tam tam |  espressioni  |
Questa nostra scuola, specchio della società
Repubblica - 13-10-2004
Dalla Rubrica delle lettere al giornale di Bari

A volte i ragazzi credono di metterti in imbarazzo. Anche quando, come docente giovane e attenta alla voglia di raccontarsi proponi di intavolare una chiacchierata, (didatticamente: conversazione guidata a tema), ti chiedono prontamente e con un braccio fieramente ritto di parlare di "riproduzione". Allora, vittima della battuta più che della richiesta, chiedo se si tratti di musicassette cd o video. Ma non sta al gioco perché la tempesta ormonale da qualche tempo lo sta ringalluzzendo tutto e precisa, con un chiaro gesto della mano ora, «fra maschio e femmina, pressorè [vuol dire professoressa]!» Allora ne parliamo scoprendo che più di qualcuno si nutre di giornaletti e fumetti possedendo a casa «tutta una biblioteca pornografica, pressorè!» e che a tarda ora, mentre i genitori dormono, guardano con avidità bramosa i filmetti bassamente erotici di alcune reti private. Riesco a mantenere la conversazione su un piano più scientifico, diciamo così, e preciso che "riprodursi" letteralmente significa mettere al mondo tanti piccoli G., M. e G. e che quindi è necessario un atto di responsabilità e di amore. Ma niente: «Pressorè, per prova!» Alacremente continuiamo, desiderosi di conoscerci meglio, e scopriamo che la pillola non è un anti aids, mentre il preservativo in questo caso è ambivalente, e che a proposito di malattie contagiose bisogna stare attenti a non passarsi neanche la sigaretta (alcuni fumano e, successivamente avrei scoperto che hanno già provato un paio di volte lo spinello e qualche superalcolico) perché in agguato, per fare soltanto un esempio, ci può essere l'herpes. Viene fuori, poi, anche la "cosa del bacio" (la mononucleosi), della quale avevano vagamente sentito parlare. Alla fine la chiacchierata è stata molto proficua e sono contenta di aver accolto la loro sfida e, soprattutto, di essermela cavata senza troppe volgarità. Ah! Quest'anno ho una terza media, la mia prima terza media che mi ritarda soltanto di un anno la tramvata della riforma brichettiana (o brechtiana?): come ho sempre costatato, ogni classe è una società in piccolo, specchio della varietà umana, spazio, quando rispettata e valorizzata, per la differenza, ma oramai sempre più manifestazione della baldanzosa e non consapevole ignoranza di ritorno. Molto più imbarazzante.

Virginia Mariani
Mottola (TA)




Da Lapsus : Vita bassa

«Su con la vita!» si dice ancora, di tanto in tanto, per confortare gli afflitti. «Su con la vita!» dice ai suoi studenti un preside ad Avezzano (provincia dell´Aquila), con la differenza che lui sta parlando della vita dei pantaloni. Dalla Vita Nova di Dante e la Dolce Vita di Fellini siamo alla bassa vita degli studenti: nel senso che i loro pantaloni scendono e le loro magliette salgono, perigliosamente. In particolare pantaloni e magliette delle studentesse, con ombelichi anteriori e forme posteriori lasciati in vista: «specie quando sono a sedere», specifica il preside traendo profitto dal doppio senso. La moda della deregulation del sedere, in una parola la sederegulation, lo turba.
Cintura e bretelle, imponevano una volta i borghesi più cautelosi. Ma quali sono questi «limiti del buon gusto» presidiati dal preside? Non è così semplice stabilire i confini fra i limiti della decenza e quelli della docenza o l´altezza del giusto tenore di vita (dei pantaloni). Tutti nello stesso burqa? L´occhio del preside innalza il cavallo? La decadenza dei costumi non è più un modo di dire figurato ma va presa in senso letterale? Su con la vita, prèsidi!

Stefano Bartezzaghi

  discussione chiusa  condividi pdf

 umberto    - 17-10-2004
chi codifica il buon gusto? Vittorio Sgarbi o Giorgio Armani? E Dolce & Gabbana saranno esclusi da Buttiglione? Non si fanno leggi o norme che competono il pensiero umano e la manifestazione della personalità. Nel passato è successo spesso, possibile che non lo ricordi? Pienamente d'accordo con te. (O lal borsa o lavita!!!).

 Pierangelo    - 18-10-2004
da Repubblica del 18.10.2004

La vita bassa a quindici anni
di MARCO LODOLI

Insegnare a scuola mette in contatto con le verità del giorno: è come raccogliere uova appena fatte, ancora calde, magari con il guscio un po´ sporco. Gli storici interrogano i secoli, ma in una classe di una qualsiasi periferia italiana si ascolta il battere dei secondi. Ebbene, oggi una ragazza di quindici anni, un´allieva che non aveva mai rivelato una particolare brillantezza, ha fatto una riflessione che mi ha lasciato a bocca aperta. Eravamo negli ultimi dieci minuti di lezione, quelli che spesso si spendono in chiacchiere con gli alunni.
La ragazza raccontava di volersi comprare un paio di mutande di Dolce e Gabbana, con quei nomi stampati sull´elastico che deve occhieggiare bene in vista fuori dai pantaloni a vita bassa. Io le obiettavo che lungo la Tuscolana, alle sei di pomeriggio, passeggiano decine e decine di ragazze vestite così. Non è un po´ triste ripetere le scelte di tutti, rinunciare ad avere una personalità, arrendersi a una moda pensata da altri? E da bravo professore un po´ pedante le citavo una frase di Jung: «Una vita che non si individua è una vita sprecata. «Insomma, facevo la mia solita parte di insegnante che depreca la cultura di massa e invita ogni studente a cercare la propria strada, perché tutti abbiamo una strada da compiere. A questo punto lei mi ha esposto il suo ragionamento, chiaro e scioccante: «Professore, ma non ha capito che oggi solo pochissimi possono permettersi di avere una personalità? I cantanti, i calciatori, le attrici, la gente che sta in televisione, loro esistono veramente e fanno quello che vogliono, ma tutti gli altri non sono niente e non saranno mai niente. Io l´ho capito fin da quando ero piccola così. La nostra sarà una vita inutile. Mi fanno ridere le mie amiche che discutono se nella loro comitiva è meglio quel ragazzo moro o quell´altro biondo. Non cambia niente, sono due nullità identiche. Noi possiamo solo comprarci delle mutande uguali a quelle di tutti gli altri, non abbiamo nessuna speranza di distinguerci. Noi siamo la massa informe. «Tanta disperata lucidità mi ha messo i brividi addosso. Ho protestato, ho ribattuto che non è assolutamente così, che ogni persona, anche se non diventa famosa, può realizzarsi, fare bene il suo lavoro e ottenere soddisfazioni, amare, avere figli, migliorare il mondo in cui vive. Ho protestato, mettendo in gioco tutta la mia vivacità dialettica, le parole più convincenti, gli esempi più calzanti, ma capivo che non riuscivo a convincerla. Peggio: capivo che non riuscivo a convincere nemmeno me stesso. Capivo che quella ragazzina aveva espresso un pensiero brutale, orrendo, insopportabile, ma che fotografava in pieno ciò che sta accadendo nella mente dei giovani, nel nostro mondo. A quindici anni ci si può già sentire falliti, parte di un continente sommerso che mai vedrà la luce, puri consumatori di merci perché non c´è alcuna possibilità di essere protagonisti almeno della propria vita. Un tempo l´ammirazione per le persone famose, per chi era stato capace di esprimere - nella musica o nella letteratura, nello sport o nella politica - un valore più alto, più generale, spingeva i giovani all´emulazione, li invitava a uscire dall´inerzia e dalla prudenza mediocre dei padri. Grazie ai grandi si cercava di essere meno piccoli. Oggi domina un´altra logica: chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori per sempre. Chi fortunatamente ce l´ha fatta avrà una vita vera, tutti gli altri sono condannati a essere spettatori e a razzolare nel nulla. Si invidiano i vip solo perché si sono sollevati dal fango, poco importa quello che hanno realizzato, le opere che lasceranno. In periferia ho conosciuto ragazzi che tenevano nel portafoglio la pagina del giornale con le foto di alcuni loro amici, responsabili di una rapina a mano armata a una banca. Quei tipi comunque erano diventati celebri, e magari la televisione li avrebbe pure intervistati in carcere, un giorno. Questa è la sottocultura che è stata diffusa nelle infinite zone depresse del nostro paese, un crimine contro l´umanità più debole ideato e attuato negli ultimi vent´anni. Pochi individui hanno una storia, un destino, un volto, e sono gli ospiti televisivi: tutti gli altri già a quindici anni avranno solo mutande firmate da mostrare su e giù per la Tuscolana e un cuore pieno di desolazione e di impotenza.

 Pierangelo    - 20-10-2004
da Repubblica del 20.10.2004

CHE PAURA ESSERE NESSUNO
Ma molti capiscono anche che certi sogni sono una trappola

di MARCO LODOLI

Mercato, concorrenza, competitività: che i migliori emergano, che i forti prevalgano, che le belle si mostrino. Anche una ragazzina di quindici anni riceve ogni momento, in modo diretto o subliminale, questi messaggi dal piccolo schermo o dai cartelloni pubblicitari che invadono lo sguardo. E magari questa ragazzina vive in una borgata oltre il Raccordo, è alta un metro e cinquantotto ed è un po´ rotonda, frequenta una scuola professionale dove non c´è un computer né una biblioteca, e a casa non ha libri ma solo un televisore sempre acceso, e i suoi amici sono quelli della bisca in piazzetta. Magari a casa sente spesso il padre lamentarsi perché la vita è sempre più dura e più cara, mentre la madre tace preoccupata. Lei è intelligente e sensibile, e di colpo un giorno, accasciata sul divano davanti a quel televisore, capisce come funziona il nostro mondo. Pochi vincono e molti soccombono. Pochi avranno soldi, primi piani, applausi e molti avranno una vita anonima e senza luce. E lei amaramente intuisce che non sarà tra i pochi fortunati. Nella competizione spietata lei sarà tra i perdenti, gli esclusi, gli spettatori delle altrui fortune. Ha sufficiente coraggio e lucidità per permettersi un pensiero così terribile. E riesce a fare anche un altro passo in avanti nella sua atroce riflessione. Intuisce che solo i vincenti possono permettersi una personalità originale, opinioni da esprimere perché c´è sempre qualcuno che le sta ad ascoltare, desideri e capricci. I potenti possono tutto, prendere, lasciare, sproloquiare, battere i piedi, gli impotenti non possono niente. Di questi tempi anche una personalità e un carattere sono un lusso per pochi. Per tutti gli altri, per le infinite persone che vagano attorno a quel castello incantato, esiste solo il consumo impersonale. Mutande firmate, partite di calcio, pantaloni oggi a vita bassa e domani chissà come, piercing e birrette, pay tv e ipermercati dove riempire il carrello, se ci si riesce. La ragazzina vede chiaro, capisce l´aria che tira, dice la verità. Di sociologia non sa nulla, forse non comprende nemmeno il termine, ma della nostra società ha compreso molto. Non è certo una rivoluzionaria, anzi il suo sogno segreto sarebbe di far parte della Grande Festa, di avere un posto attorno a quella tavola sempre imbandita e una telecamera che la inquadri anche mentre dorme. Ma non ci conta per niente. Non conta nemmeno più sulle sue forze, non ha troppa voglia di studiare e sacrificarsi per diventare infermiera o maestra d´asilo, perché secondo lei sarebbe comunque una vita grama, lontana dal castello. O Cesare o nessuno, dunque nessuno. Un nessuno che rischia di passare la vita tra milioni di altri nessuno, lì sul bordo tra le vetrine della Tuscolana e il nulla. Questa è la situazione che in dieci minuti mi è stata raccontata da una ragazza allegra e malinconica, intelligente e pigra. Questa è l´infelicità a cui il nostro mondo sta consegnando tanti ragazzi e tanti adulti. Molti ci stanno dentro senza accorgersene, tra psicofarmaci e alcol, depressioni e rabbia. Ma alcuni, per fortuna, cominciano a capire come funziona la macchina infernale. Come la mia alunna, la osservano con attenzione, la studiano, cominciano a smontarne i pezzi.

 Pierangelo    - 21-10-2004
da Repubblica del 21.10.2004

L´AMACA
di MICHELE SERRA

Molto in breve, provo a dire la mia (in quanto teen-ager) sull´animato dibattito provocato dall´articolo di Marco Lodoli. Ciò che mi fa specie non è che i giovani preferiscano immaginarsi ricchi e famosi piuttosto che poveri e anonimi. Questo fa parte - come dire - del diritto alla felicità. È un´altra la cosa che mi impressiona: è che per larga parte dei ragazzi (non tutti, però, non tutti) l´idea di successo sembra totalmente priva di un vaglio etico, di un giudizio di qualità. Quella ripugnante parola, vip, che ripetiamo come pappagalli da anni, accomuna ottime persone e mascalzoni, persone intelligenti e totali imbecilli, gente di talento e macchiette disgustose. Ci sono dei vip che dovrebbero essere nominati come esempi memorabili di insuccesso umano, tanto commiserevole è quello che dicono, e spesso anche quello che sono, e sono invece invidiati e imitati. E ci sono casi di "successo" al quale sarebbe infinitamente preferibile, come via per incontrare se stessi, un silenzioso e solitario crescere.
Se questo è vero - se, cioè, non si fa più distinzione tra le qualità e i meriti di chi riesce a farcela, qualcuno perché è bravo, qualcuno perché è stronzo - la responsabilità fondamentale, però, non è dei figli. È, fin troppo ovviamente, dei padri e delle madri (specie quelli che fanno i giornali e la televisione) che non osano più dare, insieme alla merce che vendono, uno straccio di criterio di giudizio. Perché tra gli adulti che ce l´hanno fatta vigono solidarietà e omertà.

 Pierangelo    - 01-11-2004
da l'Espresso del 29.10.2004

Libertà d'ombelico
di Claudio Rinaldi

In un'estate ormai dimenticata, per l'esattezza 40 anni fa, molte ragazze sfoggiavano pantaloni a vita bassa. Sopra di essi portavano dei leggiadri bolerini, lasciando studiatamente scoperti gli ombelichi. Così conciate, non si sentivano affatto spudorate; pensavano piuttosto di essere parte di un'avanguardia. Il nome che avevano dato alle loro divise, Saint-Tropez, costituiva un esplicito richiamo alle terra promessa dei divertimenti d'élite.
Fu in quel 1964 che la moda delle pance nude celebrò la sua prima apparizione. Nessuno se ne scandalizzò, benché nei modi di vestirsi una certa sobrietà fosse ancora la regola. Forse perché i Saint-Tropez, che in fondo prolungavano e sublimavano i bikini, non erano troppo invasivi: il loro uso restò circoscritto ai mesi caldi, alle località balneari, alle fanciulle più ardimentose. Oggi invece i pantaloni dalla vita bassa, indossati da tutte ed esibiti dappertutto, nelle scuole come negli uffici, stanno turbando i sonni di parecchi adulti. Per esempio di Angelo Bernardini, preside del liceo scientifico "Vitruvio Pollione" di Avezzano, che a metà ottobre ha rivolto alle studentesse un accorato appello a cambiare look.
Bernardini ha addotto rispettabili motivazioni estetiche e di buon gusto. Ma è presumibile che il suo invito rimanga inascoltato, e non soltanto per la prosaica ragione che ormai l'industria dell'abbigliamento propone unicamente capi di quella foggia. Il fatto è che non si può seriamente affermare che la proliferazione degli ombelichi a vista configura un degrado dei costumi. Ci si trova infatti davanti a un fenomeno di massa, sì, ma allo stesso tempo socialmente qualificato; nel senso che caratterizza anche professioni invidiabili, fasce di popolazione dal reddito medio-alto, settori economici cruciali.
Nel mondo dello spettacolo tutte le protagoniste, dalle più celebrate popstar alle vallette di infimo rango, mostrano pance ultrapiatte. È quasi un obbligo. Idem nelle pubblicità: basta sfogliare un quotidiano di questi giorni per constatare che gli ombelichi sono al centro di qualsiasi campagna, si tratti delle automobili Skoda o delle novità Tim. Da anni essi vengono tranquillamente esposti anche dalle donne che praticano l'atletica leggera, eccettuate le musulmane. Oltre che per il talento la magnifica Elena Isinbayeva, regina del salto con l'asta, spicca per le dimensioni assai ridotte degli slip coi quali gareggia. La moda di mettere a nudo il girovita si sta imponendo perfino nello sportelegante per definizione, il tennis: campionesse come la russa Anastasia Myskina, la slovacca Daniela Hantuchova, la croata Karolina Sprem usano sopra i calzoncini magliette particolarmente corte. Difficile additare al pubblico biasimo per volgarità persone come loro.
A colpire negativamente il preside Bernardini, per la verità, sono stati soprattutto certi dettagli: i capi di biancheria che nove volte su dieci finiscono per fuoriuscire dai vituperati pantaloni, soprattutto quando le ragazze sono sedute con il busto piegato in avanti. Nella sua scia Marco Lodoli, scrittore e insegnante, ha raccontato su la Repubblica che a Roma, nella popolarissima via Tuscolana, ogni giorno capita di assistere a una sfilata ininterrotta di mutandine con le firme tipo Dolce&Gabbana stampate sugli elastici. Questo genere di ostentazioni è discutibile dal punto di vista del galateo, tuttavia vanta qualche precedente illustre. Se un tempo il milanese Nanni Svampa ammoniva che "el bamburin de la mié d'un ghisa l'è minga un spectacul" (L'ombelico della moglie di un vigile urbano non è uno spettacolo), negli ultimi anni dagli schermi tv hanno spesso occhieggiato i reggiseni di un'anchorwoman di successo, Simona Ventura. Prima ancora, nel febbraio 1999, Anna Oxa vinse il Festival di San Remo con la canzone "Senza pietà" calamitando grazie all'emersione malandrina di un tanga gli sguardi di telespettatori a milioni.
Se proprio si vogliono enucleare i lineamenti fondamentali di una sociologia dell'ombelico, insomma, bisogna riconoscere che essa ha origini aristocratiche non meno che plebee. Ma le obiezioni di Lodoli sono di sostanza più che di stile. Egli vede nell'adesione generalizzata alla moda delle pance in vetrina una deplorevole passività collettiva, e si spinge addirittura a farne il sintomo della sconfitta esistenziale di un'intera generazione.
Sono state alcune delle sue allieve, precisa, a fornirgli questa scoraggiante chiave di lettura. Mentre lui le esortava a distinguersi dall'andazzo imperante, a seguire percorsi originali, una di loro gli ha reso una confessione cruda: noi non siamo niente e non saremo mai niente, professore, non potremo mai scalare le vette di quella notorietà televisiva che costituisce il solo antidoto allo squallore e alla miseria, perciò non ha senso che cerchiamo delle strade nostre; tanto vale che ci lasciamo trascinare dalla corrente quale che sia, ben vengano anche le mutande fuori dai pantaloni se di questo si parla.
Ma quanto è fedele alla realtà un simile autoritratto? Davvero le ragazze di via Tuscolana portano a spasso esistenze disperate, irrimediabilmente grigie? Da lontano non trasmettono questa impressione. I loro vuoti, se pure ci sono, sembrano bene o male colmati da una superficiale allegria. I loro pantaloni dalla vita bassa non hanno nulla di penitenziale, semmai ambiscono a farsi strumenti di autoaffermazione; un po' come le prime minigonne, negli anni '60 del secolo scorso.
Il paragone non è azzardato. Indossare la minigonna, allora, per una ragazza significava anzitutto manifestare fiducia in sé e nel proprio corpo. Era una specie di prova di forza con il mondo, nella quale l'obiettivo numero uno non era sedurre qualcuno; si trattava invece di sottolineare l'età verde e la buona salute, di attribuirsi il privilegio di una disinvoltura al confine con la spregiudicatezza, di affrancarsi dal modello tradizionale della donna riservata e sottomessa.
Analogamente un ombelico in libertà oggi può essere vissuto come un simbolo di emancipazione. Tanto per cominciare, annuncia l'assenza di una sottoveste e di altre antiquate bardature; di conseguenza allude a una vita che si vorrebbe il più possibile semplice, caratterizzata da una grande facilità di rapporti con il prossimo. A questo quadro l'affiorare noncurante della lingerie aggiunge una pennellata di sana sfrontatezza.
Di qui la diffusione tendenzialmente universale dei pantaloni super-ribassati. Sono bandiere atipiche, non banali capi di vestiario. In quanto tali è probabile che siano destinati a durare a lungo. Proprio come la minigonna, che si è perpetuata attraverso i decenni facendosi adottare anche da chi non possedeva le gambe snelle di Naomi Campbell.
Pance sovrabbondanti? Fianchi appesantiti da rotoli vari? Va da sé che chi apprezza le armonie ha il sacrosanto diritto di ritenere inguardabile la moda dilagante. Del resto anche i cosiddetti capelloni, nell'epoca della cosiddetta contestazione, erano sporchi brutti e cattivi. Ma la società dei cinquantenni avrebbe commesso un grave errore se, fermandosi alle apparenze, avesse visto rinunce dove c'erano inquietudini; o, peggio, se avesse scambiato per forme di disadattamento quelle che erano dimostrazioni di vitalità.