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Il naufragio
Giuseppe Aragno - 08-02-2006
Il 1956, per Gaetano Arfè, è "l'occasione perduta" dal Pci di Togliatti, fermo sulla linea di Mosca anche dopo l'invasione dell'Ungheria.
Un'occasione nuovamente perduta sarebbe non leggere Millenovecentocinquantasei, un romanzo di Salvatore Casaburi che la Libreria Dante & Descartes ha appena stampato con l'eleganza semplice di chi sa "fare" libri, tenendo assieme le ruvide ragioni del mercato e quelle fini e irrinunciabili della buona scrittura.

Letto d'un fiato, direi, senza scadere nel luogo comune, se non sapessi che nella corsa tra le belle pagine mi sono fermato più volte, quando il racconto mi ha preso per mano e ha ricondotto me a me stesso. Sarà che, leggendo a mio modo, vedo il presente in ogni angolo del passato, sarà che "l'occasione perduta" allunga un'ombra scura sugli anni successivi, sarà che si tratta in fondo di una storia di militanza delusa - e il 1956 è la data di un naufragio che coinvolge più generazioni - di fatto, molti personaggi mi pare di averli incontrati: è che Casaburi ha disegnato gente vera. Certo, Napoli è quella laurina. Non bestemmio però se dico che un po' del "laurismo" vive ancora in tanta parte della città, e non sono eretico se scrivo che nei vicoli della città conosco tanta povera gente che ha poco da scegliere tra il berlusconismo e la corte del governatore che rinnova fasti da viceré. Casaburi questo lo sa e, da buon narratore, cela nelle quinte del passato il teatro contemporaneo che va in scena ogni giorno.

Comunisti sono molti attori del libro, figli di una sinistra uscita dalla guerra nella città che all'inizio affonda della melma materiale e morale della borsa nera e delle "segnorine". Un po' più avanti però, ed ecco, siamo noi.
Marta, la sindacalista di base che si scontra con l'organizzazione perché, si sa, le dicono, non è "quello il modo di condurre le lotte", io l'ho conosciuta.
Tonino Fernandez, un metalmeccanico che mentre la fabbrica chiude, conti alla mano, mostra a padroni e sindacato che non mancano mercato e lavoro, io l'ho conosciuto.
Tutti li ho incontrati e di qualcuno ho un po' indossato i panni.
Uno m'è familiare: Luigi, professore dissidente, che a marzo del 1956, dopo la sconfitta della Fiom, fa coraggio agli amici: "noi la nostra vita, ai padroni, al governo, non la vogliamo dare solo perché sono i più forti e si sono comprati l'Italia!"; Luigi, che "una sera di marzo di un anno qualsiasi" la vita se la toglie disperato e lo trovano "curvo su un dattiloscritto di uno dei suoi libri incompiuti": non ritrovava più i confini tra parti e controparti.

E il 1956, mi chiederete, allora dov'è?
E' la neve, il 1956, il gelo, protagonista silenzioso e ad un tempo eloquente del Millenovecentocinquantasei di Casaburi.
Il gelo che attraversa la città laurina, una città che, più leggi, più senti destinata a vivere anche dopo Lauro, quel gelo che ti si insinua dentro - Casaburi l'ha saputo rendere nella prosa che, con fine esercizio di stile, non consente nulla a slanci di colore o di calore - la neve e il gelo che non coprono solo le strade e le case, ma le passioni e i sogni. Un gelo irrimediabile e irrimediato, che non si scioglie nemmeno nel caldo torrido di luglio, un gelo che si condensa nelle stanze della Federazione del Pci, il partito di Bordiga, Gramsci e della rivoluzione, che gestisce pratiche d'ufficio con burocratica pignoleria: timbro e firma in calce a documenti che altri, altrove, hanno pensato.
Il Millenovecentocinquantasei è un lungo cammino verso un naufragio strategico, che si consumerà negli anni successivi, ma che si annuncia con l'Andrea Doria che cola a picco, con le speranze rapidamente spente a Poznan in fiamme e a Budapest in armi. E' l'occasione perduta, il distacco traumatico, la fatica di vivere, i sogni che abbandonano il campo.

A fine anno - qui mi piace usare tempi di cose andate - il gelo era così intenso che un trafiletto annunciava, "come se fosse la notizia più normale di questo mondo" , che un operaio era "stato licenziato perché svolgeva propaganda comunista nell'ambito dello stabilimento". Cosa da poco. Tutto, scrive amaro Casaburi, sembrava finalmente tornare ad andar bene. In Ungheria "Kadar aveva sciolto i consigli operai, Ekaterina Furstev, autorevole membro del PCUS, portava a Togliatti i cordiali saluti di Suslov. I focolai della rivolta ungherese non si erano del tutto spenti e Concetto Marchesi giudicava i morti, rinunciando alla pietas che avrebbe dovuto conoscere dalla sua cattedra: "ciurme di servi che attendevano i loro padroni per opprimere altri servi"... aveva detto l'insigne latinista".

Ha 83 anni Gerardo, protagonista, del romanzo, quando il nipote gli rimprovera di non raccontargli mai nulla della sua giovinezza. Il vecchio tace. Ma se pensa al 1956 la risposta ce l'ha: "la giovinezza mi abbandonò definitivamente quell'anno".

Tra il nonno e il nipote manca un anello della catena. Chissà che Casaburi non voglia raccontare in un prossimo romanzo com'andata per noi. Vorrei offrirgli uno spunto: sulla tessera della Fgci del 1967, c'era un'immagine di Lenin e sulla sua testa una scritta: "1917-1967. Sulla via dell'Ottobre cinquant'anni fatti da noi".
E' la mia ultima tessera. Poi venne il Sessantotto.

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 Eduardo Mazza    - 07-04-2007
grande salvatore, non per niente è il mio professore d'italiano!!!
riuscirò a leggere quel libro prof...statene certo!!!