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La discriminazione delle donne in politica
Giorgio Ragazzini - 09-12-2006
La discriminazione delle donne in politica come articolo di fede

Raramente una questione sociale è stata trattata tanto ideologicamente e dogmaticamente come quella della scarsa presenza femminile nelle istituzioni democratiche. Quasi sempre ci si limita a elencare alcune percentuali e magari a raffrontarle con quelle di altri Stati. A quanto pare il dato di fatto puro e semplice basta e avanza per concludere che le donne sono oggetto di una pesante discriminazione. Studiare a fondo la faccenda e le sue cause? Neanche a parlarne: tutto è già chiarissimo. Una volta trasformato il problema in articolo di fede, anche la soluzione non può che essere pigra e conformista: le "quote rosa". Dopo di che, la lotta per le pari opportunità in politica si risolve sostanzialmente in una martellante campagna di colpevolizzazione degli uomini.

In realtà la questione è ben lontana dall'essere chiarita. Nel numero di settembre-ottobre della rivista "Psicologia contemporanea" Donata Francescato e Roberta Sorace fanno il punto sui contributi in merito di diverse discipline (Quanto è rosa il potere?, pp. 16-24) e si chiedono: "Perché ci sono così poche donne ai vertici politici?" Purtroppo per chi pensa che sia già tutto chiaro, ne viene fuori che non solo abbiamo poche ricerche in Italia e nel mondo, ma i "diversi approcci teorici avanzano ipotesi contrastanti". Le principali sono tre.

1) Approccio culturale: "Una storia secolare ha contribuito a far considerare la politica un territorio maschile e ad identificare la leadership politica con caratteristiche tipicamente maschili. Si sono così rafforzati stereotipi di genere che vedono gli uomini più portati naturalmente ad occupare posizioni di responsabilità politica" e le donne "meno adatte a ricoprire ruoli cui si associno qualità come la competitività, l'aggressività, la capacità di comandare e prendere decisioni impopolari. Le donne stesse non ambirebbero a posizioni di leadership in quanto meno orientate al potere dei maschi."

2) Approccio situazionale: "Molte studiose hanno ipotizzato che le donne non riescano ad arrivare ai vertici della politica perché hanno difficoltà a conciliare gli impegni familiari con i tempi della politica".

3) Approccio della discriminazione sessuale: "Varie autrici femministe sostengono che sono i colleghi maschi quelli che di fatto impediscono alle donne di accedere alle massime cariche nei partiti e nelle istituzioni". A conferma si può però portare una sola ricerca del 1995 sui comitati di selezione delle candidature in Gran Bretagna.

Dal punto di vista degli studiosi, in altre parole, la discriminazione nei confronti delle donne nell'accesso a ruoli di responsabilità politica è solo una delle ipotesi tra le altre. Sulla quale peraltro la mia esperienza personale mi fa avere forti dubbi. La teoria infatti mi apparirebbe plausibile come spiegazione di carattere generale, se ai livelli medio-bassi la presenza e la partecipazione femminile fosse analoga a quella maschile. Per diversi anni (cito solo una delle varie osservazioni possibili) ho fatto parte della Direzione provinciale della Gilda degli Insegnanti e, a dispetto della forte femminilizzazione della categoria, la presenza maschile in questo organismo direttivo è sempre stata maggioritaria, come in gran parte delle province. Si noti che non c'è mai stata una vera competizione, nel senso che in genere i pochi candidati e le pochissime candidate erano appena sufficienti per coprire i posti disponibili. Nei congressi nazionali della medesima associazione professionale la prevalenza numerica degli uomini è sempre stata indiscutibile, così come negli organi dirigenti (e mai una volta una collega se ne è lamentata).

Su un piano statisticamente più rigoroso, un'indicazione di notevole significato ce la può fornire la percentuale delle iscritte ai partiti. Se infatti risultasse che a questo livello minimo di partecipazione la presenza femminile è numericamente equivalente a quella maschile, l'ipotesi della discriminazione all'interno dei partiti ne risulterebbe indirettamente suffragata, anche se ovviamente l'iscrizione non equivale alla effettiva presenza nelle sedi di partiti e movimenti. In altre parole, verrebbe rafforzato il sospetto che le donne - numericamente interessate quanto gli uomini alla politica - "spariscano" poi a causa di meccanismi interni alle organizzazioni di cui fanno parte.

Ma non pare proprio che sia così. Nel 2005 i Ds hanno avuto fra gli iscritti il 69% di uomini e solo il 31% di donne; e questo in un partito nella cui tradizione c'è sempre stata una presenza femminile più accentuata che altrove, specie dagli anni '70 in poi. Quanto a Radicali Italiani, la quota di donne fra i 1743 iscritti del 2005 è ancora più ridotta: solo il 20%, nonostante la nota tradizione di avanguardia dei radicali in questo campo. Non dispongo al momento di altri dati, ma non vedo perché la situazione dovrebbe essere migliore in altre formazioni politiche.

Stando così che le cose, non si capisce come potrebbe esserci la parità di genere nella dirigenza dei partiti e nelle istituzioni. Pur essendo possibile che pregiudizi e riflessi ostili si annidino in alcuni ambienti politici, l'impressione è che l'attuale situazione dipenda in buona parte (come suggeriscono gli approcci culturale e situazionale di cui sopra) da un minore interesse delle donne per l'attività politica e per i ruoli di potere e da più gravosi impegni familiari rispetto agli uomini. Con quale fondamento, quindi, si dovrebbero adottare le cosiddette "quote rosa"? Queste ultime non intaccherebbero minimamente le cause del problema, ma favorirebbero soltanto le donne che si trovano già - per così dire - sul "mercato della politica", introducendo semplicemente una distorsione del criterio che dovrebbe guidare queste scelte, cioè la valutazione delle capacità dei candidati.

Personalmente ritengo senz'altro desiderabile una maggiore presenza femminile; forse però, come dice Emma Bonino - che si è sempre opposta alla tutela del gentil sesso in stile oasi Wwf - le donne devono anche "darsi una mossa", forse anche battersi per una maggiore diffusione dei servizi alle famiglie e magari imporre ai propri compagni e mariti una maggiore collaborazione nei lavori domestici. Nel frattempo ci si augura che la questione sia studiata più a fondo e trattata con maggiore serietà.

Giorgio Ragazzini


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