La cattiva coscienza dell'Europa - Intervista inedita a Emmanuel Lévinas
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La cattiva coscienza dell'Europa


Emmanuel Lévinas
La biografia di Emmanuel Lévinas

Intervista inedita a Emmanuel Lévinas

di Renato Parascandolo

 







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M. Lévinas, Lei ha affermato che l'Europa del XX secolo, l'Europa che ha provocato due guerre mondiali e terribili genocidi, ha una cattiva coscienza. Che cosa intendeva dire?


Io penso che il XX secolo in cui siamo entrati noi altri Europei con la più grande fiducia, come nel secolo in cui lo spirito europeo avrebbe mostrato tutto il suo splendore, è stato invece il secolo di due guerre mondiali con tutto ciò che ha significato la Seconda al di là delle cause abituali della guerra; è stato il secolo in cui abbiamo visto i campi, l'oppressione, lo sterminio di intere popolazioni e, al di sopra di tutto, quello che è stato chiamato Olocausto e gli altri genocidi che lo hanno accompagnato. E in seguito alla guerra abbiamo avuto la disoccupazione e viviamo, adesso, qualcosa che sarebbe apparso incredibile nel tempo in cui gli uomini soffrivano di essere schiavi e di lavorare senza pausa, mentre conoscono ormai una sofferenza quasi più grande, quella di non poter lavorare. Penso anche all'apparizione di tutta la miseria del Terzo e del Quarto Mondo, perché c'è un Quarto Mondo.


Qual è, in tutto questo, la responsabilità dell'Europa?


E allora - mi lasci continuare - questo succede nel momento stesso in cui abbiamo preso coscienza, nel corso di questo secolo, di tutto lo splendore della ragione, di tutte le innovazioni tecniche. Ma la cosa più terribile è che in questa cattiva coscienza dell'Europa non c'è soltanto la cattiva coscienza del secolo: attraverso la cattiva coscienza del secolo, tutta la nostra storia prende un altro senso. Tutta la nostra storia, dopo i messaggi che l'hanno aperta, il messaggio greco e il messaggio religioso, è una storia sanguinosa e tutto questo sangue prende un altro senso alla luce del nostro secolo. E tutto ciò accompagna i brillanti risultati dell'intelligenza teorica e del progresso tecnico, che di per sé non mi sgomentano e il cui valore ho sempre riconosciuto. Penso all'impresa clamorosa del primo uomo che ha messo piede sulla luna (sono rimasto molto impressionato da quella notte) - e a tutte le altre cose di cui ho parlato. Perché c'è una cattiva coscienza, come se la ragione fosse stata usata male, come se la ragione avesse contribuito a questa storia sanguinosa, determinando il crollo di molti valori. Ho parlato di tutto questo senza menzionare la minaccia di cui tutti parlano, la minaccia di guerre atomiche, di guerre nucleari, che noi dimentichiamo continuamente nel corso delle nostre occupazioni quotidiane, senza che, per questo, la minaccia diminuisca. Non è affatto la minaccia dell'esplosione finale che mi sembra apocalittica: credo che tutto il secolo sia apocalittico. Io non ho mai concepito l'apocalisse sotto la forma di un'esplosione, per così dire, spettacolare, ma sotto la forma di una vita che si svolge, che sembra avere un senso e che bruscamente è interrotta dalla negazione di ogni senso. Ho parlato dei campi perché l'hitlerismo, il fascismo e lo stalinismo non possono essere dimenticati.


E adesso vediamo l'Europa cercare altrove, presso altre civiltà, il senso che ha perduto...


Questa è una testimonianza della sua cattiva coscienza. È ciò che si chiama con umiltà la non centralità dell'Europa e che si traduce in interesse per tutte le civiltà, che hanno molto da insegnare e che potranno insegnare molto all'Europa, alla nostra Europa positiva, all'Europa della ragione e dell'ordine, e la cui vita, le cui forme culturali ci sono proposte come modelli.
La non centralità dell'Europa è una tesi che ci viene proposta nelle più grandi Università europee, la relatività della nostra civiltà è insegnata dalle più alte cattedre. Cattiva coscienza significa che l'Europa denuncia quello che nella sua concezione costituiva e garantiva la pace.
L'Europa vedeva sempre l'umanità nel suo isolamento, nell'isolamento dell'individuo, nell'ostilità degli individui gli uni verso gli altri; e ha scoperto che, con la sua saggezza, con la filosofia e con tutte le altre scienze, con la razionalità del suo sapere, gli individui, a causa della loro ostilità, non ritroveranno la pace. E allora si scopre che questa civiltà è venuta meno alla sua vocazione.
La prospettiva di arrivare alla pace, alla pace della coscienza, attraverso il sapere, è in crisi e perciò, invece della pace, abbiamo una coscienza inquieta.


Professor Lévinas, secondo una efficace espressione di Gadamer, che parla del "pathos del disincanto", c'è una specie di cinismo, di scetticismo, diffuso soprattutto tra i giovani dell'Occidente. Chi guarda la televisione si aspetta da un filosofo una parola rassicurante o almeno qualche spiegazione. Cosa può dire ai giovani contro il "pathos del disincanto"?

Sarei felice di poter consolare, ma non è possibile. Io penso che il "disincanto", come lo chiama Gadamer, o la "cattiva coscienza", come la chiamo io, sia soprattutto appannaggio della gioventù, che non si sente troppo impegnata, mentre è la vecchia generazione a sentire, ad essersi assunta l'antica fierezza dell'Europa. Non so che cosa dire ai giovani. Forse bisogna pensare a una riconsiderazione della stessa antropologia, cioè della struttura, dell'essenza dell'umano. Non so se l'educazione vi arriverà, ma forse, da certe esperienze la gioventù ritroverà - me lo auguro - la giusta misura di quella che mi sembra essere una revisione possibile. Mi domando se sia giusto definire l'uomo proprio mediante la potenza del sapere. Questo non comporta che si debba raccomandare la stupidità o che l'intelligenza non sia più un valore; bisogna piuttosto richiamare l'attenzione sulla necessità di definire l'umanità altrimenti che in questi due modi: come l'essere infinitamente intelligente, cioè che può dominare il mondo e, in secondo luogo, come l'essere che deve essere a qualsiasi costo libero, libero quasi di puro libero arbitrio - non denuncio, beninteso, la libertà, ma dico: libero in un modo incontrollabile, libero di fare quello che vuole, di non essere limitato da nulla...

Libertà per la libertà?

Libertà per la libertà, libertà come l'elemento che definisce l'uomo. Non denuncio né la libertà né l'intelligenza, ma mi domando se la definizione stessa dell'uomo non debba essere attinta da un altro ordine. Mi domando, in particolare, se la relazione di un essere umano all'altro essere umano, la relazione da uomo a uomo invece di essere presentata - così si insegna - come una conseguenza remota dell'intelligenza, come una conseguenza della libertà, non debba essere colta nella definizione stessa dell'uomo, nella vocazione stessa dell'uomo. Con vocazione dell'uomo intendo che l'uomo riconosce la sua dignità e il suo posto nell'essere, nella possibilità di uscire dalla necessità e dal compiacimento che ha nell'esistere, usando l'intelligenza e la libertà come le sole forme in cui egli può affermarsi.
Su questo bisogna richiamare l'attenzione della gioventù (non so con quali mezzi, né attraverso quale transizione), insistendo piuttosto sul fatto che un essere può invece uscire dalla sua autoaffermazione per occuparsi, prima di tutto, dell'altro essere umano e che questo è stato l'avvento stesso dell'umanità, è l'essenza, è la forma stessa dell'umanità.
Bisogna insegnare tutto ciò, richiamando l'attenzione sui dati immediati del comportamento umano, insistendo sul fatto che da principio l'uomo prende coscienza di se stesso in una elementare bontà riguardo all'altro essere, in una bontà che persiste, che trionfa di molte cadute, che sussiste nelle condizioni più atroci. E questo è un paradosso solo in rapporto all'antropologia corrente, mentre, al contrario, è la struttura umana iniziale. E se permette mi riferisco al mio libro preferito - non so se lo conosce - il libro di Vasilij Grossman, scritto in Unione Sovietica, sotto Stalin, sequestrato laggiù e introdotto clandestinamente in Europa, il cui contenuto consiste nella descrizione di un ordine che voleva organizzare la società umana nella libertà, con il dominio intelligente sulla natura ed è finito nell'infamia dei campi, che fossero hitleriani o staliniani - non voglio dire sovietici, perché su questo mi riservo il giudizio. Mentre Grossman descrive quel mondo con la crudezza di un autentico reporter, vediamo che, attraverso quelle atrocità, si producono degli atti di bontà, da uomo a uomo, nelle circostanze più drammatiche. L'autore del libro ha realizzato una sapiente composizione, a doppio fondo, e senza fare prediche inutili, ma con una certa disperazione, si chiede se non sia questa l'umanità stessa dell'uomo - usa il termine di "antropologia" - se non si debba cercare qui la definizione stessa dell'uomo.


Lei parla di bontà, di amore per l'altro, ma in nome della bontà, si sa che sono stati commessi molti delitti, i buoni sentimenti hanno provocato spesso dei disastri.


Bisogna vedere come la si intende...Se non siamo capaci di vedere, l'autore non ci parla. Grossman dice che il bene non ha vinto il male, ma il male non ha vinto la bontà: fa una differenza tra bene e bontà, tra un ideale di bene prescritto, che diventa ideologia, che diventa movimento politico e poi istituzione e questa bontà iniziale, debole, senza difesa, senza pensiero, in cui non c'è ancora una ideologia della bontà. Il termine "bontà" ci disarma, è un modo per esprimere il fatto che l'altro uomo non mi è indifferente, l'altro uomo mi concerne, mi riguarda nei due sensi della parola "riguardare". In francese si dice che "mi riguarda" qualcosa di cui mi occupo, ma regarder significa anche "guardare in faccia" qualcosa, per prenderla in considerazione. Io chiamo appunto questa apparizione dell'altro "il volto umano". Il volto umano è la testimonianza non del trionfo istituzionale del bene, ma - indubbiamente - della possibilità del bene. Tutto il resto, cioè la saggezza, l'organizzazione dell'umanità, l'organizzazione delle istituzioni, deve sempre ricordare il volto degli uomini, che spariscono spesso in questi movimenti organizzativi, amministrativi, essi stessi indispensabili, in questa giustizia che pure è essa stessa indispensabile per esistere senza predilezioni e senza pregiudizi, ma in cui il richiamo al volto umano è essenziale. Nei miei modesti scritti è questo che sostengo.


Qual è la differenza tra la Sua concezione della relazione dell'uomo con l'altro uomo e la dialettica hegeliana di signoria e servitù dell'autocoscienza, fondata sul riconoscimento di sé attraverso l'altro?


Lei mi vuol far entrare in polemica con gli hegeliani che sono veramente molto forti e intervengono sempre trionfalmente nelle discussioni, perché hanno una teoria per tutto e anche per il sommo bene, che chiamano "identità dell'identico e del non identico". Ma io mi domando se ciò che le guerre ci hanno insegnato, ciò che ci ha insegnato il XX secolo, ciò che ci ha insegnato la visione della storia come storia sanguinosa, non sia l'importanza di questa sofferenza immediata, anche se da un punto di vista hegeliano non può essere razionale. È qualcosa di pericoloso per la priorità del razionale [razionalità del reale, n. d. t.], è una follia nell'essere, è la follia iniziale, che un ente che si occupa soltanto di sé stesso si metta ad occuparsi di qualcun altro. Non è una confutazione dell'hegelismo: l'hegelismo non si può confutare. Ma, se si vuole, la crisi dell'idealismo in seguito alle due Guerre mondiali, diventa sempre più evidente: questo risponderei al trionfalismo hegeliano. E vorrei dire una cosa che ho raccontato altrove (gli hegeliani l'hanno dimenticata: anche questo fa parte del disincanto del mondo). Nella Bibbia c'è una scena in cui Giacobbe deve incontrare suo fratello Esaù che teme assai, perché sono in lite, dopo che ha preso la benedizione al suo posto. Dice il testo che Giacobbe ebbe paura e angoscia. Paura e angoscia non sono la stessa cosa. I commenti che ascolto, che a volte anche leggo - la gente pensa che io non legga altro, ma io non leggo solo questo, leggo, oltre Rousseau, anche questo - dicono che ebbe paura della guerra e si angosciò per dover uccidere.
Lei polemizza con gli hegeliani, ma anche con Heidegger, per il suo essere-per-la-morte, ed anche con gli altri esistenzialisti. In un certo senso, Lei sembra più ottimista.
Per il momento ho solo questa debole bontà, vinta, debole, ma immortale. Non è facile - è terribile - lasciare un mondo che è alla vigilia di un inferno - che Dio ci protegga - un mondo che in ogni caso ha conosciuto i prodromi dell'inferno, affidandolo a qualche giusto, a qualche santo, che farebbe la sua apparizione nell'umanità, o a qualche atto giusto o atto santo che di tanto in tanto si potrebbe verificare nel privato. Nel libro di cui parlo Grossman, come ogni grande autore, si contraddice, si smentisce - la realtà non si può esprimere semplicemente - e dice: è come voler spegnere l'incendio con un clistere.



Lei parla della bontà come se non si trattasse di un valore, ma come di qualcosa di naturale, di un istinto...


Lei vuole estinguere il paradosso della bontà chiamandola istinto. Poco importa il modo in cui si manifesta. Nell'istinto c'è già la parola di Dio, perché chiamo proprio così questa possibilità per l'uomo di essere buono verso l'altro uomo o piuttosto la possibilità di leggere sul volto dell'altro uomo questo richiamo, che è una vocazione, un appello alla bontà. Per me questa è la parola di Dio. Dico anzi che è il momento in cui la nozione di Dio viene allo spirito, perché bisogna domandarsi di dove viene, in quali circostanze concrete una cosa, una parola così strana, che d'altronde si sente dappertutto, viene allo spirito. Io la situo precisamente nel momento in cui guardo il volto dell'altro uomo.


Lei ha nominato Dio. Io le chiedo...


Non abbia paura...


crede che sia possibile, che possa esistere un'etica in senso forte senza Dio?


Io trovo Dio nell'etica, non ho alcuna altra idea di Dio valida al di fuori del folklore. Lo trovo nel senso di qualcosa che interrompe bruscamente il corso forte delle cose, nel fatto che uno si occupi di un altro, dell'assolutamente altro, perché è il solo momento in cui c'è un'alterità totale, un'alterità che non rientra nell'ordine che io controllo, che non diventa mia. Anche il mio schiavo sente, in quanto uomo, il bisogno di fuggire la schiavitù e perciò è assolutamente altro. Trovo che nel momento in cui sento questo come ordine, come ordine muto - la prima parola che si sente è questa parola muta dell'ordine, del comandamento - non dico che parlo con Dio, ma ho sentito la più forte delle parole, la prima...



Può esistere una morale conforme alla religione, senza il Dio delle religioni istituite, senza il Dio delle chiese, può esistere una morale senza trascendenza, una morale puramente immanente?


No, no, qui l'evento stesso è un evento di bontà, è la trascendenza. Penso al momento della Rivoluzione francese e al momento della Rivoluzione russa. La Rivoluzione russa del 1917 è un evento di speranza, di abnegazione, ma dal momento che si organizza senza riguardo per l'individuo, dal momento che si crea un'amministrazione di massa, un'amministrazione di stato, lo stato diventa al tempo stesso la fonte delle istituzioni, presso cui si può trovare giustizia, ma anche l'ordine in cui l'individuo deve eclissarsi in modo totale, eclissarsi o perire. Lo stato, come organizzazione di questi momenti trascendenti, diventa strumento di mobilitazione e finisce nei campi di sterminio. Dico che questa attenzione prestata a ciò che chiamo l'"unicità dell'altro uomo", il rispetto nell'altro uomo della sua unicità, cioè la considerazione dell'altro come fondamentalmente insostituibile, è sempre un fatto di amore. Amare è appunto considerare l'altro come insostituibile, come unico. Forse una maggiore attenzione a questo fatto ci permetterebbe di apportare alla struttura dei nostri stati, che sono razionali [rationnels] o, meglio, conformi alla ragione [raisonnables], una riforma. Per fare un esempio concreto, ciò che occorre assolutamente negli stati "razionali" moderni sono, come si sa, delle associazioni che si occupino in particolare dei diritti dell'individuo, che noi chiamiamo "diritti dell'uomo". Ma io penso che i diritti dell'uomo siano una istituzione extra-politica, che deve sussistere nella società in modo del tutto indipendente dallo stato e dalle sue necessità. Questa era in altri tempi, se si vuole, la funzione del profeta, che veniva a proclamare al re il suo torto - non a lavorare clandestinamente contro il re, ma a dichiarargli ufficialmente il suo torto. Oggi non ci sono profeti: forse la profezia può essere sostituita da una più grande libertà lasciata agli scrittori. E infine penso che la più grande virtù della nostra società liberale - che è ancora la migliore - sia la libertà di opinione, di parola, di espressione, come garanzia per la possibilità di una riparazione. È una modesta proposta. E come ultima cosa raccomando l'attenzione di ciascuno verso tutti, indipendentemente dall'organizzazione, che è sempre una amministrazione.



– In questo momento interviene il filosofo Adriaan Peperzak, presente al colloquio


Se posso sottolineare una cosa, vorrei dire che la bontà di cui parla il professor Lévinas, è anche umiltà, è una cosa chiamata da lui una “piccola bontà”. Per riprendere il termine di “disincanto”, che Lei ha usato, mi sembra che questo “disincanto”, in rapporto al sapere, alla tecnologia, alla morale europee, ha dapprima introdotto uno spirito ancora molto europeo, che si è incarnato in strategie politiche.
I giovani nelle Università hanno creduto di potersi politicizzare in un senso del tutto antipolitico, antimilitarista, anticolonialista, eccetera. Ora constato un secondo disincanto in rapporto appunto a questa politica di grande respiro che è ancora, a mio avviso, una specie di imperialismo, che si è servita di menzogne, di violenze e che non ha condotto, praticamente, a nulla.
Ciò che constato inoltre nell’insegnamento - anche se la mia esperienza è limitata, conosco però diversi paesi - è una grandissima disponibilità al raccoglimento e soprattutto sensibilità, nel senso appunto di un desiderio di bontà. Non dico che tutti praticano la bontà, ma che c’è un grande desiderio di tornare alle cose più profonde, più radicali, che sono piccole. Una prova di ciò la trovo nel fatto che quando insegno l’opera di Emmanuel Lévinas incontro un’attenzione estrema e una reale volontà di scoprire il senso di tutto ciò.


– Riprende la parola l'intervistatore


Vorrei sottolineare una cosa che Lei ha detto a proposito del mondo liberale. Ho l'impressione talvolta che il liberismo economico conduca a un relativismo assoluto.


Tutto si può comprare.


Sì, e vorrei sapere che cosa Lei pensa della impossibilità perfino di prendere in considerazione l'esistenza della verità, di una realtà vera.


Neanche per questo ho un rimedio. In fin dei conti io parlo sempre della "piccola libertà", della "piccola bontà", ma penso che una pluralità di opinioni vale più di una sola e che, di conseguenza ci sono, malgrado tutto, delle cose, o delle verità, come Lei dice, - io direi atti di benevolenza - che trovano subito i loro imitatori, gente pronta a condividerli. Non so se si può distruggere il disincanto, ma vorrei, innanzi tutto, impedire che esso venga costituito a ontologia ultima o a metafisica ultima, dicendo che sia proprio questa la verità delle verità...



Allora Lei crede che il problema della verità...


Questa "piccola bontà" comporta molto più di quello che si dice ai bambini quando li si educa, quando si raccomanda loro di essere buoni. Ci sono nei testi religiosi, nel contenuto etico dei testi religiosi, prospettive, che prolungano, che innalzano questa bontà. La bontà non è una cosa screditata. Lei mi ha chiesto se è possibile vivere senza trascendenza. Io dico di no. Lei mi chiede se è possibile vivere senza dogma. Rispondo: probabilmente. Ma la grande esperienza etica, depositata nella letteratura religiosa, non è ancora arrivata ad avere, nella formazione letteraria della nostra gioventù, l'importanza che le spetta. Quei testi non devono essere letti, alzando le spalle, come dei testi ingenui, che sono stati veri un tempo, come testimonianze del folklore, nell'ambito del folklore universale. Non sono folklore. Questa è la mia posizione rispetto alle tradizioni religiose propriamente dette.


Lei ha parlato nei suoi scritti del ruolo della poesia, dell'importanza della poesia come forma di dialogo.


Era un problema particolare, il problema di sapere se la riflessione sull'umano non distrugga sempre il contenuto dell'umano, quando in presenza di un testo, invece di guardare quello che dice il testo, si riflette sulle condizioni nelle quali è stato composto. Si può trovare allora la parte che ha avuto la grammatica, la parte che hanno avuto le vicissitudini personali del suo autore, la parte che ha avuto, per esempio, la deportazione babilonese nella composizione della Bibbia - tutto quello che le scienze umane ci insegnano. Io dico invece che bisogna ascoltare il testo, e che questa regola è assoluta, è la condizione stessa per comprendere la poesia. Prima di analizzare la composizione del poema, per individuare le contingenze e le regole che vi hanno presieduto, le influenze che ha subito, bisogna in primo luogo ascoltare il testo stesso. Ho definito la poesia come il dire umano in cui la riflessione in quel senso è vietata.


Le ho fatto questa domanda perché penso che dopo la Seconda Guerra Mondiale la poesia è morta - più di tutte le altre arti. Non ci sono più poeti. Che cosa vuol dire?


Non so. Ma c'è una verità che risale ai Greci, a Platone: una volta quando la quercia parlava, si ascoltava quello che diceva la quercia; ora se un uomo parla ci si chiede da dove viene...
Le vorrei porre un'ultima domanda sulla responsabilità. Secondo Lei, gli uomini che hanno una responsabilità pubblica, che hanno il potere di decidere anche per gli altri uomini, hanno la stessa responsabilità di quelli che possono decidere solo per se stessi? Cioè la responsabilità non è forse il lusso di alcuni...?
È risaputo che talvolta la responsabilità pubblica è schiacciante. È precisamente il caso in cui la politica, anche nel senso buono del termine, falsa la responsabilità, perché ci determina a punti di vista che forse sono giusti, ma in cui l'unicità di colui di cui si è responsabili non è rispettata. La responsabilità di cui parlo è assai più paradossale. Il punto su cui ritorno è che in quanto Lei risponde, risponde sempre di un altro uomo. Lei può, noi tutti possiamo lasciar correre, possiamo ignorare, ma in realtà sappiamo che siamo responsabili anche di ciò che è successo poco fa, di colui che è passato vicino a noi poco fa. La responsabilità è questo. Noi siamo responsabili, come se fossimo colpevoli di fronte a tutti gli altri. Cito a questo proposito per l'ennesima volta il versetto, vorrei dire, (perché nei grandi scrittori le proposizioni sono assai spesso versetti così come i versetti sono le proposizioni dei grandi autori), la frase di Dostojevskij: siamo tutti colpevoli - non responsabili, colpevoli - di tutto verso tutti ed io più di tutti gli altri. È questa la famosa non reciprocità delle coscienze. Non arrivo mai a sottrarmi alla posizione di essere io il più responsabile di tutti.


(traduzione di Francesco Rizzuto)

http://www.educational.rai.it/mat/dr/inlevina.asp

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