Auschwitz
Laurence Rees - 13-01-2005
«Chi nega Auschwitz mi ascolti
Io c’ero, dalla parte degli aguzzini»


Sessant’anni dopo la liberazione del lager, ex SS rompe il silenzio E racconta l’orrore nazista agli amici del club filatelico della sua città


Dopo la guerra Oskar Gröning faceva il manager in una vetreria vicino ad Amburgo, ma nel tempo libero raccoglieva con passione francobolli. Fu a un incontro del circolo filatelico della sua città che alla fine degli anni 80 si trovò a parlare di politica con un altro collezionista. «Non le pare terribile - disse l'uomo - che il governo dichiari illegale qualunque cosa si dica contro l'uccisione di milioni di ebrei ad Auschwitz?» E spiegò a Gröning come fosse «inconcepibile» che tanti corpi fossero stati bruciati. Gröning non disse nulla. Ma il tentativo di negare la realtà di Auschwitz, luogo del più grande assassinio di massa della storia, lo turbò e lo fece arrabbiare. Si procurò uno dei pamphlet negazionisti citati dall’altro filatelico, ne scrisse un commento ironico e lo mandò al collezionista. Subito cominciò a ricevere minacciose telefonate di sconosciuti: la sua denuncia contro i negazionisti dell'Olocausto era stata stampata su una rivista neonazista. Le telefonate e le lettere erano tutte di «gente che cercava di dimostrare che Auschwitz era una grande allucinazione: perché non era successo».

Ma Gröning sapeva molto bene che invece era successo: l'avevano destinato ad Auschwitz nel settembre del 1942, ventiduenne membro delle SS. Fu quasi subito testimone dell'arrivo di ebrei al campo. «Stavo alla rampa - racconta - dovevo controllare il bagaglio del convoglio in entrata». Vide i medici SS separare gli uomini da donne e bambini, poi scegliere chi era adatto a lavorare e chi sarebbe stato mandato subito alle camere a gas. «I malati - dice - venivano fatti salire su camion della Croce Rossa: le SS cercavano sempre di dare l'impressione che non ci fosse niente da temere».

Secondo Gröning, l'80-90% dei primi che aveva visto arrivare furono immediatamente mandati a morire.
Poi vide bruciare i corpi. «Un compagno mi disse: "Vieni con me, ti faccio vedere". Ero così scioccato che rimasi a distanza. Il fuoco guizzava verso l'alto, il kapò mi raccontò poi i particolari dell'operazione. Era disgustoso. Trovava divertente che quando i corpi cominciavano a bruciare sviluppassero dei gas dai polmoni e sembrassero sussultare, che le parti sessuali degli uomini davano luogo a un'improvvisa erezione». Turbato, Gröning andò dal suo capo per chiedergli di essere trasferito a un'unità di prima linea. «Mi disse: "Caro Gröning, che cosa ci vuol fare? Siamo tutti nella stessa barca. Ci siamo impegnati ad accettarlo, a neppure pensarci"». Così Gröning tornò a lavorare. Aveva fatto giuramento di fedeltà; era convinto che gli ebrei fossero nemici della Germania; e sapeva di poter manovrare la sua vita nel campo in modo da evitare di imbattersi nel peggio dell'orrore. Poi scoprì gli aspetti «positivi» di Auschwitz. «Molti di quelli che lavoravano lì erano intelligenti». Quando alla fine abbandonò il campo, lo fece con qualche rimpianto. «A parte i maiali che soddisfacevano le loro inclinazioni personali, la situazione speciale di Auschwitz portava ad amicizie a cui ancora adesso ripenso con gioia».

Incontrare Gröning oggi e sentirlo parlare di Auschwitz è un' esperienza strana. In apparenza, non è diverso da tanti altri vecchi tedeschi benestanti. Indossa abiti di buona qualità, mangia cibi tedeschi sostanziosi, professa opinioni politiche di centro destra. A più di ottant'anni, parla quasi come se a lavorare ad Auschwitz sessant'anni fa fosse stato un altro Oskar Gröning.

Il punto fondamentale, quasi da far paura, è che Gröning è uno degli esseri umani meno eccezionali che si possano incontrare. Non è un folle mostro delle SS, ma un ex impiegato di banca che per sua scelta e per circostanze storiche si trovò a lavorare in uno dei luoghi più infami della storia.
Gröning entrò nella Gioventù Hitleriana quando i nazisti andarono al potere nel 1933. Era convinto di aiutare la Germania a liberarsi delle culture estranee. A diciassette anni entrò in banca. Pochi mesi dopo scoppiò la guerra. E Gröning si arruolò nelle SS. Dopo un paio d'anni fu destinato ad Auschwitz: doveva contare il denaro dei prigionieri e fu subito avvertito che gli oggetti di valore presi agli ebrei non sarebbero stati restituiti. «Gli ebrei arrivano e se non sono abili al lavoro ce ne liberiamo», gli dissero. Fino a quel momento Gröning aveva creduto che Auschwitz fosse un «normale» campo di concentramento.

«Uno shock difficile da digerire all’inizio», afferma. Ma dopo qualche mese si abituò. «Bevevamo un sacco di vodka. Andavamo a letto ubriachi e se qualcuno era troppo pigro per spegnere la luce, le tirava una pistolettata». Nel 1944 la sua richiesta di trasferimento fu infine accolta e Gröning raggiunse un'unità delle SS nelle Ardenne. Ferito in battaglia, nel giugno del 1945 si arrese agli inglesi. Gli fu dato un questionario, e capì che «il coinvolgimento nel campo di concentramento di Auschwitz avrebbe suscitato una reazione negativa». Così scrisse che aveva lavorato per l'ufficio economato delle SS a Berlino.
«Il vincitore ha sempre ragione, sapevamo che le cose successe ad Auschwitz non sempre erano conformi con i diritti umani», osserva Gröning, apparentemente inconsapevole di quanto grottesca possa sembrare una minimizzazione del genere. Con altri SS, fu imprigionato in un ex lager nazista. «Non fu molto piacevole, era una vendetta contro i colpevoli». Le cose migliorarono nel 1946, quando lo mandarono in Inghilterra ai lavori forzati. Tornò in Germania nel 1948.

Poco dopo il rientro, era seduto a tavola con i suoceri quando questi «fecero un commento molto stupido su Auschwitz», sottintendendo che lui fosse stato un «assassino potenziale o reale». «Esplosi - racconta Gröning - urlai che questa parola e questa connessione non avrebbero mai più dovuto essere menzionate in mia presenza, altrimenti me ne sarei andato. Non se ne parlò mai più». Poi Gröning fece carriera nella vetreria, diventando capo del personale. Prima della pensione fu nominato giudice onorario per le controversie legate del lavoro. Ancora oggi è convinto che l'esperienza acquisita nelle SS e nella Gioventù Hitleriana l'abbiano aiutato nella carriera.
«Dai dodici anni in poi - dice Gröning - ho imparato che cos'è la disciplina». Quando infine il suo passato venne allo scoperto (Gröning non cercò mai di cambiare nome o di nascondersi), il pubblico ministero non fece alcuna pressione per incolparlo. In realtà era una situazione tipica. L'esperienza di Gröning illustra come sia possibile essere stati nelle SS, aver lavorato ad Auschwitz, essere stati testimoni del processo di sterminio, aver contribuito alla Soluzione Finale, eppure non essere considerati «colpevoli» dallo Stato tedesco occidentale del dopoguerra. Delle 6.500 SS che lavorarono ad Auschwitz fra il 1940 e il 1945 e che si pensa siano sopravvissute alla guerra soltanto 750 furono perseguite, la stragrande maggioranza dai polacchi.

Per tutta la vita Gröning ha creduto di aver fatto quello che riteneva giusto. Solo dopo l'incontro con il filatelico negazionista, Gröning si è deciso a parlare apertamente del periodo trascorso nel campo della morte. Una volta andato in pensione e saputo che non sarebbe stato condannato dalle autorità tedesche, ha deciso che non aveva niente da perdere a confrontarsi con il passato. «Vorrei che mi credeste - dice -. Ho visto le camere a gas, i forni crematori, i camini. Ero sulla rampa al momento delle selezioni. Vorrei che credeste a queste atrocità: perché io ero là».

Laurence Rees

autore del libro The Nazis and the Final Solution
Guardian Newspapers 2005 / Bbc Books
(Traduzione di Monica Levy )

Corriere della Sera

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