Buonsenso per la scuola
Fuoriregistro - 13-10-2003
"Il buon senso è la cosa al mondo meglio ripartita: ciascuno infatti pensa di esserne ben provvisto, e anche coloro che sono i più difficili da contentarsi in ogni altra cosa, per questa non sogliono desiderarne di più". (Cartesio, Discorso sul metodo)


Una anno fa, da Vittorio e Luisa, prendeva ufficilamente il via di quel lavoro a carattere "bipartisan", il cui difficile compito consisteva nel "pensare una riforma complessiva della scuola che regga al mutare delle maggioranze, che prenda le cose migliori dei tentativi finora messi a punto dai governi di centrosinistra e dal governo di centrodestra e le assembli per approdare a un progetto finalmente organico, basato su punti essenziali condivisi."

Oggi il "gruppo" che "altri" hanno definito "del buon senso", ma che si ritiene semplicemente un insieme "di persone variamente impegnate nella società civile che sono d'accordo sul fatto che l’istruzione e la formazione siano una priorità assoluta per il nostro paese", ha deciso " che questo non basta dirlo, ma bisogna sostenerlo nei fatti".

Ha così elaborato un documento, intitolato
"PROGETTO BUONSENSO PER LA SCUOLA - PER UN INVESTIMENTO SUL FUTURO"
condiviso in linea di massima da tutti, ma suscettibile di ulteriori modifiche.

Ritroviamo tra le firme alcuni dei nomi che leggevamo allora, con aperture all' associazionismo (a Franco Nembrini di Comunione e Liberazione si aggiunge Luigi Bobba, presidente delle ACLI ), alla stampa (il giornalista scolastico Nicola D'Amico), a Confindustria ( il direttore del settore scuola e formazione Claudio Gentili), al territorio (l'ex assessore al comune di Roma Fiorella Farinelli)

Il testo viene messo in rete in un certo numero di siti disponibili ad ospitarlo, senza necessariamente condividerne per intero il contenuto: può essere liberamente riprodotto e diffuso, come spunto per ulteriori discussioni. Le adesioni al progetto, i suggerimenti, le critiche, possono essere inviati a cantierescuola@libero.it fino a Natale: i contributi saranno raccolti e se ne terrà conto per la versione definitiva della proposta che verrà presentata a stampa e in rete.





[Fuoriregistro apre il dibattito tra i suoi lettori e si rende disponibile
ad inviare i commenti che qui arriveranno - ndr]



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 ap    - 14-10-2003
"Il buon senso è la cosa al mondo meglio ripartita: ciascuno infatti pensa di esserne ben provvisto, e anche coloro che sono i più difficili da contentarsi in ogni altra cosa, per questa non sogliono desiderarne di più". (Cartesio, Discorso sul metodo)

Una citazione autoironica, spero, visto che gli estensori del documento si attribuiscono o accettano che venga loro attribuita una qualità che la stessa citazione qualche modo smentisce o, almeno, riduce e stempera.


A seguire, naturalmente, le dichiarazioni di apertura.

L’incipit: Quando un gruppo di persone che ha lavorato intorno ad un progetto lo presenta all'esterno… mi è suonato immediatamente familiare, come un ritmo, un andamento noto, e poi ho capito perchè. Mi ricordava: Quando nel corso di eventi umani, sorge la necessità che un popolo……

Mi sono quindi predisposta alla lettura, quasi con un senso di reverenza, alla ricerca di contenuti, ma soprattutto di un linguaggio nuovo, diverso da quello con il quale, da due anni a questa parte, siamo abituati a confrontarci. Confortata anche di affermazioni come questa: Il nostro obiettivo è allora duplice: identificare i problemi prioritari, proporre soluzioni ragionevoli e realistiche, e creare intorno a queste proposte un canale di comunicazione e dibattito in cui, senza rinunciare alle proprie identità culturali, si confrontino e collaborino posizioni legittimamente diversificate.
Le buone intenzioni non sono vacillate nemmeno quando, nemmeno due righe più avanti, tutto il dibattito di questi anni viene liquidato in questi termini: molti siano stanchi di cavilli e opposizioni frontali e immotivate, dentro e fuori i partiti di governo e di opposizione, e desiderino mettersi all'opera su proposte precise, anche se modificabili. Ed ho colto come un segnale positivo il fatto che si dica, finalmente, che non siamo all’anno zero della scuola, che si parli di riflessione,approfondimento, di recupero di memoria collettiva, che si oppongano alla deprecabile abitudine della sistematica distruzione delle scelte dei governi passati (distruzione che produce solo appuntamenti per distruzioni future), ponendo invece le condizioni per riassumere (nel senso di assumere di nuovo) i processi di innovazione cominciati e, in parte, già realizzati. Anche l’appello al consenso – che fa rima con buonsenso – potrebbe essere condivisibile, se questo (il consenso, non il buonsenso) non venisse richiesto esente da riserve mentali,il che mi crea un po’ di disagio.Come pure, se in buona fede, il seguente passaggio: una riforma che sia per l'interesse di una sola parte, non importa quale, è una riforma che condanna la scuola ad una posizione subalterna e precaria, e brucia ogni possibilità di trasformarla in una comunità di pratica educativa per gli insegnanti, per i docenti e in ultima analisi per la società.
Il problema vero, quello che poi ha guidato, come dicevo all’inizio, il percorso della lettura,si è posto a questo punto:
l'Europa potrà avere un ruolo competitivo rispetto agli USA e alle altre grandi realtà mondiali solo perseguendo attivamente l’obiettivo che la UE si è posta a Lisbona e a Barcellona: essere la società della conoscenza più forte e competitiva del mondo entro il 2010. Questo obiettivo è realistico solo a condizione:
- di armonizzare in modo significativo i sistemi educativi dei principali paesi europei,
- di abbattere l’attuale spreco di risorse umane che in alcuni paesi (e in Italia!) è ancora fortissimo,
- di ancorare nel territorio, e nelle sue capacità di visione strategica basate sul rapporto fra le autonomie, la programmazione dell’offerta formativa, fermo restando il connettivo nazionale e un irrinunciabile indirizzo unitario.
Di queste tre condizioni solo l’ultima è stata introdotta nel sistema formativo italiano, con l'attuazione dell'autonomia, la riforma del titolo V della Costituzione e le legge n. 53/2003, anche se la normativa è ancora in divenire, e non chiarisce i compiti e i rapporti tra le diverse agenzie centrali e regionali, e non affronta problemi come quello della "partenza differenziata" e del supporto alle aree a diversa velocità di sviluppo
.

Di queste tre condizioni solo l’ultima è stata introdotta nel sistema formativo italiano”si dice, con una apoditticità non molto temperata da quell’anche se con con quel che segue.
Mi illudevo, lo confesso, che lo spirito del documento/progetto, proprio a partire dalle intenzioni dichiarate, contenesse una riflessione più approfondita sullo stato delle cose qui ed ora.
Immaginavo che, con buonsenso, venisse analizzata la situazione che si è venuta a creare non solo con la legge 53, ma anche con tutti gli altri provvedimenti, e che si intendesse costruire una proposta/percorso che tenesse conto di tutti i rilievi, le osservazioni, le – diciamolo pure senza paura – critiche che hanno accompagnato le azioni del ministro.
Con l’impazienza di chi legge un romanzo avvincente e vuole sapere subito come va a finire, sono passata dall’inizio alla conclusione.
Sono dieci punti. Ne riporto uno solo:
9) Perché la riforma finalmente decolli e possa svilupparsi occorre saperle garantire un quadro di consapevolezze e di consensi da parte sia degli "addetti ai lavori" che delle famiglie e della pubblica opinione in generale, che devono essere messi nelle condizioni di condividerne le profonde ragioni culturali.
Garantire come? Ribadendo, ossessivamente, sempre gli stessi concetti?
Ancora una volta – e sto pensando anche alle Famose Linee guida sulla formazione – l’ossessione del consenso.


Infine, un esperimento. Ho letto a qualcuno che si intende molto di scuola, ma che segue un po’ da lontano il dibattito sulle riforme, la citazione che apre le conclusioni, senza nominarne la fonte né dove l’avessi trovata:

Il riformatore avveduto ha ben presenti le abitudini e le idee consolidate della gente, e quando non può perseguire ciò che è giusto non disdegna di migliorare quel che è sbagliato (T.SOWELL, A conflict of visions, William Morrow, New York 1987, p.33)



Ho chiesto di aiutarmi a capire cosa significasse. Mi ha risposto con una domanda “Ma di chi è, della Moratti?”

PS Naturalmente ho letto anche gran parte del documento, che mi riservo di commentare più approfonditamente in seguito.





 Emanuela Cerutti    - 17-10-2003
Penso che la laicità sia difficile ospite in casa Italia, questione di mentalità o di comodo, di equilibri da non spezzare.
Più facilmente abbiamo forme che chiamerei di "laicismo", così come di "continuismo": pasticciate insomma, dipendenti forse da convinzioni fluttuanti.
Penso in effetti che il "continuismo" sia una forma degenerata di quella "continuità" che potrebbe dare armonia ai percorsi storici e che non preclude il cambiamento.
La grossa responsabilità credo sia fare del "bipartigianismo" uno strumento per non affrontare i reali problemi, nella fattispecie della scuola, stendendo un documento che parrebbe non essersi accorto dell'anno passato, senza nessi concreti insomma, come se il dire stesse là ed il fare qua.
Quindi per non cambiare.

Certo, loro per lo meno ci hanno provato, ed essendo gente che conta magari qualcosa otterranno: se non altro il nulla di fatto.
Perchè la scuola non sia qualcosa di neutrale, cioè inutile e semplicemente palliativo, quando non strumentale al potere che per definizione conserva, credo che occorra far seguire atti alle parole, mettere in campo un contropotere che è quello della base che vive e sperimenta sulla sua pelle le contraddizioni, cercando contatti e modi per cambiare le cose che non vanno, i soldi che non ci sono, le risorse che mancano, le divisioni che si creano, la noncultura che permane, i revisionismi che mutilano la storia e così via...
Stendere un progetto alternativo, si diceva una volta anche nel Didaweb, un progetto attorno al quale sviluppare idee e modelli applicabili. Ma chi lo vuole davvero?

I dieci punti finali del buonsenso mi hanno per contrasto ricordato le 10 tesi di De Mauro: riporto entrambi i pezzi anche se un pò lunghi, per dare l'idea di cosa vuol dire secondo me parlare senza dire nulla e parlare per cercare di cambiare.


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BUONSENSO

1.
Per un paese civile che intenda tenere il passo con lo sviluppo non solo economico è di vitale importanza / condizione irrinunciabile disporre di un sistema formativo in grado di rispondere alla domanda di formazione delle persone e della società civile nelle sue varie componenti, dalle imprese al sistema politico, dalle comunità locali alle famiglie;
2. Il sistema educativo di istruzione e formazione in Italia è quantomeno discontinuo sia nelle sue forme organizzative che per la sua qualità, ed ha bisogno di essere riformato in modo globale, rispettando i valori della tradizione ma con una chiara consapevolezza di quanto la società sia cambiata, esprimendo così una diversa domanda di formazione;
3. I governi che si sono succeduti almeno nell'arco delle ultime due legislature hanno mostrato di esserne consapevoli, ed hanno avviato una politica di riforme, che non è stata per il momento completata. Punti acquisiti sono l'autonomia delle unità scolastiche e l'attribuzione di maggiori poteri nel campo dell'istruzione alle Regioni con la modifica dell'art.117 della Costituzione e la rinnovata considerazione per il sistema dell'istruzione e formazione professionale;
4. Sulla scorta dell'esperienza passata, e delle nostre personali convinzioni, formuliamo l'ipotesi che sia necessario individuare dei punti che sono di interesse del paese in quanto tale e non di una o dell'altra maggioranza. Su tali punti è opportuno, per il bene comune dei giovani, giungere ad un accordo di massima che valga fino all'attuazione competa della riforma, - fatte salve le indicazioni provenienti dalla sperimentazione - anche nel caso di un'alternanza delle parti politiche al governo
5. Il sistema educativo di istruzione e formazione che emerge da questa ipotesi di accordo non è un sistema mediocre, su cui c'è accordo perché non scontenta nessuna, ma è anzi un sistema di qualità diffusa, su cui c'è accordo perché punta ad un miglioramento continuo dei processi educativi e formativi, garantendo sia il successo formativo nelle forme più adatta a ciascuna persona, sia l'eccellenza per i migliori, grazie alla valorizzazione e alla pari dignità dei diversi percorsi, che non si ottiene abbassando demagogicamente la difficoltà dei percorsi tradizionali, ma garantendo la qualità nella diversità;
6. La riforma che può dare vita a un sistema di qualità è necessariamente una riforma in continua ma non immemore trasformazione, capace di sviluppare i valori della tradizione e di accogliere i suggerimenti che vengono da una scuola che sa creare cultura su se stessa, ma anche di far proprie le indicazioni che vengono dal sistema produttivo e dalla società civile: una scuola in cui l'autonomia non è confuso e velleitario nuovismo, ma esercizio consapevole della responsabilità educativa, e la partecipazione non è una delega rassegnata o disinteressata, ma valorizzazione delle potenzialità educative delle famiglie, delle imprese, delle comunità locali.
7. Il compito di chiunque si interessi di scuola, negli ambiti in cui può essere ascoltato, è quello di sottolineare instancabilmente e - speriamo - non inutilmente che una società che non si occupa della crescita pienamente umana dei suoi giovani membri non solo non potrà mai essere civile, ma proprio per questo non sarà mai nemmeno ricca, ed è compito primario dei decisori politici garantire le risorse e le condizioni per cui questa crescita possa avvenire, nella scuola e fuori della scuola;
8. L'intero discorso della riforma non può avvenire senza tenere presenti i recenti sviluppi della normativa costituzionale sull'attribuzione di poteri alle regioni, che dovrà essere definito non appena la normativa sarà stata completata.
9. Perché la riforma finalmente decolli e possa svilupparsi occorre saperle garantire un quadro di consapevolezze e di consensi da parte sia degli "addetti ai lavori" che delle famiglie e della pubblica opinione in generale, che devono essere messi nelle condizioni di condividerne le profonde ragioni culturali.
10. In un'opera di convincimento reciproco, fra una società che deve cambiare il suo modo di leggere la scuola e una scuola che deve accogliere le esigenze di innovazione culturale che emergono dal mondo circostante, un ruolo significativo viene attribuito alle tecnologie, da non intendersi solo come risorse tramite cui aggiornare il patrimonio delle attrezzature didattiche, ma come stimolo ad ampliare e differenziare le prospettive sul sapere e come occasione per ripensare i meccanismi dell'organizzazione del lavoro dentro la scuola.

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APPUNTI DI ALCUNE TESI PER LE SCUOLE DI SOCIETÀ SOSTANZIALMENTE DEMOCRATICHE
di Tullio De Mauro

1) La scuola opera e se ne intende pienamente l'opera solo guardandola nel suo rapporto di dare e avere reciproco con tutta la cultura, e non soltanto la cultura intellettuale, scientifico-letteraria, ma la cultura complessiva, antropologica, di una popolazione.
2) Se si considera la scuola nell'orizzonte della cultura, appare più chiaro che i problemi di istruzione e formazione di un particolare Paese si vedono e si pongono e devono risolversi fuori di un'ottica solo sincronica e/o solo nazionale. Si vedono, si pongono e si risolvono là dove si collocano: in rapporto a una più o meno lunga tradizione storico-culturale e nel mutuo scambio con altre culture.
3) Istruzione e formazione hanno un costo. Hanno anche una redditività economica perfino se ci si restringe al solo Pil e al solo reddito individuale. La redditività emerge tanto più se, accettando le critiche alla restrizione, si guarda (come parecchi economisti suggeriscono: in Italia Sylos-Labini) alle capacità produttive individuali e collettive e alle capacità di scelte autonome, individuali e sociali.
4) Scuola e formazione restituiscono il loro costo fornendo, quando le forniscono, quelle "idee" che "sono a capo della produzione" (Cattaneo) e dunque impegnandosi nella vitalizzazione di tutta la cultura di una popolazione, garantendone il coerente rapporto con una tradizione identitaria e con l'accesso a nuovi saperi e antichi e nuovi life skills.
5) Allo sviluppo di scuola e formazione come luoghi di potenziamento della cultura individuale e collettiva, portano anche (a) l'esigenza della flessibilità delle produzioni e dei lavori retribuiti e (b) l'esigenza di fare fronte alle conseguenze della fragilità dei sistemi complessi.
6) Allo stesso luogo riconduce anche l'esigenza di non lasciare crescere, ma di fronteggiare e, se possibile, azzerare le divaricazioni che l'attuale modo di sviluppo crea sia all'interno di ciascuna area culturale e nazionale, sia tra aree diverse.
7) Da 4-6 deriva, forse prima, indipendentemente da ogni scelta ideologica, la necessità di rafforzare scuole e luoghi della formazione rendendole operanti non solo verso le fasce giovani, ma verso tutte intere le popolazioni attraverso il longlife learning.
8) Se la scelta è quella di una organizzazione democratica non solo formale (diritto di voto), ma sostanziale (pari opportunità nell'accesso alle risorse economiche e culturali), la necessità di 7 non è più la conseguenza che una destra saggiamente conservatrice, non fascisteggiante, deve subire con rassegnazione per sopravvivere, ma è, dovrebbe essere, l'obiettivo centrale di un progetto politico democratico, che nel raggiungimento di quell'obiettivo trova la misura della sua efficacia.
9) Coloro che guidano i processi d'apprendimento e formazione, gli insegnanti, devono rendersi consapevoli di non essere impiegati degli Stati o, peggio, dipendenti di imprese private, ma pubblici professionisti dello sviluppo delle capacità culturali e produttive, individuali e collettive: devono formarsi e trasformarsi in funzione di ciò e avere un soldo (la parola salario essendo sdegnata da taluni) pari alla loro decisiva funzione.
10) Forse anche a chi protegge (fascisticamente o no) differenze e alti redditi, ai conservatori e alle destre, e certamente ben più a chi intenda lavorare per una democrazia sostanziale, toccano il compito e l'obbligo di progettare e costruire quanto occorre per realizzare gli obiettivi 8 e 9 non solo nel Nord del mondo e nelle aree di più consistente Pil, ma in tutto il mondo, per tutte e tutti, no lesser than one. Riuscire a esprimere gruppi dirigenti in grado di rispettare e, prima ancora, di intendere questo compito e obbligo, è una questione di sopravvivenza che tocca tutte e tutti, no lesser than one. Ovvero, per chi trovi più chiaro il titolo originale cinese del film di Zhang Yimou, Yi ge dou bu neng shao.

 Anna Pizzuti    - 21-10-2003
Se c’erano dei dubbi sul senso, sull’utilità di continuare ad intervenire sul documento del buonsneso, essi vengono fugati dagli orientamenti emersi dal convegno della fondazione Italianieuropei e l’intervento di D’Alema su come l’Ulivo, in caso di vittoria alle elezioni dovrebbe riprendere il discorso sulla scuola. Anzi, proprio questi orientamenti spingono quelli che ancora ci credono, ad impegnarsi ancora di più a cercare, ciascuno secondo le proprie forze, di fare chiarezza.
E di segnare la differenza.
Con un obiettivo ben preciso: riprendere, raccogliendo il suggerimento di Emanuela, i dieci punti del Patto per la scuola, per rispondere a tutti quelli che chiedono proposte alternative, ma anche per ricordarli a tutti quelli che, a nome della sinistra, parlano di scuola.

Una questione di prospettiva

Quando in un documento che si presenta con le intenzioni di voler trovare un punto di incontro tra le opposte posizioni sulla riforma della scuola, in nome di quello che definiscono bene comune si legge che c’è bisogno di riflessione,approfondimento, di recupero di memoria collettiva, che si oppongano alla deprecabile abitudine della sistematica distruzione delle scelte dei governi passati (distruzione che produce solo appuntamenti per distruzioni future), ponendo invece le condizioni per riassumere (nel senso di assumere di nuovo) i processi di innovazione cominciati e, in parte, già realizzati , coloro che hanno ben presente la rottura con il sistema dei diritti costituzionali prefigurata dalla legge 53, sono portati a credere che il passaggio manifesti l’impegno ad eliminarle, queste rotture, o almeno a limitarne i danni.
Quando però, si scopre che questa la prospettiva non coincide affatto con quella degli estensori del documento e che, anzi, essi la inquadrerebbero nel complesso delle rigidità che, secondo loro, impediscono all’innovazione di procedere, l’ impressione iniziale viene, naturalmente, modificata. E di molto.

Il lessico del buonsenso

E’ stato proprio l’uso del termine “rigidità” a farmi venire in mente di esplorare – almeno fino al cap.2 punto 5 - il lessico del documento e di estrarne alcuni esempi.
Un tentativo di lexicon, nato dal perdurare dell’impressione di “appropriazione indebita” di termini e concetti avvertita fin dall’inizio delle vicende della riforma, e da un uso quantomeno spregiudicato degli stessi.
Questo anche per dare maggiore sostanza a quello che sostenevo nel mio precedente intervento, cioè che le intenzioni del gruppo –a mio avviso - sono viziate all’origine da pre o post/giudizi troppo legati allo spirito con il quale la riforma Moratti è nata.

Innanzitutto una visione completamente negativa, distruttiva, della condizione della scuola italiana. Che bene non stava, sicuramente, ma che pure dei grandi passi li aveva fatti. Ben prima ed anche oltre il riformismo berlingueriano.

Successivamente, una interpretazione molto partisan delle relazioni intercorrenti tra scuola e il cosiddetto mondo esterno.
Se si parte dalla constatazione che uno dei due soggetti dello scambio – la scuola – è obsoleto, cadente ed inadeguato, è naturale che l’altro soggetto o gli altri soggetti – il mondo del lavoro, la famiglia, la società dell’informazione – facciano la parte del soggetto forte, quello alle cui regole, al cui linguaggio che solo linguaggio non è – ci si deve adeguare.

Che la scuola debba avere natura evolutiva in relazione ai mutamenti sociali è una ovvietà che non vale la pena di discutere.
Ma che la scuola – che della società è parte e non potrebbe trovarsi in un mondo altro, nemmeno se lo volesse – debba disperdere natura specifica dl proprio ruolo e dei propri compiti, fino a convincersi di non averne mai avuti o al più debba porsi come obiettivo un adeguamento che sa tanto di subordinazione, a modelli sociali (la famiglia, ad esempio) che stanno diventando sempre più labili ed indefiniti da una parte e forti ed invadenti (vedi le ultime prese di posizione di Confindustria) dall’altra, mi sembra un’operazione pericolosissima, totalmente distruttiva.
Non recuperata, sempre a mio avviso, nemmeno quando l’ identità della scuola viene individuata nella sua capacità di organizzare e dare senso a ciò che dall’esterno proviene.

Non spetta a me pronunciarmi sul livello di buonafede degli estensori del documento.
Solo una domanda vorrei porre: sulla scelta dei tempi.
Che la riforma della scuola introdotta da questo governo sarebbe stata questa e non altra, era intuibile già dall’inizio. Mi chiedo quindi, perché proprio ora questo tentativo di percorso comune
In qualche passaggio del testo è detto che si spera di incidere sui decreti. In che modo, mi chiedo, visto che sui principi generali mi sembra ci sia un accordo dal quale difficilmente potrebbero scaturire interventi a modifica.

Non darò un ordine alfabetico, ma rispetterò la posizione che i termini hanno nel documento.