E’ piccolo il giardino profumato
Grazia Perrone - 16-10-2003

16 ottobre 1943

E’ piccolo il giardino profumato;
è stretto il sentiero dove corre il bambino,
un bambino grazioso come un bocciolo che si apre.
Quando il bocciolo si aprirà il bambino non ci sarà.

(poesia scritta da Frantisck Bass, nato in Polonia il 4 settembre 1930 e morto ad Auschwitz il 28 ottobre 1944).




Il rastrellamento del ghetto ebraico di Roma rappresenta il naturale epilogo di una vicenda umana e sociale che trae la sua origine nell’essenza stessa del fascismo e dell’alleanza politica e sociale che il regime mussoliniano instaura con il nazi-fascismo europeo già nel 1936 con la partecipazione attiva nella guerra di Spagna. La politica antirazziale del fascismo non fu introdotta, infatti, per imposizione della Germania. Ma fu una libera determinazione del governo italiano e dei massimi organismi dello Stato. Monarchia compresa. L’antisemitismo fascista era intimamente finalizzato alla costruzione del modello di "italiano nuovo", che comportava la totale fascistizzazione della società secondo un’ottica totalitaria. Laddove per “totalitario” si intende un regime che tende a imporre l’uniformità in ogni aspetto della vita sociale, politica, culturale senza trascurare alcuna sfera della società e senza lasciare alcuno spazio al dissenso, alla diversità, all’opposizione politica. Un regime – in ultima analisi – che afferma un unico potere (il proprio); un’unica ideologia (quella del partito o della fazione di partito dominante); un’unica gerarchia di miti e di valori.

In questo contesto il fascismo è stato – indiscutibilmente – un regime totalitario.


Gli studi sul fascismo nel nostro Paese hanno a lungo trascurato la problematica delle leggi razziali (che sono, di gran lunga, antecedenti alle deportazioni vere e proprie) per una serie complessa di ragioni. Questa carenza di memoria (e di ricostruzione) storica delle leggi razziali promulgate nel periodo compreso tra il settembre [1] e il novembre 1938 dipende, in parte, dalla frattura politica, militare e sociale dell'8 settembre del 1943; grazie infatti alla ben più dura fase della persecuzione avviata con l'occupazione diretta dell'Italia da parte della Wehrmacht dopo l'armistizio e l'uscita dell'Italia dallo schieramento dell'Asse e del patto tripartito, l'attenzione, anche delle vittime, è stata polarizzata interamente sui fatti accaduti nel periodo 1943-1945, che ha visto la deportazione di oltre 8 mila cittadini italiani di religione ebraica. Pochissimi dei quali poterono sfuggire ai campi di sterminio.

Ma si commetterebbe un grossolano errore di valutazione storica nel concentrare l'attenzione solo su quanto è accaduto dopo l'8 settembre del 1943, come se prima di quest'epoca il fascismo non avesse esso stesso promosso – “motu proprio” - la più imponente e completa legislazione antiebraica esistente nel mondo intero … dopo quella della Germania nazista.

La violenta campagna di denigrazione e di discriminazione antiebraica e la, conseguente, legislazione utilizzata furono iniziativa e prodotto autonomo del regime fascista, in un contesto europeo e internazionale, in cui, soprattutto dopo il 1933, l'esigenza di adeguarsi ai lineamenti politici che si stavano sviluppando in Germania rispondeva a una “scelta di campo” fondamentale, contro la democrazia e per la modifica ad ogni costo, anche a costo della guerra, dell'ordinamento di pace che aveva fatto seguito alla conclusione del primo conflitto mondiale. L’accentuazione verso una politica della “purezza della razza” nel fascismo italiano fu connaturata allo stesso retaggio nazionalista post-bellico, che esaltava la superiorità della stirpe come fatto biologico e non solo culturale; che esaltava l'espansionismo territoriale italiano attraverso la concezione tardo-coloniale delle colonie come luoghi di ri-popolamento, di “spazio vitale” ovvero, sede di trasferimento e di nuovo insediamento dell'eccedenza demografica dell'Italia e simbolo di superiorità della civiltà e della razza italiana sugli “indigeni”.

Una prima “lesione” delle prerogative di uguaglianza e di integrazione sociale degli ebrei italiani derivanti dallo Statuto Albertino si intravede già con la stipula del Concordato del 1929 con la Santa Sede che retrocesse il culto israelitico, allo status di semplice … "culto ammesso" dallo Stato. Preludendo – di fatto - al nuovo statuto delle Comunità ebraiche del 1931 che ne delimitò – di parecchio – le libertà di culto. Nel 1934, poi, a seguito dell'arresto di numerosi antifascisti ebrei (quasi tutti intellettuali piemontesi tra i quali spiccava il nome di Vittorio Foa), si diede il via ad una campagna di diffamazione generalizzata contro gli ebrei basata sull’equazione empirica: ebreo uguale antifascista.

Il nucleo principale delle disposizioni legislative, che incisero profondamente sulla sfera giuridica degli ebrei limitandone drasticamente i diritti civili e talvolta anche umani, fu emanato tra l'inizio di settembre e la fine di novembre del 1938. Queste disposizioni incidevano sulle libertà e sui diritti degli ebrei sia sotto il profilo personale che dal punto di vista patrimoniale e professionale. E non è casuale che il primo in assoluto dei provvedimenti destinati a codificare la separazione degli ebrei dal resto della popolazione riguardasse la loro : il RDL del 5 settembre 1939 per "la difesa della razza nella scuola fascista", promosso dal ministro Bottai. In seguito a questo decreto agli alunni ebrei fu proibito di frequentare la scuola comune a tutti i cittadini, così come ai docenti ebrei fu proibito di continuare a insegnare nella scuola che avrebbe dovuto essere la scuola di tutti.








A completare il quadro repressivo sopraggiunse – dopo il 10 giugno 1940 - l'ordine di internamento per gli ebrei stranieri che non avevano ottemperato al decreto di espulsione del 1938 che, sommato ai provvedimenti di internamento per i cittadini degli stati con i quali l'Italia veniva a trovarsi in stato di guerra, diede l'avvio alla proliferazione dei campi di internamento, disseminati in tutta la Penisola.
Con due Circolari del Ministero dell’Interno (formulate in data 27 maggio e 6 giugno 1939) infine, le Prefetture e le Questure venivano invitate a preparare e a tenere aggiornati gli elenchi degli ebrei considerati pericolosi (praticamente tutti). Un provvedimento amministrativo destinato a produrre gli innumerevoli elenchi di ebrei residenti in Italia dei quali si serviranno dopo l'armistizio del 1943 tedeschi e fascisti della R.S.I. per “dare la caccia” agli ebrei italiani e stranieri da deportare in Germania.
Il 15 luglio 1943, appena dieci giorni prima “dell’ordine del giorno Grandi” che sancì la caduta di Mussolini e del fascismo, il governo decretò la mobilitazione totale degli ebrei, donne comprese, per il servizio del lavoro. In questo modo non solo si allargava alle donne l'area degli ebrei da mandare al lavoro coatto, ma si prevedeva esplicitamente la possibilità di creare appositi campi di concentramento cui inviare coattivamente gli ebrei mobilitati per il lavoro.

All’alba del 16 ottobre 1943, un sabato, Theodor Dannecker con il suo distaccamento appositamente fatto pervenire dalla Germania, coadiuvato da 365 uomini della polizia tedesca a Roma, iniziò il grande rastrellamento che ebbe nel quartiere ebraico, l'antico ghetto, il suo epicentro. Gli arrestati furono 1.035, dopo il rilascio di alcuni prigionieri (perché non ebrei o perché coniugi o figli di matrimonio misto o perché titolari di nazionalità neutrale), alla fine rimasero nelle sue mani 1.022 ebrei. II 18 ottobre i prigionieri, stanchi e disperati, furono trasportati su autofurgoni a uno scalo ferroviario secondario di Roma (Stazione Tiburtina) e caricati su di un convoglio formato da 18 carri merci. Ai capi famiglia fu detto di portare l’occorrente per un viaggio di alcuni giorni. Il treno degli ebrei romani partì dalla stazione di Roma Tiburtina lunedì 18 ottobre e – dopo un viaggio di quattro giorni - giunse sulla banchina dello scalo ferroviario secondario di Auschwitz la notte del 22 ottobre 1943; qui rimase fermo e sigillato fino all'alba del giorno dopo. I deportati, dopo un viaggio particolarmente penoso perché tra loro c’erano decine di bambini di tutte le età, tormentati dalla fame, dalla sete, dalla sporcizia, dal puzzo dei corpi rimasti in promiscuità per 5 giorni e 5 notti, prima di subire la selezione furono derubati di tutto.
I destinati al gas furono ben 839. Alla liberazione, avvenuta il 27 gennaio 1945, solo 16 persone (quindici uomini e una donna) del convoglio di Roma furono trovate in vita.
Il cittadino italiano di religione ebraica più anziano deportato con quel convoglio aveva 78 anni.
La più giovane meno di tre mesi.





(…)”Entrando nel campo per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa: la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata; siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana peggiore non c’è, e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro il nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga (…)”
(Primo Levi – Se questo è un uomo).






[1]
Con il RDL del 7 settembre 1938 si decretò l'espulsione immediata dall'Italia di tutti gli ebrei stranieri. Una misura normativa che - in quella formulazione - poneva l'Italia in testa ai Paesi più radicalmente intolleranti contro gli ebrei. Di più. Con questo decreto si annullava una tradizione - che risaliva allo Statuto Albertino - di ospitalità e di garantismo verso gli ebrei che avevano trovato momentaneo rifugio, o addirittura, una nuova patria in Italia sottraendosi alla persecuzione dei nazisti o di altri regimi antisemiti europei.



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 Rolando    - 16-10-2003
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Grazie ! Questi ricordi, sono paletti importanti per la Democrazia. Guai a dimenticarli!

Rolando

 Red    - 16-10-2003
Dall'Unità
16.10.2003
Vedi alla Voce Complice
di Rosetta Loy


Viviamo in uno strano tempo dove accadono guerre che avevamo creduto non dover vedere mai più. Solo che oggi vengono addobbate con nomi «soft»: guerra umanitaria, enduring freedom, guerra preventiva, simili a quei belletti spalmati sui defunti perché i parenti possano, in quelle guance dipinte di rosa e in quelle bocche rosse, illudersi sulla rigidità cadaverica. Lo stesso progetto di edulcorazione sembra spandersi come un miele sulla storia alle nostre spalle, o più precisamente su una certa storia che ha marchiato di tragedie l’Italia, e succede sempre più spesso che nei discorsi su Mussolini si rimanga invischiati in una sorta di melassa quasi tornasse l’eco dell’agitarsi dei gagliardetti e la mascherata delle divise, i roboanti proclami del Mare Nostrum. La mia generazione cresciuta fra «Credere Obbedire Combattere», «È l’aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende», «Noi tireremo diritto» con in calce l’inconfondibile firma, ha dovuto faticare non poco per liberarsi dall’apoteosi di una violenza che ci avvolgeva in un tripudio di glorie a venire, e mai avvenute.
Ma abbiamo anche imparato a fiutarne subito l’odore.
La data di oggi porta a riflettere sull’addolcimento che ha ammorbidito anche le «leggi razziali» fasciste, mettendole a confronto con quelle naziste. È una vecchia storia questa di buttare sempre le colpe sulle spalle dei tedeschi. Un velo pietoso viene oggi disteso sulle leggi che difendevano la nostra purezza di «razza ariano nordica» (chissà se ne penserebbe Bossi di un calabrese o un lucano «ariano nordico»), le prime leggi razziali a interessare un paese europeo, dopo la Germania. Esecrabili, anche se non ancora criminali; e arricchite di infiniti codicilli persecutori durante il corso disastroso della guerra. Ma è soprattutto sulle disposizioni adottate dalla Repubblica Sociale dopo l’8 settembre che l’amnesia è totale. Un colpo di spugna è passato sui diciannove mesi in cui la Repubblica di Salò rimase attiva. Eppure il giorno stesso della sua costituzione, il 23 settembre del 1943, quella Repubblica sanciva «la deportabilità degli ebrei di cittadinanza italiana». Una sola frase che equivaleva a una condanna a morte in quanto significava Auschwitz. Ma questo era solo l’inizio: il 10 e l’11 ottobre i quotidiani in edicola informavano gli italiani che tornavano in vigore le norme antiebraiche abrogate dopo il 25 luglio e annunciavano ulteriori misure intese a «mettere definitivamente gli ebrei in condizione di non poter più nuocere agli interessi nazionali» (chissà quale minaccia rappresentavano delle persone in maggioranza private del lavoro, della scuola, e di buona parte dei loro beni). Il 6 novembre Mussolini aveva già sul suo tavolo il progetto di legge «inteso a regolare la questione razziale, appoggiandosi alla legislazione germanica in materia, nota sotto il nome di legge di Norimberga». Progetto trasformato nel «manifesto programmatico» presentato il 14 novembre, alla prima assemblea del nuovo Partito Fascista a Verona, manifesto che al punto 7 stabiliva che «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». La stessa assemblea quel giorno dichiarava che il nuovo stato era «programmaticamente antisemita». E con tutta tranquillità il 20 novembre il ministro dell’Interno Buffarini Guidi poteva disporre, con l’ordine di polizia n. 5, l’«arresto di tutti gli ebrei a qualsiasi nazionalità appartengano e il loro internamento in campi provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento appositamente attrezzati».
Sempre quello stesso anno, il 16 dicembre, il Consiglio dei ministri, presieduto da Mussolini, approvava lo schema destinato a diventare decreto legge il 4 gennaio del ’44 che imponeva ai capi delle provincie di procedere «immediatamente alla confisca di tutti i beni di qualsiasi natura (aziende, terreni, fabbricati, crediti vari, valori depositati nelle banche, mobili di arredamento, soprammobili, stoviglie, lenzuola, vestiario ecc.) delle persone di razza ebraica».
Nel marzo del ’44 furono ancora elaborati alcuni progetti legislativi che estendevano la persecuzione a tutte le persone con più di un bisnonno ebreo. Progetti che fortunatamente non fecero a tempo a essere realizzati e l’ordine di arresto (e conseguente deportazione) continuò a colpire «solo» le vittime già individuate, ossia tutti quelli che avevano otto o sette bisnonni ebrei, praticamente tutti quelli che ne avevano cinque, una parte imprecisabile ma consistente di quelli che ne avevano quattro, un ristretto gruppo di chi ne aveva tre o due. Ma lascio qui la parola a Michele Sarfatti il cui libro «Gli ebrei nell’Italia Fascista» raccomando soprattutto a chi è colpito da amnesia o è stato scarsamente informato.
Scrive Sarfatti: «Dal 1° dicembre 1943 i capi delle Provincie della Rsi cominciarono ad allestire i campi di internamento provinciali e i questori a programmare gli arresti. Le operazioni iniziarono presso le abitazioni degli ebrei, perquisite alla ricerca di arrestandi e poi sigillate perché poste sotto sequestro. Gli arresti furono in linea generale attuati da reparti non «specializzati» della polizia ordinaria. Il capo della provincia di Vercelli trovò del tutto ovvio chiedere ai podestà, nella loro qualità di ufficiali di pubblica sicurezza, di collaborare «pienamente con gli altri organi di polizia». Anche da parte italiana, tra i corpi che contribuirono con un apporto specifico all’arresto degli ebrei, vi furono quelli incaricati della sorveglianza al confine con la Svizzera. Fiero dei cinquantotto arresti eseguiti «dai primi di ottobre ad oggi» e dei «rilevanti valori» sequestrati in tali occasioni, il 12 dicembre 1943, il comandante della II legione «Monte Rosa» della Guardia nazionale repubblicana confinaria scrisse al capo della provincia di Como: «È così che la corsa verso il confine degli ebrei, che con la fuga nell’ospitale terra elvetica - rifugio di rabbini tentano di sottrarsi alle provvidenziali e lapidarie leggi Fasciste, è ostacolata dalle vigili pattuglie della Guardia Nazionale Repubblicana che indefessamente, su tutti i percorsi anche i più rischiosi con qualsiasi tempo e a qualsiasi ora, con turni di servizio volontariamente prolungati, vigilano per sfatare ogni attività oscura e minacciosa di questi maledetti figli di Giuda».
Forse non è inutile ricordare che gli ebrei bulgari furono gli unici, nei paesi alleati dei tedeschi, a non finire in un campo di concentramento perché il Re si rifiutò di firmare l’ordine. Re Boris morì poco dopo in circostanze misteriose, probabilmente ucciso. Ma nessuno dei suoi sudditi fu deportato.