Con l’ago e il filo doppio
Giuseppe Aragno - 09-10-2004

Da bambino mi affacciai raramente nella parte di pianeta abitata dalle donne. Mi ci accostavo inquieto, come una barca che affronta la burrasca, e tornavo di corsa sui miei passi, senza voltarmi indietro. Ogni volta, però, tornato al riparo, mi portavo negli occhi le illusioni soavi di un caleidoscopio, tutto vetri e pietruzze rilucenti: nulla che avesse a che fare con il sesso, di cui non sapevo e che non riconoscevo nemmeno in mia madre, angelo e diavolo che abitava l’inferno e il paradiso. Una donna era per me l’abito che indossava – vissi in un tempo di insuperabili discriminazioni sessuali in fatto d’indumenti – e, in quanto al resto, tutto ciò che in qualche modo conducesse l’abito al corpo che copriva, mi risvegliava il dolore misterioso d’una ferita invisibile e profonda, un graffio nella mente, un colpo antico, inferto a tradimento da un coltello inatteso, in una notte mai più terminata, alla fine d’una corsa impazzita, negli anni dell’infanzia violentata. Per un po’, di quella ferita, sentii con orrore il calore del sangue che colava e rimasi atterrito, ma presto lo stillicidio trovò canali interni in cui defluire e sfuggì alla guardia dei sensi, benché mia madre cucisse e ricucisse la ferita con l’ago e il filo doppio delle sue accuse a mio padre, che di ago e filo doppio si serviva a sua volta replicando.
Come un baco da seta che si imbozzola, chiusi nel sangue raggrumato di quella ferita il coltello che me l’aveva inferta e, nel fondo irraggiungibile dell’animo, rimase il bozzolo infetto di sangue annerito. Emise a lungo un fetore di fogna, acuto e nauseabondo, e, prima di sparire, mi procurò, negli anni della mia agitata adolescenza, un’inquietudine frequente e devastante; ne coglievo i sintomi improvvisi nel fastidio causato dal muoversi incontro, dal reciproco curvarsi, o anche solo sfiorarsi, di abiti maschili e femminili, dentro i quali cominciavo a riconoscere uomini e donne, nel palpitare agitato del cuore in petto di fronte ai gesti e alle parole dell’amore intuiti nell’ombra di un vicolo, disegnati su locandine dei film, persino nell’abbraccio di parenti: in tutto ciò che avesse odore o colore di contenuti d’abiti avvicinati. Non so perché, eppure l’inquietudine si fece tormento, quando un moto vitale mi prese e mi spinse curioso ad esplorare la mia ancora inconsapevole mascolinità ed a giocarci con puerile lascivia. Come un lampo mi torna alla memoria - e ancora m’inquieta - il senso di colpa doloroso e soffocante che me ne derivava e mi induceva a pregare non so bene che Dio, affinché, per quella che sentivo come una intollerabile vergogna, alla quale, tuttavia, non sapevo sottrarmi, mi facesse meritatamente soffrire le pene dell’inferno.
Poi l’inferno finì: non ne chiesi più le pene e i desideri torbidi dell’adolescenza sembrarono bruciare in un sol fuoco memoria, paura e miasmi del grumo perso dio sa dove. Dentro mi rimase il camino di un vulcano quiescente, sepolto sotto strati di lava sedimentati da scordate eruzioni, e il futuro mi si fece presente: divenni uomo, ignaro come tutti del futuro, immemore del mio passato e dei legami oscuri che il tempo andato aveva col tempo che sarebbe venuto.
Uomo - come non mancò di osservare compiaciuto, mio padre, per una volta stranamente attento - chiusi la voglia di lotta fisica nei campetti di calcio della periferia, portiere biondo e lunatico, che strabiliava e indisponeva per le sua pazze capriole, le sospensioni magiche del volo, i tuffi delle uscite a catapulta su attaccanti lanciati a tutta corsa e per gli imprevedibili strafalcioni delle giornate storte e dei palloni facili diventati d’un tratto irraggiungibili e beffardi. I palloni, come i pensieri, quasi avessero un’autonoma capacità di calcolare traiettorie e parabole alternative. Ai pensieri toccava zittirsi, al portiere accettare il coro feroce dei rari spettatori: “tirate in porta, ca ‘o portiere è scemo!”.
Uomo, come annotò grossolano ed ironico al liceo il professore fascista: e lo guardai negli occhi come fa un uomo che non ha paura.
Uomo, come registrai da solo, per i mille cambiamenti del corpo, sui quali preferivo non fermarmi.
Uomo, benché nella parte di pianeta abitato dalle donne, continuassi a spingermi assai poco e senza mai fermarmi: scorribande veloci, sconfinamenti brevi lungo sentieri ignoti. Un andare e tornare, mai per chiedere o dare. Poi vetri e pietruzze rilucenti, esplose d’un tratto dal caleidoscopio, portarono il pianeta fino a me.


Allora avevo ancora dentro fili interi. Non grovigli celati alla luce infelice della coscienza, non trame soffocanti di viluppi, nessun ricordo di trucidi coltelli imbozzolati. E se provo a domandarmi cosa ancora ricordi di quegli anni, quando la giovinezza non era ancora storia e non avrei mai pensato che mi sarebbe toccato di provare a ricostuirla, spiegarla e non capirla, bene, ciò che ancora ricordo con maggior chiarezza fu proprio quel pianeta che sbucò s’improvviso all’interno del nostro, come un cratere che si apre entro un cono già in fiamme. Le donne: un mondo - il mondo - messo a fuoco in una camera oscura e rivoltato -quella sì, quella davvero fu rivoluzione - un, mondo nato ai margini dell’altro in cui vivevo, e diventato d‘un tratto l’occhio della terra.
Le donne, vetri e pietruzze rilucenti, d’età diversa, condizione varia, eppure equivalenti, solidali, senza ufficiali e soldati: stesse parole di un linguaggio antico.
Non lasciatevi incantare dall’inganno del tempo. Lo so, voi le vedete oggi, piegate su stesse dal saldo in rosso che abbiamo accumulato con la vita. Peggio, assai peggio. Voi le vedete disanimate, neutralizzate, nelle dosi prescritte di pellicola tagliata, ridotta, censurata, stravolta e montata con inesorabile perizia tecnica, dagli eterni soldati di ventura della manipolazione televisiva, che prestidigitano la storia nei documentari o raccontano chi fummo e insieme che facemmo. Voi le vedete, come pupazzi abbigliati secondo comune regole formali, intruppate nei cortei della protesta, bocche che urlano, ma non hanno la voce o le parole, stereotipi al femminile d’una generazione ridotta a merce di consumo intellettuale, simboli commerciabili di un eterno luogo comune: il contrasto tra generazioni. Ma è una bestemmia.

Chi le ha viste lo sa: fu come sognare. Anna Kuliscioff, Maria Rygier, Angelica Balabanof, Maria Verone: mi sembrò che incarnassero i modelli che avevo dell’universo ribelle femminile. E loro no, loro ostinate e nuove, mi cambiarono l’universo e mi tolsi dalla testa la tentazione di fare accostamenti. Non c’era modello che tenesse: facevano politica secondo libertà, opponevano il riso e il pianto, le unghie e i denti all’antica bestialità di lacrimogeni e manganelli. Donne, come finalmente le vidi in un pianeta unico in cui vivere insieme - e pensai fosse per sempre - corali, uguali, dignitose pensarono un mondo nuovo e ci strapparono tutta quanta la parità che si poteva.
Nulla di tutto questo resta. Nelle manipolazioni dei soldati di ventura le donne sono pupazzi vestiti secondo una maniera, intruppati nei cortei della protesta, con le bocche che urlano senza voce o parole. Furono invece bellezza trasparente, corpi lievi che ballavano tenendosi sottobraccio senza toccare terra, furono dita veloci su corde di chitarra, sfrontate mani in alto sopra la testa, i pollici contro i pollici, gli indici contro gli indici, e trovarono parole che hanno scalato montagne.
Donne, riprendiamoci la vita!”, incitarono alcune, annunciando rivolta. Altre, più semplici e immediate, ma concrete e rivoluzionarie, ci avvertirono: “le donne escono dalla cucina”. E se alcune, già sposate e affaticate, strinsero il pugno chiuso, affiancando i compagni e urlarono sul viso ai questurini:
"E sorde so’ pochi e nun ponno abbastà!
E sorde so’ pochi e nun se po’ campa’!
"
subito si sentirono quelle che gridavano, lucide e conseguenti:
"donne unite, donne unite,
tutta la vita dobbiamo cambiare,
per questo, per questo vogliamo lottare
".
Mi pare di sentirle e vederle, le donne, vetri e pietruzze rilucenti, esplose dio sa come dal caleidoscopio che pareva un altro pianeta, mentre ci lasciavano indietro, nel nostro sogno di un mondo migliore che non prendeva mai corpo; tenevano, con le mani avanti al petto, il lungo striscione rosso delle femministe: contro tutte le oppressioni.
Anche contro la nostra. E questo ci separò, più di quanto non ci avessero uniti le barricate che provammo a fare assieme per la casa, il lavoro, la pace, il divorzio, l’aborto. Le dighe nelle quali oggi si aprono brecce. Perdemmo così nelle piazze, dove pure le avevamo incontrate, le mogli che avremmo avuto, e per noi, figli del patriarcato, oppressori che facevamo le lotte egalitarie, fu impossibile sentire quanto vero e profondo fosse lo strappo nella famiglia che non c’era e sarebbe venuta. Le nostre compagne, belle, lucide e conseguenti, capaci d’inseguire l’invisibile concretezza dei sogni, fecero della parità possibile la loro bandiera. A noi era rimasto dentro l’ossigeno maschilista respirato da bambini, e un desiderio smisurato di quel potere contro il quale facevamo la guerra. Tutto troppo difficile e veloce, tutto accaduto in un tempo troppo breve e troppo presto concluso.
Avessi avuto modo di capirlo, avrei alzato dei muri, ma tutto fu troppo veloce e sasso e pietruzza mi si presentarono insieme in una figurina contegnosa e bruna. L’attrazione fu subito fortissima.


Giovanna mi abitava di fianco, porta a porta, a Vico Zuroli, nel cuore di Forcella. Non me n’ero mai accorto. Era tutta occhi profondi e neri e subito mi parve che dentro vi corressero i pensieri elevati. Aveva in più, ma non me lo dicevo, capelli ricci e corvini attorno a un viso acceso e appassionato, sul quale si apriva un sorriso ammaliante. Per mesi ci contrapponemmo. Io rifiutai di prendere in considerazione il seno che le spuntava sul torace, troppo grande per le sue spalle ancora infantili, e i fianchi che si andavano allargando sulle cosce diventate forti, sotto una gonna che non stava mai ferma, e lei, Giovanna, si studiò, con incredibile innocenza, di dimostrasi donna.
Tutto accadde sotto gli occhi dei parenti; la madre di Giovanna, soprattutto, pittrice torinese d’una sensibilità nervosa e riservata, piccola e tonda, capitata dio sa come in quel budello a ridosso dell’antico decumano, nel cuore della della Vicaria spagnola – e mia madre, attenta e impenetrabile, che pareva facesse la guardia.
Più volte capitò che seduti di fianco per ripetere assieme la storia – quella, di disciplina, c’era parsa fra tutte la più adatta a ripassare assieme – ci toccammo. Più volte, antichi flash produssero disagio nel mio petto e spensero la luce nei miei occhi. Più volte ricacciai fantasmi e ripresi a parlare di storia.
Lei sedici anni, io ventiquattro, tra la sua testa e le sue mani vidi la luce del mondo.
Tutto quanto voleva, se l’avessi potuto, le avrei dato: ma non chiedeva nulla.
Per quello che facevo e pensavo io ero il regno della libertà, il signore dei sogni, il padrone del tempo. Il futuro era già nel presente – forse che non l’amavo per la sua indipendenza? – ma lo leggi il futuro, solo quando s’è fatto passato.
Facemmo assieme una corsa lunghissima, senza tirare mai una volta il fiato. Corremmo avanti, quanto bastò per intrecciare radici profonde, per amarsi senza capirsi, scegliersi senza conoscersi, legarsi per non separarsi, incatenarsi dopo aver buttato via le chiavi del lucchetto.
Facemmo una corsa lunghissima – corsa in avanti – senza guardarci più attorno.
Un fuoco d’artificio.
Se il suo liceo occupato ebbe fama d’inviolabilità, io ci entrai ed uscii: nel movimento avevo un qualche nome ed una posizione estrema.
Marx, di cui tutti parlavano a casaccio, lo leggemmo e studiammo nel gruppo delle intelligenze fini che splendeva allora in città, e lei, acutissima, corresse più volte Lucia, che se a scuola di marxismo della Rossanda avrebbe fatto poi strada e faville, già mostrava l’ambiguità che l’ha condotta a destra.
Se ad altri servivano parole, a noi bastavano il silenzio ed un cenno della testa; quando negli altri il silenzio svelava un gelo d’incomprensioni, noi avevamo le infinite parole dell’intesa. Dividemmo tutto: i sogni e la realtà: una l’idea di sinistra, una la prospettiva, uno il fastidio estremo dei teoremi.
Teoria e prassi – le dicevo, ridendo.
Prassi e teoria – rispondeva battendo il palmo della bella mano sul mio palmo aperto.
Una corsa lunghissima senza prendere mai una volta fiato. Il nostro tempo se ne andò accompagnato dagli accordi della sua chitarra e disegnato sulla tela dal pennello col quale fissava in pochi tratti una sua umanità senza confini.
I miei fantasmi sembravano svaniti e, per quello che sembrava necessario, ci demmo regole e fummo di una chiarezza senza fine.
- Un figlio se lo vorremo in due.
- Un figlio se lo vorrai.
- Se tu ti stancherai…
- Te lo dirò.
- Senza tradire.

Una volta, d’un tratto, un’ombra oscurò il cielo: la donna che sarebbe nata era già nella sua testa. Io però non la vidi.
In piazza c’erano stati morti e da tempo qualcuno tirava fili oscuri. Ad un corteo sotto la pioggia mi calai sul viso un passamontagna e a pugno teso in alto mi strinsi ai compagni inferociti. Puntò i piedi come un purosangue che rifiuta l’ostacolo, disse in soffio:
- E così che lo vogliamo un mondo nuovo? Se tu vuoi, va bene, resta pure. Io però me ne vado. Sono stanca di rivoluzionari che ricorrono agli stessi simboli e comportamenti del potere contro il quale si scagliano. Basta con questa storia della libertà rivoluzionaria. Noi non abbiamo un ideale superiore. Noi vogliamo potere. In tutto questo non c’è nessun valore superiore.

Su un sogno di liberazione, lei poco più che bambina, io uomo appena, costruimmo una vita e una prigione. Ci ingabbiò la natura politica dei rapporti di coppia nella famiglia borghese che avevamo distrutto dentro di noi e volemmo vivesse.
Giovanna non suona più e l’ultima volta che ha messo il pennello sulla tela ne è nata una testa di donna tra Medusa e Cassandra. Non dipinge più Giovanna e il ritratto di Andromaca, che con angoscia scoprii di aver sperato volesse dipingere non è mai nato. Piuttosto non ha più dipinto. La corsa un giorno si fermò: teoria e prassi ormai discordavano, parole e silenzi non trovavano più l’antica sincronia.
Ognuno aveva una sua verità e non sapevamo nemmeno se l’amore fosse finito.
Eravamo finiti noi com’eravamo e, al momento di patteggiare una resa, l’uno non era più più nemmeno riconoscibile per l’altra. Per mio conto, ritrovai un’inquietudine frequente e devastante; ne colsi i sintomi improvvisi nel fastidio causato dal muoversi incontro, dal reciproco curvarsi, o anche solo sfiorarsi, di abiti maschili e femminili, dentro i quali erano chiusi di nuovo uomini e donne, nel palpitare agitato del cuore in petto di fronte ai gesti e alle parole dell’amore intuiti nell’ombra di un vicolo, disegnati su locandine dei film, persino nell’abbraccio di parenti: in tutto ciò che abbia odore o colore di contenuti d’abiti avvicinati.
Nel petto e nella testa, i I fili che parevano doversi spezzare rimasero apparentemente intatti, ma dove le tensioni avevano sfiorato lo strappo, si formarono a poco a poco nodi insidiosi e tenaci e una rete complicata di bava setolosa, un viluppo di maglie via via più strette, un invisibile filtro che mi ingolfò la testa con scorie di sensazioni, brani di immagini condotti alla coscienza da lampi di invisibili flash e frammenti di pensieri, sepolti chissà dove nella loro interezza. Più la trama crebbe e si avvinghiò al respiro della vita, più la logica segreta dell’ordito mi sfuggì e, come un ragno smarrito nel suo tragico labirinto, mi scoprii prigioniero di fili, che si intrecciavano per moto spontaneo in una ragnatela soffocante. Stretto in quel groviglio, scoprii un altro me stesso, nascosto in un’ombra inesplorata.
Terrorizzato, lo lasciai dov’era.


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