I bambini italiani nella Shoah
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I bambini italiani nella Shoah


Sara Valentina Di Palma


Italian children in the Shoah


Abstract: After a general introduction on the peculiar characteristics of the fascist persecution, figures are briefly given of, referred to the Jewish deportation from Italy in comparison with other European countries, underlining how a more detailed and effective help was provided, in other countries at least for the children.
A reconstruction of the specific modalities of the discrimination and racial persecution as well as of the perceptions engraved in the infantile psychology mind is obtained through the unpublished interviews to several persons who survived persecution and deportation and were very young children at the time of those tragic events.
During the interviews it could be observed how the witnesses generally consider the narration of their vicissitudes concluded with the beginning of the post-war period; only under specific request do they face themes linked to their return and to the difficulties of the reconstruction, while the point of the dialog on the Shoah with their children seems to be a still too painful topic to the tackled.
It emerges how the right to remembrance imposes itself against the long desired silence of society, above all with respect of infancy, in the wrong belief that children are too young to have memories of their own, while the same experiences lived by children during the persecution imply an accelerated psychological maturity, if compared to the evolution of their contemporaries under normal situations, which represent a further factor in support of the elaboration of a precise and conscious memory.





La persecuzione antisemita in Italia


In Italia, la Shoah assume caratteristiche diverse dagli altri Paesi europei, dato che, sino agli anni Trenta, manca un antisemitismo sia istituzionale sia diffuso e lo stesso Partito Nazionale Fascista conta tra gli iscritti numerosi ebrei. Anche dopo l’avvento di Hitler al potere, nel 1933, Mussolini si dimostra ambiguo nei confronti degli ebrei, accogliendo i profughi dalla Germania e tuttavia permettendo una propaganda antisemita che si intensifica nella seconda metà degli anni Trenta. A favorirla sono  il   peso crescente della destra fascista filotedesca e antisemita – si pensi a Gli ebrei in Italia di Paolo Orano  e all’inizio di un dibattito sul problema ebraico in Italia e sulla questione della fedeltà ebraica alla patria (1) -, e l’affermarsi della teoria razziale della distinzione-separazione tra italiani e popoli inferiori.


Ancora fino al 1938, Mussolini  continua a rassicurare gli ebrei italiani sulla diversità della politica razziale fascista rispetto a quella attuata da Hitler (2). Allo stesso tempo, nell’estate del 1938, il Governo fascista, su indicazioni di Mussolini, predispone alcuni strumenti per concretare la persecuzione giuridica e dare il via all’antisemitismo di Stato: si procede all’identificazione e al censimento delle persone oggetto della campagna antisemita in base a elenchi richiesti alle comunità israelitiche e ad autodenunce di appartenenza razziale; vengono approntate le strutture burocratiche atte all’esecuzione delle future disposizioni razziali; con l’emanazione dei primi decreti contro nuove assunzioni di ebrei nelle cariche pubbliche e l’attuazione di alcuni licenziamenti, è infine stabilita l’arianizzazione della società (3). Il censimento della popolazione ebraica stima la presenza in Italia di 58.412 persone – compresi gli stranieri – tra cui 11.756 non sono di religione ebraica ma figurano ebree su base razziale(4).


Nel settembre 1938, sono varati i provvedimenti legislativi veri e propri con numerosi decreti che stabiliscono l’espulsione dalle scuole, l’allontanamento dall’Italia degli ebrei stranieri ivi residenti dopo il 1919, i criteri razziali e religiosi di qualificazione dell’appartenenza alla razza ebraica, infine la difesa della razza italiana – con il definitivo allontanamento della popolazione israelita dalla vita pubblica e con l’adozione di misure persecutorie nella sfera economica, sociale e culturale. Si tratta della "persecuzione dei diritti”, così definita per differenziarla dalla successiva persecuzione fisica ovvero la cosiddetta “persecuzione delle vite”, intrapresa nel 1943 nel centro-nord della penisola, dove gli occupanti tedeschi e la neonata Repubblica Sociale Italiana predispongono l’estensione della soluzione finale all’Italia (5).


Le leggi razziali del 1938 colgono di sorpresa la popolazione ebraica, da tempo sicura di uno Stato cui ha sempre mostrato fedeltà e dedizione sentendosi prima italiana e poi ebrea – come dimostra la partecipazione di molti ebrei al fascismo – e segnano una cesura nei rapporti tra ebrei e Stato, così da  configurarsi come un vero e proprio evento traumatico anche nella memoria collettiva.


Come per la definizione della politica antisemita, anche per quanto concerne la “persecuzione delle vite” l’Italia assume caratteristiche proprie. In primo luogo, la soluzione finale riguarda sin dal principio tutti gli ebrei, invece di perseguire prima quelli stranieri per poi estendersi agli altri; secondariamente, la persecuzione fisica viene attuata in maniera del tutto improvvisa e senza la gradualità che caratterizza gli altri Paesi occidentali. Ciò dipende dal fatto che in Italia la fase preparatoria è stata precedentemente compiuta dallo Stato fascista mediante la propaganda, atta a condizionare l’opinione pubblica, e l’istituzione di organismi preposti all’attuazione della politica antiebraica, primi fra tutti la Direzione generale per la demografia e la razza del Ministero dell’Interno; infine mediante il già nominato censimento degli ebrei(6).


La deportazione dall’Italia è particolarmente drammatica per una serie di motivi, individuabili nel suo fulmineo e improvviso accadere sopra ricordato, nella sua coincidenza con la fase finale della guerra – quando la condizione dei lager nazisti peggiora sensibilmente – e, infine, nella particolare e contraddittoria posizione degli ebrei italiani, visti spesso come ‘italiani fascisti’ dai prigionieri politici di altri Paesi(7).


Se fino al 1943 il fascismo non ha appoggiato il progetto nazista, mentre ha concesso una relativa sicurezza agli ebrei che si rifugiavano nelle zone di occupazione italiana e sui quali la Germania pretendeva di esercitare un controllo, ora la cooperazione tra i due alleati dell’Asse viene attuata pienamente. Nella gestione della persecuzione i fascisti forniscono le strutture e svolgono mansioni di tipo delatorio e poliziesco, i nazisti si occupano della deportazione verso la Germania o, più frequentemente, verso la Polonia(8).


Le prime grandi operazioni di rastrellamento hanno inizio nell’ottobre del 1943, il 9 a Trieste e il 16 a Roma, sotto direzione tedesca. La retata di Roma si conclude con la prima deportazione dall’Italia verso il lager di Auschwitz(9).


Solo dopo la capitolazione nazifascista inizia ad emergere appieno la vastità dello sterminio ebraico in Italia, tanto più grave se si considerano la brevità dell’occupazione nazista rispetto agli altri Paesi europei, l’alto grado di assimilazione – e la difficile riconoscibilità – degli ebrei italiani, infine l’estraneità, in gran parte della popolazione cattolica, alle problematiche razziste (10). La sopravvivenza della popolazione ebraica presente in Italia è pari all’82% circa, dato superiore a quello di altri Paesi(11).


È tuttavia innegabile che la percentuale di bambini catturati e deportati dall’Italia sia in proporzione alla popolazione ebraica sensibilmente maggiore rispetto alle cifre di altri Paesi dell’Europa occidentale quali la Francia e il Belgio. In Italia la popolazione infantile deportata è pari al 21,5% della popolazione ebraica complessiva; in Francia la percentuale scende al 14,2% e in Belgio al 12,3%. Ne consegue che altrove l’assistenza almeno all’infanzia è stata più capillare ed efficace(12). I bambini e gli adolescenti italiani sopravvissuti sono 280 e costituiscono il 19,3% dei sopravvissuti tra i deportati ebrei italiani(13).


La deportazione dei bambini


Molti bambini italiani vengono deportati perché le loro famiglie non hanno saputo cogliere la gravità degli eventi e mettersi in salvo per tempo, ritenendo più opportuno adattarsi alle crescenti restrizione in attesa di tempi migliori, come rammenta Sultana Razon, nata nel 1932 da genitori di origine turca:


I primi ricordi che ho sono i bauli, che mia mamma riempiva, ancora nel ’36 e ’37, per andare in America, perché mio papà aveva un sacco di fratelli a Cuba, in Messico … questo è il primo ricordo che ho. I bauli son sempre rimasti in corridoio, sempre pieni, mai spediti, perché poi non siamo partiti. Con l’uscita delle leggi razziali iniziavamo ad avvertire l’ostilità, se ne parlava in casa, ma non avevo molto sentore, sentivo che c’era trambusto in casa, i pianti di mia mamma, discussioni perché mio padre avrebbe voluto andare via dall’Italia, e lì erano iniziate le opposizioni della mamma che non voleva muoversi, pensava che fosse tutto una cosa passeggera. Non siamo partiti per aspettare l’evolversi delle cose. Finché ci si è resi conto che forse era meglio se fossimo partiti …(14 ).


La famiglia di Sultana non comprende il pericolo incombente neppure quando il padre è arrestato e condotto nel campo di Ferramonti di Tarsia in Calabria, e la madre decide di raggiungerlo con le due figlie. Il campo di Ferramonti rappresenta un caso particolare e una felice eccezione rispetto agli altri campi di internamento italiani(15). Qui, infatti, si allestiscono servizi gestiti in comune come le mense o l’assistenza. Lo sforzo organizzativo dei detenuti – possibile grazie ai buoni rapporti con le tolleranti autorità del campo – è notevole sotto altri profili: la presenza di numerosi professionisti e uomini di cultura determinati a ricostruire una certa normalità consente il sorgere di scuole, di una biblioteca e di sinagoghe.


Particolare attenzione riceve l’istruzione dei bambini e degli adolescenti, inseriti in varie classi secondo la loro età e soggetti ad un programma di studi analogo a quello della scuola pubblica. Vi sono un asilo infantile – cui la “Mensa dei Bambini’ di Milano procura un supplemento alimentare giornaliero che include latte e dolci – una scuola elementare, una scuola media e persino una scuola superiore.  Il medico scolastico non ha solo a cuore  la  salute  degli  allievi,  ma insegna anche la prevenzione sanitaria. Tutte le lezioni sono tenute in tedesco e in serbo-croato (data la numerosa presenza di profughi dalla Jugoslavia); inizialmente anche l’italiano è lingua di insegnamento. Accanto alle tradizionali materie di cultura generale, i bambini apprendono nozioni pratiche, quali la gestione dell’ordine e della pulizia nelle baracche, la custodia del materiale scolastico e la distribuzione dei viveri.


Un particolare conforto ai più piccoli giunge dall’ingegnere Israel Kalk  cui si deve la creazione della “Mensa dei Bambini” e che già dall’estate del 1940 invia a Ferramonti (come in altri campi) viveri e latte in polvere, vestiario, medicinali e giocattoli. In una sua successiva visita a Ferramonti, Kalk  porta con sé soprattutto giochi per i bimbi – molti di questi non sanno neppure di che cosa si tratti – sussidi in denaro per le gestanti e un corredino completo per ognuna.


Nel campo vengono organizzati concerti, spettacoli teatrali cui partecipano i bambini e un concorso letterario; la vita culturale riceve un impulso assai forte nonostante le difficoltà materiali quali la penuria alimentare e le malattie dovute alle precarie condizioni igieniche.


La situazione degli internati peggiora ulteriormente all’inizio del 1943 a seguito di un irrigidimento delle autorità fasciste, le quali riducono i permessi di uscita dal campo e la conseguente possibilità di approvvigionamento al mercato nero.


Il peggioramento delle condizioni di vita emerge anche nei ricordi di Sultana Razon:


Devo dire che il campo di concentramento di Ferramonti non era molto… rigido, era abbastanza grande… c’erano i casermoni e gli alberi, il sole. Era estate, quindi era abbastanza piacevole, c’era molta gente… non è stato un trauma, assolutamente. Siamo stati lì un anno, e in questo anno la situazione peggiorava sempre più, soprattutto per le molte malattie, perché era una zona malarica(16).


Numerosi sono i prigionieri che, a fronte delle crescenti difficoltà, chiedono ed ottengono di essere trasferiti al Nord, in altre località di internamento. Ma, con l’occupazione tedesca, gran parte di loro è destinata alla deportazione e alla morte. Anche la famiglia di Sultana è trasferita a nord e confinata vicino a Rovigo, dove la coglie la caduta del fascismo – un momento festoso e vissuto come la fine della guerra, mentre l’armistizio dell’8 settembre interrompe bruscamente le speranze. Sono infatti numerosi i bambini costretti a nascondersi, come Liliana Treves Alcalay, Susetta Ascarelli, e Lilli Della Pergola(17).


I meno fortunati, come Ida Marcheria, arrestata con la famiglia, o Liliana Segre, respinta dalla Svizzera ove aveva cercato salvezza insieme al padre, sono deportati nei lager nazisti(18). Alcuni, come Sultana Razon, passano attraverso il campo di transito di Fossoli di Carpi – ingrandito dalla Repubblica Sociale Italiana e trasformato in centro di raccolta di ebrei rispetto al campo già presente dal 1942 per soli prigionieri politici, dal momento che è strategicamente ben disposto in un nodo ferroviario cruciale per la deportazione verso i lager. 


C’erano le baracche, e ricordo che c’era il water dentro. Era una specie di stazione intermedia, nel senso che tutti aspettavano e c’era gente che andava e veniva in continuazione, era un ricambio continuo. Arrivava gente, e altri partivano al mattino. Rispetto a Ferramonti già era peggio, perché poi oltretutto era inverno, faceva freddo, e lì sulla paglia, per terra. Mentre eravamo a Ferramonti [a Fossoli, n. d. r] l’unica cosa che mi è rimasta impressa è il fatto che, prima di partire per questo luogo sconosciuto – perché ci avevano detto solo che l’indomani partivamo – mia mamma vedeva che non avevamo niente da coprirci, ed è andata disperata attraverso tutte le camerate a cercare qualcosa, lei era brava a confezionarci i vestiti. Alla fine ha tirato giù dei tendaggi durante la notte, da una sede del comando, non lo so…dei tendaggi il colore è l’unica cosa che ricordo, verde scuro. Durante la notte ha confezionato dei vestiti per me e mia sorella, per coprirci in qualche modo(19).


Più che dei campi italiani, tuttavia, emerge il ricordo del viaggio verso il lager, terribile,      come nel caso di Liliana Segre, diretta nel campo di sterminio di Auschwitz. Preludio della condizione disumana del lager è, infatti, il trasporto nei vagoni merci, che per le sue modalità vuole essere già una prima forma di selezione e di sterminio dei più deboli: anziani e malati, in particolare, difficilmente giungono vivi a destinazione, dopo giorni senza cibo né acqua, tra il fetore degli escrementi e il tanfo dei morti.


I bambini ancora ignari dei lager, che soffrono la sete e la presenza d’aria stantia, comprendono di trovarsi in una situazione imprevista e inimmaginabile, preludio di una catastrofe ancora più grande. Il ricordo del trasporto resta indelebilmente impresso nella mente dei sopravvissuti, e se prima del viaggio si poteva ancora sperare e credere di restare in vita nonostante le restrizioni imposte dal nazismo, ogni illusione cessa sui vagoni verso la deportazione. Così Liliana Segre, all’epoca tredicenne, testimonia il clima irreale nel carro merci, consapevole di quanto la aspetta:


Il viaggio verso Auschwitz […] è uno dei capitoli più terribili della Shoah. Il mio è durato sei giorni, e per sei giorni questa umanità viveva stipata nel vagone con le sue miserie, con i suoi bisogni fisici, con i suoi odori di sudore, di urina, di paura. […] All’inizio fu il tempo del pianto […]. La seconda parte del viaggio fu quella della preghiera […]. Poi ci fu l’ultima parte, quella del silenzio: un silenzio solenne, importante, più denso di qualsiasi pianto o preghiera. Non c’era più nulla da dire. Era il silenzio delle ultime cose, quando si è soli con la propria coscienza e la sensazione che stiamo tutti per morire(20).


Anche Sultana Razon, in viaggio con la famiglia verso Bergen Belsen, dopo aver dovuto lasciare il campo di transito di Fossoli, ha ricordi simili sulla fisicità dolente di quell’umanità stipata in poco spazio e violata nell’intimità:


Al mattino presto sono venuti i tedeschi, ricordo gli stivaloni, l’elmetto, i fucili, i cani lupo…ci hanno caricati sui vagoni e da lì siamo partiti per Belsen. Il viaggio è durato molto, eravamo tutti un po’ in piedi, un po’ seduti, ma non c’era spazio per stare tutti sdraiati. C’era un bidone in un angolo dove tutti facevano i loro bisogni; molti morivano durante il viaggio, è stata una cosa allucinante, tutte quelle porte chiuse, nulla da mangiare né da bere…dopo un giorno o due ci hanno aperto un po’ uno spiraglio per cambiare il bidone, che era pieno. Dovevano vuotarlo, e in quell’occasione ci hanno lasciato scendere per bere a una fontanella che c’era lì. Non mi ricordo se hanno distribuito del pane, perché poi siamo saliti ed eravamo tutti stretti(21).


Una volta giunti a destinazione, solitamente per i bambini il lager è una situazione transitoria, come ricorda Primo Levi: “I bambini erano a Birkenau come uccelli di passo: dopo pochi giorni, erano trasferiti al Block delle esperienze, o direttamente alle camere a gas”(22). La categoria dei Kinder non si annovera nel sistema concentrazionario nazista, giacché i bambini non hanno diritto ad esistere – essendo l’infanzia il futuro di un popolo, e quello ebraico deve scomparire – e in generale non sono in grado di lavorare.


Giunti a destinazione, i bambini hanno pertanto scarsissime possibilità di sopravvivenza. Se molte madri scelgono di accompagnarli nella morte o comunque di non separarsi dai figli qualunque sia la loro sorte, altre possono salvarsi solo allontanandosi dai bambini. A volte affidano ignare i figli a chi si offre di custodirli provvisoriamente, pensando di ritrovarli subito dopo nel lager. Può addirittura accadere che qualche donna intuisca la sorte in ogni modo segnata dei bambini e li abbandoni al loro destino. Il gesto, per quanto sia disumano, va compreso se inserito nella bestialità della persecuzione e dei meccanismi comportamentali che induce, stimolando l’istinto di sopravvivenza a qualunque costo.


Se immessi in campo, i bimbi devono subire le medesime privazioni degli adulti, e il prezzo che i bambini devono pagare per essere presenti là dove la loro esistenza non è, appunto, neppure prevista, consiste nella minore speranza di vita rispetto agli adulti, più forti e resistenti di loro. Come ricorda Liliana Segre, “Imparai in fretta che cosa voleva dire Lager. Voleva dire morte-fame-freddo-botte-punizioni; voleva dire schiavitù, voleva dire umiliazioni-torture-esperimenti”(23).


Solitamente uccisi all’arrivo nei campi misti di lavoro sterminio, come Auschwitz-Birkenau, i piccoli si salvano a volte se appaiono più grandi della loro età o se mentono per essere inclusi tra gli adulti idonei al lavoro. Qualcuno intuisce che è meglio dichiararsi più grandi, altri vengono avvertiti da alcuni prigionieri prima delle selezioni o da qualche veterano con cui hanno il tempo di scambiare poche parole, appena scesi dai vagoni.


Nei campi di solo sterminio i bambini non hanno alcuna possibilità di sopravvivenza, dal momento che tutti gli ebrei lì condotti vengono subito uccisi ad eccezione dei membri del Sonderkommando – prigionieri addetti alla raccolta dei vestiti e dei beni delle vittime, allo smistamento dei cadaveri dalle camere a gas e al funzionamento dei forni crematori.


I bambini sopravvissuti ai campi di sterminio sono un rarissimo ‘errore’, mentre nei campi misti di lavoro e di sterminio, come nei campi di lavoro in Germania, i bambini hanno una maggiore ma ugualmente esigua possibilità di sopravvivenza. Non solo possono essere annoverati tra gli adulti per il lavoro, ma spesso sono tenuti in vita per essere oggetto di atroci esperimenti cosiddetti medici e scientifici – in realtà definibili come efferate crudeltà. I bimbi usati come cavie umane per lo più muoiono, ma se gli esperimenti condotti su di loro non sono prolungati e mortali, e se le circostanze impediscono agli aguzzini di avere il tempo per sopprimerli, in rari casi resistono sino alla liberazione.


Uno dei peggiori episodi di violenza nei confronti di piccoli riguarda il trasporto da Auschwitz a Neuengamme di venti bimbi – polacchi, francesi, olandesi, jugoslavi e il piccolo italiano Sergio De Simone – tra i cinque e i dodici anni, il 29 novembre del 1944. Prelevati dalla baracca 11 di Birkenau con la menzognera promessa di vedere la mamma se si fanno avanti, da gennaio sono cavie umane per ricerche mediche  sulla  tubercolosi,  il  cui  bacillo  viene  loro iniettato dal dottore delle SS, Kurt Heissmeyer. In marzo i bambini sono ormai apatici e seriamente malati; con l’approssimarsi del fronte ad Amburgo, nelle cui vicinanze è situato il lager di Neuengamme, il 20 aprile 1945 giunge da Berlino l’ordine di uccidere sia i bambini sia i loro assistenti(24).


Nella maggior parte dei lager i bambini più grandi sono immessi nel sistema produttivo e non di rado lavorano con maggior lena, sapendo che dalla loro utilità al Reich può dipendere la vita. Liliana Segre, a soli tredici anni, ha la fortuna di essere scelta per un lavoro che le permette la sopravvivenza: operaia nella fabbrica di munizioni Union, dove il pericolo maggiore è venire accusati di sabotare la produzione ed essere impiccati, la ragazzina può perlomeno trascorrere i gelidi inverni polacchi al riparo.


I bimbi perdono ogni diritto e ogni parvenza dell’infanzia, ormai ridotti ad essere operai schiavi al pari degli adulti, con la differenza che si tratta di creature più indifese degli adulti di fronte al lavoro massacrante, alla violenza, alla fame, alle malattie. Anche i bambini, come gli adulti, di  fronte alla necessità di concentrare ogni sforzo nel tentativo di sopravvivere perdono la capacità di pensare ad altro che non sia la quotidianità e di reagire emotivamente agli eventi. “L’obiettivo dei tedeschi era ridurci a non persone e ci sono riusciti benissimo. Non avevamo più neanche i nostri pensieri”(25). Non rimane allora nient’altro che tentare di sopravvivere, nonostante la sporcizia, la denutrizione, il freddo, le umiliazioni gratuite:


E poi ricordo ancora che quando si andava al gabinetto c’era una baracca con tutti i sedili in fila, con i buchi… s’era perso completamente il senso del pudore, non si sapeva più che cosa fosse. E poi ricordo le adunate per l’appello al mattino, con le gambe inzuppate in mezzo alla neve, solo col grembiule e gli zoccoli, nudi… non so come abbiamo fatto a superare queste cose. Perché poi queste baracche erano senza vetri, con il freddo tremendo che c’era. Abbiamo passato l’estate del ’44 e poi l’inverno, fino all’aprile del ’45. Quindi abbiamo trascorso tutto l’inverno con un freddo tremendo, ricordo la tragedia di queste ore e ore e ore in piedi, per l’appello, perché poi contavano tutti, e se mancava qualcuno dovevano andare a cercarlo nelle baracche, e magari era morto nel suo letto. Ogni giorno morivano decine e decine di persone, poi centinaia, perché alla fine c’erano le epidemie di malattie, le diarree pazzesche. Sui piani dei letti a castello c’erano dei malati che magari non riuscivano più ad alzarsi, quindi facevano tutti i bisogni… era tutto intriso, andavano giù la popò, la pipì, sui letti sottostanti… era una cosa tremenda, veramente pazzesca(26).


Di primaria importanza diviene proteggere il più possibile i piedi e le gambe dal freddo, ‘organizzare’ (procurarsi, nel gergo del lager, tramite baratti o furti) cose utili come spago, stracci, bucce di cibo e rifiuti ancora commestibili, saper conservare il cibo razionandolo, attenersi a tutte le regole. Come ricorda ancora Sultana Razon:


La nostra dieta era questa minestra di rape, una brodaglia in cui galleggiavano dei pezzi di rapa; un’altra attività quotidiana era andare tutti i giorni a cercare le bucce delle patate, nelle camerate dei kapò e delle guardie tedesche. Andavamo a frugare gli avanzi, trovavamo che le bucce delle patate – che non davano a noi, le mangiavano loro, le patate non le abbiamo mai mangiate – erano squisite! […] Ci portavano un pezzo di pane nero che doveva durare tutta la settimana, poi un po’ di margarina, non so con che grasso fosse, e tagliavamo delle fettine sottili sottili di pane con un velo di margarina, e poi questa minestra di rape, era tutto il nostro cibo. E quindi il passatempo era parlare di ricette(27).


Liliana Segre  rammenta di avere avuto, davanti all’orrore e al pericolo di abbrutimento, una reazione di difesa: non rifiutarsi di nutrire pensieri, ma concentrarsi solo su quelli piacevoli poiché, ad Auschwitz, l’unica via per sopravvivere è crearsi un proprio mondo immaginario, lontano dai forni crematori, sopra la violenza.


Io avevo paura di ciò che i miei occhi potevano vedere. Allora avevo scelto un dualismo dentro di me, una sovrapposizione di realtà diverse: ero lì con il corpo, che pativa il freddo, la fame, e le botte, ma con lo spirito abitavo altrove. Vagavo, ma non con i ricordi che mi avrebbero ferita a morte più del freddo e della fame: mi ero inventata un mondo di fantasia tutto mio, qualcosa di speciale. Correre su un prato, nuotare nel mare della Liguria, cogliere i fiori, vedere cose bellissime nel cielo. E riuscivo a non essere lì. […] Nelle notti terse scelsi una stellina nel cielo, e mi identificai con lei. […] Io non ero ad Auschwitz: mi ero fusa con quella stellina e pensavo (in modo infantile, com’ero io): “Io sono quella stellina. Finchè la stellina vivrà nel cielo io non morirò, e finchè resterò viva io, lei continuerà a brillare(28).


A Sultana Razon, la forza morale per reagire alle dure condizioni di vita viene dallo studio e, soprattutto, dalla presenza dei familiari con cui è rinchiusa in un campo interno a Bergen-Belsen riservato ai cittadini di Paesi neutrali, dato che la sua famiglia ha passaporto turco:


Ma soprattutto ci facevano studiare, perché ricordo che mio papà, pur essendo quasi analfabeta, lui che veniva da una famiglia che aveva fatto sì e no la terza elementare […] ci ha sempre sollecitato a studiare, a prendere lezioni. Siccome l’ambiente era cosmopolita, abbiamo cominciato a studiare francese, e poi l’ho sempre ringraziato per questo. Prendevamo lezione quasi tutti i giorni da un poliglotta greco, scrivevamo su tutti i pezzi di carta che trovavamo […] e allora si pagavano queste lezioni, e tra me e mia sorella pagavamo tre scodelle di minestra la settimana. […] Ma questo ci ha sostenuto parecchio, perché avevamo dei compiti da fare […](29)


A Bergen-Belsen la presenza di un numero consistente di bambini deriva proprio dalla peculiarità del lager, scelto come campo di raccolta per specifiche categorie, tra i quali i titolari di nazionalità di Paesi neutrali e i rappresentanti di alcuni enti ebraici. Per questa ragione, i bambini godono di particolari cure: fino a quattordici anni possono alloggiare con le madri nelle baracche femminili; se hanno meno di tre anni sono esentati insieme alle madri dall’appello e vengono contati vicino alle loro baracche o all’interno, accanto ai letti; ricevono cibo quantitativamente e qualitativamente migliore di quello dei genitori. Anche l’educazione è oggetto di maggiori attenzioni da parte dei prigionieri adulti, che riescono ad organizzare corsi di studio per i piccoli; sono insegnate le materie base di qualsiasi educazione scolastica, cui si aggiungono riflessioni legate all’esperienza concentrazionaria e suggerimenti morali per affrontarla. Per tutti questi motivi, a Bergen-Belsen la mortalità infantile della fascia tra i quattro e i quattordici anni è particolarmente bassa: 6,5% contro il 31% dei bimbi fino a tre anni e soprattutto rispetto al 67% degli ultraquarantenni(30).


  Spesso i bambini piccoli sono introdotti clandestinamente anche laddove sono ufficialmente banditi dal lager: molte madri tentano di salvare i loro piccoli addormentandoli con sonniferi e nascondendoli, altri genitori corrompono le guardie o sono aiutati da prigionieri caritatevoli a volte membri delle reti clandestine presenti nei campi nazisti. Particolarmente significativo è il contributo della Resistenza di Auschwitz al salvataggio di bambini ebrei, in parte indirizzati agli esperimenti medici nella speranza che si salvino, in parte nascosti: un gruppo di oltre centoventi bimbi provenienti da Kovno è occultato nelle baracche dei bambini polacchi grazie all’operato di prigionieri polacchi che riescono a corrompere alcune SS. Inoltre, essi organizzano per tutti i bambini un trasporto a Flossenbürg, sottraendoli così alle selezioni(31).


Ovunque nei lager, l’aspetto più tragico della persecuzione nazista contro i bambini riguarda la rassegnazione con cui essi accolgono restrizioni e patimenti. La presenza di bambini piccoli, che non lavorano e che possono giocare, non implica in ogni caso una parvenza di normalità nella loro esistenza: anche nei giochi i bambini riproducono la mostruosità della loro esperienza, perdono la loro normale capacità ludica. L’adattamento all’assurdo appare proprio dalla naturalezza con cui i più piccoli si rapportano alla morte e alla sofferenza che li circonda, diversamente dagli adulti, i quali si scontrano con una volontà raziocinante di volta in volta frustrata.


Le piccole sorelle Bucci di quattro e sei anni, Andra e Tatiana, ricordano di aver cessato di provare sentimenti appena arrivate ad Auschwitz, annullando immediatamente la propria emotività: “Non ricordo di aver mai né pianto né riso, ad Auschwitz”, dice Tatiana(32)


In generale, come mostra il caso di Andra e Tatiana, i bambini più piccoli, non sufficientemente maturi per capire la loro situazione – neppure gli adulti sono in grado di comprendere la logica del campo, anche perché non esiste alcuna norma, né è possibile comportarsi nel lager in base alla realtà esperita in precedenza – affrontano la vita concentrazionaria con uno sguardo estraniato e lontano, come se la realtà giungesse loro filtrata e attutita. Significativa, in tal senso, è l’assenza di emozioni per la scomparsa della madre, che le due bambine credono naturale essere morta:


[…] non ricordo il giorno preciso in cui mamma non venne più, ma quando accadde credo di non aver pensato a niente. Era talmente cambiata, quando la vedevamo nel campo, senza più i capelli, talmente smagrita e imbruttita che non ci consolava vederla. […] Mamma semplicemente non venne più, io non pensai niente ma dentro di me sapevo che doveva essere finita in mezzo a quei mucchi di morti che si vedevano in giro dovunque(33).


La liberazione e il ritorno dei bambini


Ad Auschwitz-Birkenau, le SS, con l’avvicinarsi dei Russi, per non perdere istanti preziosi, abbandonano malati, moribondi e feriti nel campo. Chi invece è costretto a partire insieme ai persecutori di rado va incontro alla liberazione. Liliana Segre  fa parte dei prigionieri evacuati e obbligati a marciare per giorni. E’ il gennaio del 1945 e la temperatura è bassissima. Per resistere, la ragazzina cerca di concentrare le sue scarse forze nell’imperativo di vivere. “Una gamba davanti all’altra, volevo vivere […]. Non mi voltavo, andavo avanti con la forza della disperazione […]”(34).


Costretti a viaggiare soprattutto di notte, numerosi prigionieri del tutto privi di forze muoiono sfiniti o si lasciano cadere sulla strada dove la scorta li elimina, mentre  quanti riescono a raggiungere il lager cui sono destinati continuano un’estenuante lotta contro il tempo nel tentativo di resistere a nuove evacuazioni verso campi sempre diversi, sempre più nel cuore della Germania, sempre più lontano dagli Alleati.


La strada era disseminata di morti senza tomba; io non li guardavo; ero un automa che camminava, una gamba davanti all’altra: volevo vivere, non volevo morire. Ero come ubriaca, era una follia anche voler vivere. Mi buttavo con le altre sugli immondezzai e rosicchiavo qualunque rifiuto appena potevo: torsoli di cavolo marcio, bucce di patate crude o un osso già spolpato(35).


Nell’ultima evacuazione dal campo di Malchow, Liliana assiste alla trasformazione degli aguzzini in civili, li vede abbandonare divise e armi, sciogliere i cani, scappare, ma non ha la forza sufficiente per assaporare la gioia della liberazione: “Noi testimoni della Storia che cambiava sotto i nostri occhi, eravamo sconvolte, stanchissime, emozionate”(36).


Nella gran parte delle testimonianze il momento della liberazione segna la conclusione del racconto, incentrato soprattutto sulle esperienze tragiche della Shoah. L’immediato dopoguerra è segnato da un clima di incertezza e di confusione generali, e il disagio del rientro è tanto sofferto che pochi e solo in memorie di scrittura recente trattano dei problemi connessi al ritorno a casa e alla normalità(37). Quando ciò avviene è per lo più in brevi cenni conclusivi al termine delle testimonianze. Analogamente, i racconti orali terminano di solito con la fine della guerra. Nelle interviste da me condotte si è infatti potuto osservare come il testimone consideri in genere conclusa la narrazione delle sue vicende con il dopoguerra; soltanto su sollecitazione esplicita egli affronta tematiche connesse al ritorno e alle difficoltà della ricostruzione, mentre la questione del dialogo con i figli sulla Shoah sembra un argomento ancora troppo doloroso per essere toccato(38).


Come osservano Nathan Wachtel  e Lucette Valensi, per i sopravvissuti la fine della guerra significa fine di un tipo di vita estrema e inizio di una nuova esistenza più simile alla sopravvivenza(39). Gli intervistati, infatti, paiono quasi elencare le vicende del dopo come si trattasse di un curriculum vitae, per ritornare a soffermarsi sulla persecuzione.


Una prima causa di quella che si può ritenere una sorta di reticenza, dipende dal trauma effettivamente subito una volta tornati: il bilancio negativo dei propri morti, sia amici sia parenti, impone per la prima volta un confronto con la reale portata dello sterminio ebraico, non compreso appieno durante il suo svolgimento a causa di una profonda disinformazione ma anche per una forma di difesa psichica e di resistenza morale – il pensiero del ritorno tra i propri cari è stato spesso motivo di lotta dell’individuo contro la sopraffazione della morte.


Anche quando la vittima possiede elementi per temere di essere l’unico sopravvissuto, o uno dei pochi di una numerosa famiglia, allontana da sé le considerazioni negative per riporre ogni aspettativa nel ritorno che inevitabilmente è assai diverso dalle speranze investite. Lo scoramento è ancora maggiore quando il viaggio avviene in vagoni merci, come accade a Ida Marcheria : su un vagone merci era stata deportata ad Auschwitz, e su un altro vagone merci ritorna in Italia(40). Sono in molti a sperare in una società migliore, che compensi le sofferenze patite, ma il ritorno delude, come racconta Sultana Razon, la quale arriva in nave solo nel gennaio del 1946, dopo essere stata trattenuta e curata a Istanbul per alcuni mesi:


[…] siamo sbarcati a Napoli, felici e contenti, non pensando che qui sarebbe venuta la fase problematica: non avevamo casa perché la nostra casa è stata bombardata nel ’43, quindi non c’era più. A Napoli ci aveva accolto qualcuno degli enti caritatevoli, e poi ci hanno accompagnato fino a Milano. Lì abbiamo dovuto arrangiarci. Non avevamo nessuno a cui rivolgerci, c’è stata questa organizzazione dei campi e degli aiuti, e ricordo che ci hanno offerto aiuto dandoci dei vestiti, dandoci da mangiare, eccetera. C’erano anche delle baracche, che ricordo in Piazza Bacone, e distribuivano il cibo per quelli che non avevano tetto, che erano tornati dalla guerra. Andavamo lì a mangiare tutti i giorni. Avevamo una cugina di mia mamma, che aveva un appartamentino in Viale Abruzzi, e ci ha tenuto, ci ha ospitato per parecchi mesi. Questo solo noi, gli zii hanno trovato ospitalità da parenti loro. Ci siamo distribuiti un po’ qua un po’ là. Siamo rimasti in cerca di lavoro, di cibo, di tutto, non avevamo niente(41).


Un ulteriore, ma non meno importante aspetto, riguarda l’accoglienza ricevuta da parte di quanti non hanno invece subito la persecuzione. Costoro, con indifferenza se non addirittura con aperta ostilità, trovano fastidiosa la figura del sopravvissuto, poco consona al clima di ricostruzione del dopoguerra e all’imperativo generale di dimenticare, di lasciare i rancori e i ricordi alle spalle.


Spesso la richiesta d’oblio proviene, in buona fede, da persone le quali ritengono sia la migliore medicina per ricominciare a vivere, e non riescono a considerare le difficoltà psicologiche connesse all’obbligo della dimenticanza e del silenzio. In pochi casi viene creato un sistema di assistenza psicologica per i sopravvissuti, e le persone che si occupano dei bambini ritornati ignorano i loro problemi e i metodi per affrontarli. Gli stessi parenti che accolgono i superstiti non sanno come comunicare con loro attraverso l’esperienza della persecuzione; l’arrivo dei bambini non è spesso accolto con il calore desiderato. D’altra parte, chi li ospita può dover fronteggiare a sua volta numerose esigenze materiali, e la presenza di un parente ‘problematico’ complica ulteriormente i rapporti. Ricorda Liliana Segre  di ritorno da Auschwitz:


Era molto difficile per i miei parenti convivere con un animale ferito come ero io: una ragazzina reduce dall’inferno, dalla quale si pretendeva docilità e rassegnazione. Imparai ben presto a tenere per me i miei ricordi tragici e la mia profonda tristezza. Nessuno mi capiva, ero io che dovevo adeguarmi ad un mondo che voleva dimenticare gli eventi dolorosi appena passati, che voleva ricominciare, avido di divertimenti e spensieratezza(42).


Anche Ida Marcheria  rammenta l’indifferenza con cui Trieste ha ricevuto lei e la sorellina Stella, due bambine tornate sole da Auschwitz e quasi invisibili per la gente(43).


Per i sopravvissuti nascono nuove difficoltà in un ambiente più fluido, maggiormente ambiguo e privo della netta ma in un certo senso rassicurante contrapposizione tra i persecutori nazisti (con gli annessi collaborazionisti, spie, conniventi) e perseguitati. Privi del sostegno familiare, che si aspettavano di ritrovare, impossibilitati spesso a recuperare i beni che prima della guerra i familiari avevano cercato di mettere in salvo – ad esempio, la casa di Ida Marcheria  e della sorellina Stella è ora occupata da un fascista che rifiuta categoricamente di andarsene, senza farsi scrupolo di lasciare le due ragazzine abbandonate in strada – non di rado costretti a constatare come molti abbiano approfittato della loro disgrazia per impossessarsi di oggetti che acquistano ora una nuova importanza in quanto ricordo e simbolo di chi non è tornato, i bambini sopravvissuti non appartengono al mondo del dopoguerra, non si riconoscono nell’ambiente che li circonda, non hanno un futuro certo come quello in cui hanno confidato durante la Shoah.


La condizione dei pochi bambini e degli adolescenti sopravvissuti è assai problematica, o addirittura tragica: come afferma Liliana Segre, “Ero profondamente infelice, niente e nessuno era come io avevo sognato nella notte del Lager”(44). Ancora più drammatico è il caso delle piccole Bucci, dal momento che quasi non ricordano la loro famiglia e lasciano malvolentieri il centro di accoglienza di Lingfield che oramai considerano la loro casa:


[…] un mattino di dicembre di cui non so dire il giorno esatto, ci trovammo a Roma Termini. Ad aspettarci c’era moltissima gente, c’era un’automobile fin sotto il binario, e c’era la mamma. Ma per noi due quella signora che piangeva era un’estranea. Certo, l’avevamo riconosciuta nella foto. […] Ma un conto era vederla fotografata, un conto era sapere di dover andare a vivere con lei, dopo due anni e mezzo che per noi erano stati un tempo infinito. […] Significava rompere di nuovo il nostro equilibrio(45).


La faticosa ripresa della normalità, ammesso che sia possibile, di rado trova posto nelle testimonianze e spesso solo in brevi annotazioni. Di fatto, un reinserimento vero e proprio e una cesura definitiva con il passato non occorrono mai. Innegabili sono i problemi fisici e soprattutto psicologici che affliggono i sopravvissuti, da Tzvetan Todorov  efficacemente riassunti nei termini di “vergogna del ricordo” (di essere stati disumanizzati), “vergogna di sopravvivere” (come emerge dal passo di Primo Levi  sulla morte dei migliori) e “vergogna di essere umani” (quando proprio l’uomo ha creato il lager e le camere a gas)(46).


Sultana Razon  ricorda lo studio intensissimo per recuperare gli anni di scuola perduti, in un tenace tentativo di affermare la forza della vita, il rispetto di se stessi e l’importanza della cultura al servizio degli altri:


Avevo saltato cinque anni di scuola, e quindi ho fatto dei corsi accelerati, studiando da sola. Avevo fatto le tre elementari prima della guerra, poi a Taglio di Po ero riuscita a fare la quarta, e poi dopo…avevo studiato solo il francese! Nel ’46 ho ricominciato, e ho fatto le tre medie da sola, studiando disperatamente giorno e notte, e mi sono presentata agli esami di terza media. Avevo preparato tutte le materie da sola, mi sentivo molto motivata a recuperare. […] Poi è stato tutto un recuperare, cercare di affermarsi, studiare intensamente. Non volevo che i miei figli dovessero soffrire la fame, né patimenti. […] Poi ho studiato medicina, che è quello che avevo deciso di fare, e mi sono specializzata in pediatria. Non è forse un caso(47).


Già in lager, di fronte alle epidemie di tubercolosi, Sultana aveva deciso che sarebbe diventata medico, e oggi è pediatra. Liliana Segre  considera invece lo studio soprattutto un’occupazione mentale per “non pensare ai morti”, al padre, ai nonni, a tutti gli altri(48). Non pensare, e non ricordare sono gli imperativi che per molti anni sono imposti e si autoimpongono per decenni i bambini sopravvissuti, come rammena Sultana Razon:


A scuola non si parlava della persecuzione, e neanche in casa: era un capitolo chiuso. Non ne ho più parlato per cinquantacinque anni, neanche con i miei genitori. […] E poi ho messo al mondo sei figli. Ma anche a loro non ho mai raccontato(49).


Lo storico Israel Gutman  sottolinea come la persecuzione dei bambini sia inserita e in qualche modo ‘perduta’ all’interno del vasto lavoro di ricerca sulla Shoah; ne deriva che i racconti dei bambini di allora ricevono scarsa attenzione da parte degli studiosi, fatto ancora più doloroso data la bassa percentuale di bambini sopravvissuti(50). Pertanto, il diritto al ricordo si afferma anche contro il silenzio desiderato a lungo dalla società soprattutto nei confronti dell’infanzia, nell’errata convinzione che un bambino sia troppo piccolo per avere ricordi propri, e il racconto della sua esperienza, ritenuto inattendibile, viene messo a tacere. 


Non si può concordare con l’affermazione dello psicologo Aaron Hass, il quale dalla sua indagine sui sopravvissuti esclude i bambini sostenendo che “A causa della loro giovane età, i bambini sopravvissuti non posseggono quella memoria (reale o costruita) di forza e di recupero per risollevarsi”(51). In realtà, la memoria infantile si rivela puntuale e accurata non meno di quella adulta, sebbene espressa da una prospettiva diversa: il ricordo è lo strumento per la comprensione del proprio dolore, le cui origini risalgono all’infanzia, e insieme per ripercorrere il proprio processo di crescita(52). Le stesse esperienze vissute dai bambini nella persecuzione comportano una maturazione psicologica accelerata rispetto all’evoluzione dei coetanei in situazioni normali, ulteriore fattore questo che favorisce l’elaborazione di una memoria precisa e consapevole.


Cosa mi domandano «Ma come fai a ricordare?», sembra impossibile che una bambina di tre anni, anche due e mezzo, ricordi certe cose. Penso che quando la vita è serena e scorre, normalmente, si ricorda la sensazione di benessere. Ma quando hai dei traumi, te lo ricordi eccome. Quando mi fanno queste domande mi disturba, è un po’ come non credere, come mettere in dubbio che possa ricordare tanto. Un bambino può ricordare(53).


Note


1 Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2000, cap. III, Il periodo della persecuzione della parità dell’ebraismo (1932-36), pp. 53-102.


2 Fausto Coen, Italiani ed ebrei: come eravamo. Le leggi razziali del 1938, Genova, Marietti, 1988, pp. 35-40.


3 Michele Sarfatti, Mussolini  contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938, Torino, Silvio Zamorani Editore, 1994, pp. 91-92.


4 Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano, Mursia, 1991, p. 793.


5 Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., rispettivamente alle pp. 103 e 231.


6 Liliana Picciotto Fargion, op. cit., pp. 809-10.


7 Ada Buffulini, Andrea Devoto, Massimo Martini, Risultati di una indagine psicologica su un gruppo di ex deportati italiani nei campi di concentramento nazisti, Comunicazione al IX Simposio Medico Internazionale della F.I.R., Berlino, 1-3 dicembre 1981, Montecatini, Tipo-Litografia delle Terme, 1982, p. 2.


8 Marina Rossi, Un caso italiano: la risiera di S. Sabba, in “Studi bresciani”, 1996, n. 9, poi pubblicato in Il nazismo oggi. Sterminio e negazionismo, Quaderni della Fondazione Micheletti, Brescia, Promodis Italia Edizioni, 1996, pp. 68-69.


9 Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943 (insieme con Otto  ebrei), Roma, Editori Riuniti, 1984 (prima ed. 1944); Fausto Coen , 16 ottobre 1943. La grande razzia degli ebrei di Roma, Firenze, Giuntina, 1993.


10 Susan Zuccotti, L’Olocausto in Italia, trad. it. di Roberta Rambelli, Milano, TEA, 1995, pp. 212-213.


11 Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, cit., pp. 271-272.


12 Serge Klarsfeld, Le Mémorial des Enfants Juifs Déportés de France, Paris, ed. par “Les Fils et Filles des Déportés Juifs de France” et par “The Beate Klarsfeld Foundation”, 1995, pp. 5-6.


13 Sara Valentina Di Palma, Bambini e adolescenti nella Shoah. Storia e memoria della persecuzione in Italia, Milano, Unicopli, 2004, p. 207.


14 Intervista con Sultana (Susanna) Razon Veronesi, Ivi, p. 239.


15 Ivi, pp. 78-80; Carlo Spartaco Capogreco, Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo di internamento fascista (1940-1945), Firenze, Giuntina, 1993 (prima ed. 1987).


16 Intervista con Sultana (Susanna) Razon Veronesi, cit., p. 239.


17 Liliana Treves Alcalay, Con occhi di bambina (1941-1945), Firenze, Giuntina, 1994; testimonianza di Susetta Ascarelli in Testimonianze, in 1938. I bambini e le leggi razziali in Italia, a cura di Bruno Maida,  Firenze, Giuntina, 1999, pp. 127-157; Lilli della Pergola, «Le persone che escono possono anche non tornare», in Una gioventù offesa. Ebrei genovesi ricordano, a cura di Chiara Bricarelli, Firenze, Giuntina, 1995, pp. 37-53.


18 Ida, in Roberto Olla, Le non persone. Gli italiani nella Shoah, Roma, RAI ERI, 1999, pp. 7-34.


19 Intervista con Sultana (Susanna) Razon Veronesi, cit., p. 241.


20 Emanuela Zuccalà, Sopravvissuta ad Auschwitz. Liliana Segre fra le ultime testimoni della Shoah, Milano, Paoline Editoriale Libri, 2005, pp. 34-36.


21 Intervista con Sultana (Susanna) Razon Veronesi, cit., p. 241.


22 Primo Levi, La tregua, in Idem, Se questo è un uomo – La tregua, Torino, Einaudi, 2000 (prima ed. 1958), p. 168.


23 Liliana Segre, Un’infanzia perduta, in Voci dalla Shoah testimonianze per non dimenticare, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1996, p. 57.


24 Barbara Distel, Kinder und Jugendliche im nationalsozialistischen Verfolgungssystem, in Kinder und Jugendliche als Opfer des Hoocaust, a cura di Edgar Bamberger, Annegret  Ehmann, Atti del Convegno Internazionale, presso la Gedenkstätte Haus der Wannseekonferenz, 12-14 dicembre 1994, Heidelberg, Dokumentationszentrum Deutscher Sinti und Roma in Zusammenarbeit mit der Gedenkstätte Haus der Wannseekonferenz, 1997 (prima ed. 1995), p. 66; I 20 bambini di Bullenhuser Damm, a cura di Maria Pia Bernicchia, Milano, Proedi Editore, 2005.


25 Ida, cit., p. 17.


26 Intervista con Sultana (Susanna) Razon Veronesi, cit., p. 243.


27 Ibidem.


28 Emanuela Zuccalà, op. cit., p. 46.


29 Intervista con Sultana (Susanna) Razon Veronesi, cit., pp. 242-243.


30 Thomas Rahe, Aus ‘rassischen’ Gründen verfolgte Kinder im Konzentrationslager Bergen-Belsen. Eine erste Skizze, in op. cit., a cura di Edgar Bamberger , Annegret  Ehmann, p. 134.


31 Helena Kubica , Les enfants et les adolescents au KL Auschwitz, in Auschwitz. Camp de concentration et d’extermination, a cura di Franciszek Piper , Teresa  Swiebocka, ed. franc., Editions Le Musée d’Etat d’Auschwitz-Birkenau à Oswiecim, 1994, p. 150.


32 Titti Marrone, Meglio non sapere, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 46.


33 Ibidem.


34 Testimonianza di Liliana Segre in Educare dopo Auschwitz, a cura di Giuseppe Vico , Milena  Santerini, Milano, Vita e Pensiero, 1995, p. 117.


35 Liliana Segre, Un’infanzia perduta, cit., p. 60.


36 Ivi, p. 62.


37 Dominique Missika , Le chagrin des innocents. Itinéraires d’enfants juifs de 1939 à 1947, Paris, Bernard  Grasset, 1998, p. 28.


38 Sara Valentina Di Palma, op. cit., pp. 209-257.


39 Lucette Valensi , Nathan Wachtel , Memorie ebraiche, trad. it. di Cecilia Traniello, Torino, Einaudi, 1996, p. 316.


40 Ida, cit., p. 29.


41 Intervista con Sultana (Susanna) Razon Veronesi, cit., pp. 244-245.


42 Liliana Segre, Un’infanzia perduta, cit. , p. 63.


43 Ida, cit., p. 29.


44 Liliana Segre, Un’infanzia perduta, cit. , p. 63.


45 Titti Marrone, op. cit., p. 9.


46 Tzvetan Todorov , Di fronte all’estremo, trad. it. di Elina Klersy Imberciadori, Milano, Garzanti, 1992, pp. 253-257. Il passo menzionato è in Primo Levi , I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 2000, p. 46.


47 Intervista con Sultana (Susanna) Razon Veronesi, cit., p. 245.


48 Testimonianza di Liliana Segre alle scuole medie Robecchi di Vigevano (PV), 19 ottobre 2000, in Sara Valentina Di Palma, op. cit., p. 186.


49 Intervista con Sultana (Susanna) Razon Veronesi, cit., p. 245.


50 Affermazioni di I. Gutman  cit. in Elena Lappin , The Man with Two Heads, in “Granta”, 66, giugno 1999, Truth + Lies, pp. 7-65, qui p. 46.


51 Aaron Hass, The Aftermath. Living with the Holocaust, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, p. 14. Trad. it. mia.


52 Dieter Richte , Il bambino estraneo. La nascita dell’immagine dell’infanzia nel mondo borghese, trad. it. di Paola Viti, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1992, p. 21.


53 Intervista con Liliana Treves Alcalay, in Sara Valentina Di Palma, op. cit., p. 257. Liliana, nata nel 1939, sopravvive alla Shoah con la famiglia prima in vari nascondigli in Italia, poi fuggendo in Svizzera.


http://venus.unive.it//rtsmf/ricerche/bambinishoah.htm



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