Gli spazi della Collegialità come luoghi di ricerca e autoformazione
Redazione - 16-01-2007
Tra i tanti silenzi che sono calati sulla scuola, quello sulla formazione in servizio sembra essere uno dei più pesanti.
Per anni me ne sono occupata, nell'Istituto in cui insegnavo, considerandola un diritto ed una sorta di spazio protetto. Organizzarla, sulla base di esigenze specifiche o anche di suggestioni particolari, e scegliersi i tempi, i modi, gli strumenti era - per i colleghi delle scuole della piccola rete che siamo riusciti a far funzionare per anni e per me - una risposta democratica, dal basso, ad una richiesta che vale ed ha senso, se è avvertita come necessaria, ma, soprattutto scelta e non subita. Ed anche, se vogliamo, una forma di resistenza. Interrogarci sui risultati, spesso entusiasmanti, ma a volte anche deludenti, era una parte essenziale del nostro lavoro.
L'articolo di Antonio Valentino, dopo aver ripercorso le luci (poche) e le ombre (molte) di un processo che sembra essere diventato quasi un "a parte", ricerca una modalità di intervento che tende a ridefinirlo come un aspetto intrinseco del nostro lavoro e costituisce, a mio avviso, uno stimolo interessante di discussione.

Anna Pizzuti



Gli spazi della Collegialità come luoghi di ricerca e autoformazione

1. Il nesso formazione-innovazione
La crescita professionale del personale attraverso percorsi di aggiornamento e formazione è questione centrale in ogni processo di innovazione e riforma del sistema. Purtroppo da parecchio tempo è questione trascurata, anche se ogni occasione è buona per dire che non è tollerabile che per figure professionali con responsabilità rilevanti, quali sono i docenti, la formazione sia un optional e lo sviluppo continuo delle competenze un impegno di pochi gruppi sparuti.
Va certamente richiamata la qualità modesta dei corsi di formazione così come li ha vissuti la maggior parte del personale. Anche se questa motivazione regge fino a un certo punto (nel nostro mondo, i fruitori dell'attività di formazione sono adulti, acculturati e in grado di farsi valere e di produrre controproposte) e non sempre corrisponde a verità.
Come pure non va dimenticata la sfida persa col contratto dei cosiddetti gradoni quando la formazione obbligatoria è diventata operazione burocratica e formale, senza ricadute efficaci sui risultati scolastici e sul miglioramento dell'offerta formativa.
Purtroppo, in questo nostro paese, quando un progetto non produce i risultati attesi, non costituisce occasione per interrogarsi sulle cause del fallimento per cercare vie diverse e coraggiose (intrecci con sviluppi di carriera, passaggi ad altri ruoli, benefici economici...) per riaffrontare un problema di cui si continua ad avvertire in ogni caso la valenza strategica.
In questi ultimi tempi poi la formazione è diventata quasi un tabù. Non è prevista più neanche per figure di coordinamento -le funzioni strumentali- a cui pure si dovrebbero affidare compiti di presidio di aree significative della vita scolastica. Il passaggio dalle funzioni obiettivo alle funzioni strumentali, oltre all'opacizzazione delle funzioni, ha significato anche il venir meno dei momenti formativi prima previsti.
D'altra parte le risorse sono quelle che sono. Anche se va detto che, per quanto esse siano modeste, le scuole in molti casi non riescono neanche ad impegnarle tutte e in modo efficace.
Occorre invece che la scuola dell'autonomia sappia trovare in sé la forza per tentare approcci diversi al problema e battere vie diverse, non nella logica perdente del "fai da te", ma in quella della responsabilità rispetto ai propri compiti istituzionali e alla crescita professionale dei suoi operatori, rivendicando, meglio se in tante, risorse e modalità nuove per cominciare una stagione nuova anche su questo fronte.
In questa ottica, e con ambizioni circoscritte, è possibile, dentro le scuole far partire autonomi processi che cerchino di impostare diversamente il problema della formazione? E, in primo luogo, di quali pregiudizi al riguardo occorre liberarsi?

2. Chi cruda e chi cotta; ma tutti, immangiabile
Sappiamo che persistono, sulla formazione del personale scolastico, e soprattutto dei docenti, pregiudizi che vanno analizzati e smontati, per fondare e socializzare consapevolezze condivise e quindi pratiche coerenti.
Ci si riferisce soprattutto alla formazione in servizio degli insegnanti. Perché, sulla necessità della formazione iniziale, non ci sono obiezioni; nel senso che se ne riconosce la fondatezza (almeno da parte di chi non è più chiamato in causa direttamente). Sulla formazione in servizio invece sappiamo che le opinioni sono variegate ma tutte di segno negativo. E che vanno dal pensarla come una cosa inutile, una perdita di tempo, di cui non si avverte il bisogno perché "insegnanti si nasce" o in ogni caso "basta un poco di pratica per esserne all'altezza"; al considerarla un dovere professionale una tantum o solo per chi non sa fare bene il mestiere (cioè "gli altri"). In qualche caso, l'attività di formazione è vista poi come spazio delle suggestioni ("il relatore è stato bravo, ha detto delle cose interessanti") che si esauriscono però nel piacere dell'ascolto, nella pura dimensione estetica, senza ricadute di respiro nella propria vita professionale. In ogni caso, nella percezione più diffusa, la formazione è un evento disgiunto dall'attività didattica.
Nel senso che non sembra essere diffusa l'idea che ci si possa formare anche preparando la lezione frontale piuttosto che un'attività didattica di altro tipo, superando però logiche routinarie o prefigurando esiti e costruendo strategie didattiche mirate o mettendo a punto e verificando la propria azione formativa e la sua efficacia con atteggiamento sperimentale.
E neppure quindi che si possa sviluppare crescita professionale attraverso modalità operative non improvvisate, ma cariche invece di intenzionalità autoformativa, contestualmente all'assolvimento dei propri doveri. Non solo. Ma non sembra essere neanche diffusa l'idea che si possa costruire un ponte tra attività formativa-autoformativa e riqualificazione degli organismi della collegialità docente.
Perché anche i Consigli di classe, ma soprattutto le riunioni di materia o di dipartimento sono vissuti in genere con estrema sofferenza. Si fanno perché si è obbligati. Diversamente se ne farebbe volentieri a meno. Anche perché la fatica dell'insegnare, si fa notare giustamente, è aumentata a tal punto che le 18 ore di lezioni, più le attività di recupero e l'impegno per preparare la lezione, "bastano e avanzano".

3. Una ipotesi di lavoro
Siccome però non ci si può sottrarre alle riunioni di programmazione e verifica dei consigli di classe come a quelle di materia o di dipartimento, perché costituiscono infatti obbligo contrattuale, una non dispendiosa ipotesi di lavoro potrebbe essere quella di dare un senso a tale obbligo trasformando questi spazi, ora sostanzialmente vissuti come faticosi e dequalificati (perché il confronto è spesso formale, il passaggio delle informazioni in genere non produce cambiamenti, lo sfogo una pratica diffusa, gli adempimenti formali una cosa indigesta) in luoghi della formazione autonoma o guidata. La quale, in tal modo, non avrebbe necessariamente bisogno di spazi aggiuntivi per potersi concretizzare. E, molto probabilmente, con qualche vantaggio non trascurabile per i singoli insegnanti e per la scuola.
E', questa, una proposta di lavoro che però, per avere gambe e produrre risultati, richiede una considerazione preliminare e il soddisfacimento di almeno due condizioni.
La considerazione preliminare. Quando qui si parla degli organismi collegiali, si lascia fuori volutamente il Collegio Docenti, perché mal si presta a essere un luogo di crescita professionale un organismo di fatto assembleare, dal quale quello che si può oggi ottenere è sostanzialmente l'assunzione faticosa e spesso formale di decisioni "di competenza". D'altra parte un organo di oltre 100 persone (questa è ormai la consistenza media di un CD) difficilmente può produrre formazione in senso proprio, essere cioè occasione di crescita professionale pensata proprio a tal fine. E questo, anche quando il lavoro istruttorio del Collegio volesse prevederlo e si sviluppasse con queste intenzionalità.
Pertanto qui, per luoghi della collegialità, si intendono, come già si accennava, il Cdc o il Gruppo di materia o le Commissioni di lavoro o i gruppi di progetto; cioè le articolazioni funzionali del Collegio Docenti.

4. Le condizioni
Quanto alle condizioni, la prima a cui lavorare è assicurare sul piano organizzativo
a. che gli ordini del giorno siano definiti in termini di compiti e di risultati attesi, che non piovano dal cielo, ma nascano da una pianificazione condivisa non solo per i tempi, ma anche per gli esiti complessivi a cui tende;
b. che il lavoro istruttorio e di coordinamento sia svolto da collega formato ed esperto, sulla base di un incarico accettato dagli altri colleghi
c. che i gruppi di lavoro possano contare su eventuali figure di supporto metodologico e didattico esterno (o anche interno, se ci fossero risorse esperte e accettate come tali) ogni qual volta ne avvertano la necessità
d. che il numero di ore complessive per ciascun organismo non sia inferiore alle 12-15 unità e che la loro gestione sia, ove possibile, autonoma, almeno per quanto riguarda i tempi (per i Cdc, sarebbe indubbiamente difficile, in quanto richiedono, almeno con riferimento a quelli "canonici", una pianificazione centralizzata);
e. che, in presenza di risultati, in termini di prodotti didattici, a conclusione dell'intero percorso, possano esserci riconoscimenti economici (attingendo dalle risorse della formazione) da prevedere e definire in sede di contrattazione di istituto;
f. che, preliminarmente, 1. ci sia un progetto di formazione legato alle attività /compiti degli organismi collegiali, promosso o a livello di Istituto o autonomamente dai singoli gruppi; 2. che tale progetto sia condiviso e fatto proprio almeno dalla maggioranza (nel senso che se ne accettino gli obiettivi e l'idea che le riunioni si svolgano con modalità, tempi e impegni, anche individuali, propri della ricerca azione); 3. che preveda, nella fase iniziale, qualche momento di formazione almeno per la consegna degli strumenti per iniziare un percorso di ricerca azione dentro i gruppi.

La seconda condizione è quella più impegnativa in quanto fa riferimento alla cultura professionale dell'insegnante e alla necessità che:
a. la formazione non sia vissuta come un optional;
b. la cura della propria crescita professionale si muova nell'ottica del miglioramento continuo; o, se si preferisce, del procedere per approssimazioni successive verso i traguardi assunti dal gruppo come sensati e fattibili.
A quest'ultimo proposito diventa importante la messa in campo di iniziative di istituto volte a sostenere tali direzioni di lavoro, attraverso percorsi che prevedano non solo la formazione incentivata per le figure di coordinamento e l'organizzazione di occasioni leggere di formazione preliminare sulla ricerca-azione; ma anche l'utilizzo di stimoli appropriati attraverso la organizzazione della biblioteca anche come spazio di apprendimento professionale o la distribuzione periodica e continua, a livello di istituto, di materiali (articoli, saggi, ...) funzionali all'obiettivo.

Antonio Valentino in Valore scuola

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