che li circonda. Essi stessi, d´altronde, partecipano alla "revisione" del mondo che hanno contribuito a costruire. Come Tony Blair, che, di recente, ha criticato il relativismo culturale, il declino del principio d´autorità, il clima di insofferenza alle regole del sistema, eredità degli anni Sessanta. E della generazione a cui egli stesso appartiene. Altri, della stessa generazione, con la stessa biografia (caso esemplare: Il Foglio), in Italia hanno riaperto il dibattito sui temi dell´etica, della morale, della famiglia, della religione. Della storia repubblicana. Promuovendo una contro-riforma di ciò che trent´anni prima avevano riformato.
I cinquantenni. Guardano con un misto di speranza e di timore la nuova generazione. Gli adolescenti. Meglio, i post-adolescenti. Cresciuti "dopo" (post) la caduta del muro e dei partiti di massa, "dopo" che la guerra è riapparsa sulla scena mondiale (insieme al terrorismo), "dopo" che il mito del mercato ha cominciato a scricchiolare, "dopo" che il lavoro fisso è diventato un reperto archeologico.
I cinquantenni. Guardano questi ragazzi, i loro figli e studenti. E, attraverso loro, rivedono se stessi. Dopo trent´anni: la voglia di cambiare, di marciare. La protesta. E rivedono le vecchie bandiere. Rosse. Insieme ad altre, arcobaleno. Con le antiche icone. La faccia del Che. Si sentono perfino, nell´aria, le note di Bob Dylan, Fabrizio De André e degli Inti Illimani. Li vedono manifestare e, anch´essi, sfilano accanto a loro.
Ma, al tempo stesso, provano disagio. Faticano a capire. Perché accanto al poster del Che, i loro figli, appendono quello delle veline. Mentre ascoltano i 99 Posse, guardano il Grande Fratello. Perché praticano, "normalmente", modelli etici e comportamenti che per i genitori erano "trasgressivi". Perché, talora, alle manifestazioni, indossano la kefiah e i jeans a vita bassa. Insieme.
I cinquantenni. Guardano i loro figli e i loro studenti. E provano disagio. Li trovano (e definiscono) soli, contraddittori, disorientati. Ma, in realtà, sono loro (siamo noi?) soli, contraddittori, disorientati. Perché non "capiscono". Per motivi di linguaggio. Continuano a usare i cellulari per telefonare. I loro figli li usano per comunicare. Per restare in contatto. In rete. I cinquantenni. Si immaginano - ancora e sempre - la "meglio gioventù". Mentre la "gioventù" dei giorni nostri, ai loro occhi, appare, nella migliore delle ipotesi, dissociata. Dovrebbero, forse, incolpare le lenti spezzate dei loro occhiali.

 Vanessa e Giorgia    - 25-10-2004
Per colpa di questo articolo noi della 4B ci dobbiamo subire 4 ore di compito interminabili e con domande sull'argomento prive di ogni logica per noi . Solo la nostra Prof. può comprendere e analizzare questo testo e rapportarlo alla cultura della società settecentesca. Concludo dicendo che se prendo 4 non leggerò mai più i vostri articoli sulle vostre adolescenti frustrate.... discreti saluti.

 Emanuela    - 25-10-2004
Invece qualunque voto tu prenda, potresti farci leggere quello che hai scritto. Sarebbe ora che il mondo adulto ascoltasse in diretta e senza filtri la voce dei ragazzi di cui dice di preoccuparsi. Che razza di scuola è quella in cui funziona una sola cassa? Comunque in bocca al lupo e grazie!

 Aldo Quagliozzi    - 03-11-2004
Definisce la Grande Enciclopedia De Agostini alla voce ‘ vita ‘, in una delle sue tante accezioni senza aggettivazione alcuna : ‘ La parte incavata del corpo umano che sta tra i fianchi e le prime costole ‘.
Di ben altra vita si vorrebbe discutere in questa nota, dopo che Marco Lodoli, con involontario maldestro gesto, ha sollevato il coperchio di un immaginario vaso dal quale fuoriesce abbondantemente il fetore di una ‘ vita bassa ‘ che contraddistinguerebbe tanti ragazzi in età pre/adolescenziale.
E’ pur vero che dopo il maldestro scoperchiamento tutti si sono dati un gan da fare per richiudere il vaso stesso, rimandando il tutto ad una prossima, inutile, sconclusionata pubblica discussione, quando la cronaca, magari, ci avrà abbondantemente informato di intemperanze giovanili o peggio ancora di tragedie consumate nell’ambito di una scuola, di una casa o per la pubblica via.
E’ noioso e poco gratificante al giorno d’oggi per i tanti porsi problemi di tale natura, ma i pre/adolescenti sono stati pronti a cogliere il clima mutato all’interno della società italiana; un nuovo clima che necessariamente ha dovuto adeguarsi alle mutate condizioni economiche del bel paese, dettate soprattutto dagli interessi irrefrenabili dei nuovi potentati economico-fiananziari, concentrati nelle imprese delle comunicazioni e dell’intrattenimento, con tutto il corollario di interessi vari, dalla moda alla pubblicistica alle diete dimagranti, che ruotano attorno alle predette imprese.
Non potevano i pre/adolescenti sfuggire al contesto nuovo fatto di delegittimazione delle autorità, di irrisione e facile trasgressione delle regole generali e basilari del vivere sociale, di svilimento della funzione educativa e formativa della scuola pubblica e di tutte le istituzioni culturali in genere; l’accoglimento poi dei modelli mediatici più vuoti ed insulsi fatto prima che dai pre/adolescnti dai loro genitori, che in fatto di criticità verso i modelli proposti sono stati nei decenni ultimi molto passivi se non decisamente accondiscendenti, ha reso possibile quella chiusura del cerchio fatta di bassa, anzi bassissima, accettazione del ‘ livello del vivere ‘ da parte di tantissimi delle giovani generazioni.
Per chi ha trascorso tanti e tanti lustri all’interno del mondo della scuola ravvisandone dall’interno i sommovimenti non tanto sulle giovani generazioni quanto sugli adulti loro genitori, il disvelamento fatto da Marco Lodoli sembra quasi tardivo e poco allarmante, allorquando il degrado e la ‘ vita bassa ‘ si impone oramai dirompente come nuovo ‘ stile di vita ‘.
Capitava in quegli anni scolastici, or sono due stagioni che ne sono al di fuori, verificare negli incontri inutili e consueti Scuola-famiglie come le giovani madri fossero di già abbigliate a ‘ vita bassa ‘ abbondantemente, come anche negli ambienti scolastici abbastanza degradati e pochissimo illuminati adorassero ornare le proprie capigliature con occhiali da sole destinati ad altre necessità; ma tant’è, l’immagine reiterata dal piccolo schermo fà sì che un oggetto, gli occhiali per l’appunto, abbiano assunto una funzionalità del tutto diversa da quella per la quale essi sono stati pensati, progettati e prodotti.
E che dire poi di quel continuo loro ruminare nel corso degli incontri con gli insegnanti, con i quali non veniva di proposito ricercata, da parte delle giovani coppie di genitori, la strategia migliore per le problematiche scolastiche o giovanili dei ragazzi, ma si pretendeva di imporre loro strategie educative alternative e di dubbia fruibilità e utilità, creando fratture spesso insanabili tra le due principali agenzie educative nella vita di un pre/adolescente, la famiglia e la scuola.
E se oggi si parla con un certo ritardo di una ‘ vita bassa ‘ da parte delle generazioni pre/adolescenziali, lo sguardo andrebbe spostato ed allargato ad un orizzonte che comprenda a pieno la famiglia ed il suo ruolo oramai svuotato di ogni autorità e credibilità.
E’ dalla scuola, come primaria struttura pubblica, che bisogna ripartire, ché il discorso riguardo alle famiglie è di una tale complessità da richiedere altri interventi ed altre professionalità e competenze.
E che dire allora di tutte quelle innovazioni che negli ultimi decenni hanno investito, come un dirompente ciclone, il mondo delle aule? Innovazioni che spesso hanno assunto esclusivamente un carattere ed un sapore propagandistico e di falso e fuorviante egualitarismo, con le ricadute che caratterizzano il mondo della scuola ai giorni nostri.
Una o più operazioni ‘ classiste ‘ degli ultimi decenni hanno di fatto svuotato la scuola della sua funzione pienamente formativa, almeno per le categorie sociali meno attrezzate e meno fortunate, ché invece per le classi ed i ceti alti ben altri sono stati i percorsi e le opportunità formative loro procacciate e di certo i mposte dalle fortune familiari.
Traggo da una lettura molto divertente e vivamente consigliata agli educatori, ‘ La gallina volante ‘ di Paolo Mastrocola, insegnante di lettere in un liceo pubblico di Torino, un passo su cui opportunamente meditare:

“ ( … ) Che dico? Non c’è più ‘ promossi o bocciati ‘. ( … ). Solo e sempre ‘ promossi ‘, un 6 con asterisco, così: 6*, cioè un asterisco vicino al 6, che ti guarda benevolo e a mo’ di occhiolino strizzato ti dice: guarda che non sono un vero 6, cioè sono un 6 ma in realtà sarei un 5 o un 4, però mi han fatto diventare 6, sono proprio scritto come 6 e quindi non ti preoccupare, non ti succede niente, va’pure a casa tranquillo a mangiare la pastasciutta, vedrai che i tuoi te l’hanno fatta la pastasciutta buona, quella col sugo speciale con le olive, e vedrai che ti comprano anche il motorino perché insufficienze ‘ vere ‘ non ne hai, cioè sì, perché io in realtà sono un 4, ma vuol dire solo che poi ricevi una lettera in cui ti si chiede di studiare un po’, se vuoi beninteso!, che se non studi non importa, a settembre ti diciamo solo che avevi un debito e che il tuo debito non l’hai colmato, cioè sulla tua scheda sarà scritto: ‘ debito non colmato ‘ e basta.
Cosa succede? Niente, cosa vuoi che succeda! E’ solo una frase, come altre. Ma adesso và a casa, che la pasta scuoce. ( … ) “

Scuola e famiglia allora, all’origine della ‘ vita bassa ‘ dei tanti delle giovani generazioni. La famiglia quindi, o le tante famiglie, erogatrici solo ed esclusivamente di soddisfazioni e gratificazioni materiali.
Ne ha ben scritto, dall’alto della sua riconosciuta competenza, Umberto Galimberti in un suo articolo comparso di recente su di un supplemento del quotidiano ‘ la Repubblica ‘. Scrive per l’appunto Umberto Galimberti:

“ Vent’anni di televisione commerciale, per la quale la felicità sembra sia la soddisfazione immediata di un desiderio, di solito alimentare o oggettistico, hanno infantilizzato gli adulti, rendendoli ridicoli agli occhi dei loro figli che più non vedono intorno a loro saggezza e padronanza di sé.
Infatti, invece di aiutare i ragazzi a diventare uomini, gli adulti si abbassano a comportamenti infantili, nel tentativo vano di risultare simpatici ai loro figli che invece li considerano patetici.
Gioco e serietà si confondono continuamente e l’atteggiamento ludico di fronte alla vita diventa per molti adulti la condizione permanente.
Se gli adulti abdicano alla loro serietà, costringendo gli adolescenti a diventare prematuramente adulti, i nostri ragazzi, non avendo più modelli per come si deve crescere, si attaccano alle idee trasformandole in rigide ideologie, alla morale per bloccarla nel moralismo, alle diete per darsi una regola, oppure, senza orientamento, si abbandonano alla depressione o al disfattismo.
Quando non è più la biologia a marcare il confine, ma lo stile di vita, di abbigliamento, di linguaggio, nascono quelle figure ibride che sono gli adolescenti prematuramente invecchiati, e gli adulti in quella perenne adolescenza che genera quel disgusto che, prima di essere morale, è estetico.
Ma qualcuno se ne accorge? Se tutto è gioco perché non giocare con le parole e chiamare ‘ umanitaria ‘ la guerra, ‘ missione di pace ‘ un’occupazione di territori, ‘ trasferimento di popolazione ‘ una deportazione ?
( … ) La maturità non esiste più. C’è solo infanzia e vecchiaia. La prima vissuta con rimpianto, la seconda con terrore.
Che sia questo uno dei sintomi del declino della nostra civiltà? Penso di sì. Perché come si fa a sperare nel futuro di una cultura che, al rispetto delle persone, della loro età, della loro biografia, ha sostituito la religione delle cose, i cui riti sono quotidianamente celebrati dalla televisione?
E non è forse in questa trasformazione antropologica, all’insegna del gioco, dell’ilarità, dell’infantilismo scambiato per ottimismo, il lato più nefasto del berlusconismo, ultimo cascame dell’americanismo? “


 Enrico    - 10-11-2004
Salve, mi chiamo Enrico e ho 19 anni. ho passato la mia infanzia in Africa. Sono arrivato in italia ed ho cominciato la prima media, ora sto frequentando il primo anno di università.

Quando sono arrivato mi sono trovato in un mondo diverso da quello che conoscevo, e questo allora mi pesava moltissimo, ma dopo qualche anno capii che era stata una grande fortuna la mia, perchè mi ha permesso di vedere le cose in maniera distaccata, di chiedermi se il comportamento dei compagni era giusto o sbagliato, utile o inutile. Tutta la mia vita era una continua domanda. "ma perchè loro fanno così?" essi imitavano comportamenti della televisione, erano davvero senza identità.
Addirittura mi prendevo gioco delle loro superstizioni e dei loro pregiudizi, mi comportavo in modo strano per ridere delle loro facce e dei loro commentini.
Io ero cresciuto da bianco in mezzo a persone di colore, ero già abituato ad essere diverso, ed ero di nuovo diverso, nonostante lo stesso colore della pelle.

Alcuni adulti mi dicevano che ero maturo, ma ora, dopo anni, posso dire che quella ragazzina ha ragione quando ribatte quelle parole.

Non guardo mai la televisione, perchè mi delude moltissimo, ma ho capito di essere unico e di essere importante quando lo sono diventato per qualcuno, per qualcuno che mi voleva bene e che mi ascoltava, che accoglieva la mia diversità e la valorizzava, che la discuteva con me, qualcuno che mi chiedeva perchè agissi in un certo modo o in un altro, qualcuno che mi raccontava della sua vita sinceramente, degli errori commessi in gioventù e delle grandi domande della vita, qualcuno con cui apprezzare le stelle la sera o una montagna da scalare, qualcuno che mi accompagni nella vita e nei miei successi così come gli insuccessi o nelle fatiche, qualcuno, insomma, che mi voleva bene davvero, ed era disposto a rischiare il suo tempo per dedicarmene.

Generalmente il mondo è fatto di giovani che pare facciano a gara per non pensare e non farsi domande, studiare ciò che gli viene presentato senza chiedersi nulla di niente e di nessuno.
E di adulti, che sono gli stessi giovani di un tempo. ma con una differenza, loro hanno studiato, loro hanno vissuto esperienze, perciò ne sanno una in più di te e tu non vali nulla.

E' inutile che mi dici che la mia vita vale se non sei disposto a dimostrarmelo con fatti concreti.
Ma questo, si sa, è troppo difficile. Meglio discuterne sui giornali. Meglio scandalizzarsi e cercare risposte tra le pagine di vecchi libri o nelle filosofie orientali.

Ma guardiamo in faccia la realtà, parliamoci chiaro, chi sono io, se non ci fosse qualcun altro disposto a dirmi la verità? E questo qualcun'altro come potrebbe dirmi la verità se nessuno l'ha mai detta a lui?
Forse queste cose che scrivo rimarranno qui e non cambierà niente, ma spero che qualcuno non sia già "troppo grande" per capire un giovane, o che qualcuno non sia "troppo giovane" per farsi una domanda: chi sei?

Qualcuno potrebbe pensare che questa è una domanda adolescenziale, inutile, superata, nata da un emozione momentanea e nient'altro. invece io credo che questa domanda e altre simili mi rendano veramente uomo.

E per me le risposte ci sono. Ma non ci sarebbero se non avessi incontrato qualcuno. Non sono tenuto a dire chi. C'è la mia mail. Arrivederci.

 Stefano De Guidi    - 24-11-2004
Sono uno studente all'ultimo anno di Liceo e in un compito in classe di Italiano ci è stato chiesto di commentare l'articolo di Ilvo Diamanti.

Questo è quello che ho scritto, ho deciso di pubblicarlo dopo aver letto la richiesta di Emanuela

"Invece qualunque voto tu prenda, potresti farci leggere quello che hai scritto. Sarebbe ora che il mondo adulto ascoltasse in diretta e senza filtri la voce dei ragazzi di cui dice di preoccuparsi. Che razza di scuola è quella in cui funziona una sola cassa?"

Non sono un grande scrittore quindi cercate di guardare più all'idea che alla forma (che poi è quel ci interessa)



E' vero c'è disagio negli sguardi degli adulti, lo si vede, lo si sente, è tangibile, loro ci guardano e vedono una gioventù bruciata senza valori, senza ideologie, rassegnata, che non si impegna che non combatte.
Per cosa dovrebbe combattere? proprio per quelle ideologie che trent'anni fa erano tanto forti, per quei diritti che, se rispettati e garantiti, inevitabilmente renderebbero la vita sociale migliore, più umana.
Ma allora perchè non combattono? Gli adulti non se lo sanno spiegare ed è questa l'origine del loro disagio, del loro timore e quindi si chiedono: quale sarà il futuro di questi giovani?
E anche qui non sanno rispondere perchè siamo noi giovani a lasciarli ammutoliti, perchè ci vedono vivere felici e sorridenti in quel mondo contro cui loro combattevano. Guardano con sdegno i jeans a vita bassa, ma che razza di modo è di vestirsi? niente di più strano o stravagante delle minigonne del 68.
Ma il punto non è questo, i pantaloni a vita bassa sono il simbolo dell'omologazione, per rientrare e stare a galla tra la massa devi scoprire reni e ombelico.
Io, diciottenne, rido di gusto davanti a questo, non rido dell'idea generale per cui i pantaloni a vita bassa simboleggiano l'omologazione, ma rido di loro, dei miei coetanei "omologati".
Il motivo è semplice, e probabilmente farà piacere agli adulti saperlo, i pantaloni a vita bassa nascono grazie a quei giovani che manifestano convinti contro la guerra, quei ragazzi che fanno della musica lo strumento della loro lotta sociale.
Si perchè tra loro era ed è in uso indossare pantaloni larghi o stracciati che inevitabilmente calano in vita, non come simbolo di massa, ma come ricordo o meglio come tributo verso i ragazzi dei ghetti americani (e si anche europei), che di fratello in fratello si passavano gli indumenti, non avendo i genitori i soldi per comprarne di propri ad ogni figlio.
Sono quindi, prima che simbolo di omologazione, l'emblema della sofferenza, della lotta, della fratellanza.
Poi qualche geniale stilista dell'alta moda ha colto nel segno divulgando il pantalone che cala in vita tra quei ragazzi vittime di questi adulti, che di cosa pensiamo non gliene importa proprio nulla.
Questo è il punto del discorso, i giovani in gran parte sono disillusi, passivi, rassegnati etc. ma lo sono perchè gli adulti non sono solo quelli del 68.
Gli adulti sono stilisti, Dolce e Gabbana, Valentino, Cavalli, Spagnoli, sono Maria de Filippi, Raffaella Carrà, dirigenti di grandi società sportive, produttori televisivi etc etc.
L'errore che fanno professori e genitori è di criticare i giovani estraniandoli dalla totalità dell'umanità.
I giovani non sono a se stanti, vivono i loro anni di vita dipendendo direttamente da quelli che generalmente chiamiamo adulti, non sessantottini, ma adulti con mille facce.
Se a noi mancano le ideologie la colpa non è del nostro spirito inerte, perchè le ideologie hanno bisogno di essere alimentate nel modo giusto.
Se ad una pianta gli dai poca o niente acqua questa muore, se poi gli dai l'acido questa collassa nel giro di pochi attimi.
E' quello che fanno la maggior parte degli adulti, alimentare le ideologie con l'acido.
Non tutti lo fanno, come non tutti i giovani sono omologati o passivi.
Ma la minoranza resta tale, perchè ce ne sono di ragazzi che prendono a testate gi spigoli dei muri nel vedere come agiscono i loro coetanei, si arrabbiano, sbraitano, urlano...
Ma la risposta è tutt'altro che positiva, nevrotico, esaurito, fallito, esaltato, animale da circo.
Noi giovani mettiamo a vostra disposizione il nostro condizionamento, le nostre menti cariche di potenziale, non possiamo da soli cercare, trovare, scegliere e coltivare le giuste ideologie, abbiamo inevitabilmente bisogno del vostro aiuto.
Un edificio senza muratori che ne creino le fondamenta non può erigersi da solo, può vivere, può accogliere, può proteggere, ma solo dopo che il muratore esperto lo abbia costruito.
Se gli operai non vanno d’accordo tra loro, se lavorano in modo diverso l'uno dall'altro, l'edificio crollerà ancor prima di essere terminato e crollerà sulle loro teste.
Noi siamo il futuro, ma senza un presente decente che senso ha guardare al futuro?