Architetti di spazi e di luce
Andrea Bagni - 25-05-2004
Il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del Primo Ciclo di Istruzione (6-14 anni) di Bertagna-Moratti è un testo a suo modo straordinario. Suggerisce alcune riflessioni sul rapporto fra sapere, scuola, sfera dell'esistenza personale. E può mettere in crisi qualunque insegnante (e qualunque genitore credo).
Si disegna il ritratto a tutto tondo di un pre-adolescente che sa gestire la sua irrequietezza emotiva e la comunica senza disagio (...); è in grado di pensare al proprio futuro dal punto di vista umano, sociale e professionale (...); elabora esprime ed argomenta un proprio progetto di vita (...); ha coscienza dell'immensità del cosmo (poco sotto si precisa infatti che sa usare in modo mirato motori di ricerca); conosce le regole e le ragioni per prevenire il disagio (...); avverte interiormente la differenza fra il bene e il male (...); riesce ad immaginare e progettare il proprio futuro (...); sa porsi le grandi domande sul mondo, sulle cose, su sé e sugli altri, sul destino di ogni realtà, nel tentativo di trovare un senso che dia loro unità... e così via.
Insomma è uno che ha risolto tutti i problemi riguardo la sua identità, il suo corpo, il suo destino esistenziale. Sa della complessità del mondo e la sa risolvere; è in contatto costante col suo mondo emozionale e lo sa comunicare.
Più che il pre-adolescente sembra il post-umano. Chi di noi adulti o dei nostri figli/e (non passati per la scuola della Moratti) può aspirare a tanto? Superate inquietudini, nessun problema a comunicare le emozioni, ma quando mai...
E' un cucciolo divino dell'armonia universale, questo piccolo dio delle grandi cose. Anzi è Persona - naturalmente all'interno di un corpo organico, comunitario, che ne garantisce lo sviluppo onnicomprensivo e armonioso.
Cioè sotto controllo.
Come può essere che si realizzi in otto anni di scuola questo ennesimo miracolo italiano (ma certi “sogni”, quando sono programma di un potere istituzionale, forse sarebbe meglio chiamarli incubi)?
Perché la scuola di questa modernizzazione tecno-spirituale berlusconiana è una specie di fabbrica della vita, sensibile agente morale di una personalizzazione organicistica.
Non perde nulla della dimensione buro-pedagogica che aveva connotato anche il centrosinistra, ma cancella ogni residuo (ecologico) senso del limite, integrando nel suo percorso privo di deviazioni possibili, l'intera esperienza personale di chi apprende e di chi insegna. L'intera vita. Il bio-potere ha la sua scuola, e non lascia niente fuori di sé, tutto integrando nella formazione del corpo e dell'anima del suddito dell'impero; fondamentalismo e funzionalità da ingranaggio produttivo si sposano religiosamente. La didattica infatti non è questione di scambio, ma neppure di rapporti (ancora segnati dalla dimensione fredda dei ruoli), bensì di relazione educativa che si fonda sull'accettazione incondizionata dell'altro (...); ci si prende cura l'uno dell'altro come persone: l'altro ci sta a cuore, e si sente che il suo bene è anche la realizzazione del nostro (Indicazioni Nazionali per i Piani di studio personalizzati).
È curioso perché si toccano qui argomenti – il coinvolgimento personale nelle pratiche di scuola, la dimensione relazionale del sapere, la complessità olistica di ogni conoscenza, la centralità della motivazione nell'apprendimento – che sono stati tipici di una riflessione radicale e giustamente critica della scuola burocratizzata e tecnicizzata (ad esempio quella dell'autoriforma gentile).
Adesso però sono fatti propri e riprodotti come da uno specchio deformante nella megamacchina produttiva non di diplomi e professioni ma addirittura di Progetti di vita. I processi viventi, la relazionalità didattica, inglobate in un Piano dell'Offerta Formativa spiritualizzato; il coinvolgimento appassionato e gratuito, nel mansionario del profilo professionale come una sorta di vocazione altruistica istituzionalizzata al Bene del fanciullo...
Si parla anche di storia personale degli allievi e narrazione nei documenti ministeriali, ma è un trucco. E qui forse è il nodo centrale del discorso.
La storia dello studente è infatti una costruzione di Piani di Studio Personalizzati, nei quali si traducono in Unità di Apprendimento gli Obiettivi Specifici d'Apprendimento, mediati dagli Obiettivi Formativi attraverso i quali conoscenze e abilità possono diventare competenze (c'è sempre una santissima trinità dei documenti pedagogici ministeriali), cogliendo le dissonanze cognitive e non cognitive nelle biografie giovanili che possano giustificare la formulazione di obiettivi formativi, coerenti col maggior numero possibile di obiettivi specifici d'apprendimento e col Profilo. E la competenza è poi quella cosa da nulla definita capacità di conferire senso alla vita. (Peraltro è da notare come l'uso delle maiuscole in tutto il testo della riforma ricordi straordinariamente i documenti delle Brigate Rosse: forse perché l'orizzonte di salvezza è effettivamente simile).
Nell'insieme, insomma, una costruzione di ingegneria etica che mattone dopo mattone, sotto la guida della scuola e della famiglia (anzi dell'istituzione scolastico-familiare) innalza l'edificio armonioso della vita verso il cielo.
(Mi viene in mente la giovane “tirocinante” che mi raccontò della didattica delle ssis, nella quale il fare scuola veniva sempre smontato e rimontato in tanti pezzettini per costruire un edificio e mai visto come un paesaggio. In fondo domina sempre l'immagine dell'insegnante vasaio - magari contro quella del mero “versatore” di sapere nella testa vuota dei discenti - e mai quella del giardiniere, architetto di spazi e di luce...).
Non c'è libertà infatti in questo processo. Dunque nessuna possibilità di imprevisti: sarebbero solo un fallimento del percorso programmato, uno strappo alle “relazioni educative”, dove non è previsto conflitto (se non verso i cattivi maestri, non degni di emulazione, sembra suggerire il Profilo).
Niente libertà, niente imprevisti, dunque niente narrazione. Niente che si possa raccontare solo dopo, ricostruire attraverso le vie che ha preso nel tempo. Il tempo è già tutto conquistato dal progetto e l'armonia organicistica (che ha trasformato la vita stessa delle ragazze e dei ragazzi in obiettivo scolastico sensibile), non prevede deviazioni. Non prevede attraversamenti di qualcosa che sia e resti altro da sé. Da non ricondurre all'ovile della scuola e della famiglia.

Verrebbe voglia di chiedere: ridateci Vertecchi con la sua valutazione oggettiva, oppure Lucio Russo con i suoi segmenti contro i bastoncini.
E invece no. Bisogna resistere.
Amelie Nothomb ha raccontato in una buffa storia piuttosto acida, Dizionario dei nomi propri, la vicenda di una bambina che – quoziente d'intelligenza straordinario come il nome, Plectrude – non riesce tuttavia ad imparare a leggere. Finché non le capita un libro dalle figure meravigliose fra le mani. Allora quegli strani segni d'intorno forse vale la pena decifrarli – e in una settimana la piccola impara tutto quello che c'è da imparare sulla lettura (con grande rabbia della maestra, che non ha capito come non si impari nulla di significativo se non c'è un desiderio dietro).
Certo è antica e sempre forte la tentazione di ritrovare senso e valore nel rigore del sapere e nella solidità di una tradizione. Però è nostalgia di un bene-rifugio privato e elitario, che continua a separare il sapere dalle sue pratiche di elaborazione. E non funziona se non con i già funzionanti e selezionati. È anche sballata credo l'idea che si debbano gettare ragazze e ragazzi semplicemente nel caos del sapere esploso, proliferazione postmoderna di reti e passaggi interdisciplinari. Così come l'esaltazione di una sorta di adesione emotiva fusionale fra soggetti e oggetti dello studio: un cortocircuito (come ha scritto Chiara Zamboni) che rischia di cancellare entrambi, azzerando quel gioco di distanze e vicinanze che lascia intatta la differenza e salva davvero la soggettività e la sua possibile lettura del sapere: comunque qualcosa d'altro con cui misurarsi e prendere le misure di se stessi.
Ma il punto è che il campo delle discipline può aprirsi, dall'interno della sua specificità, alle domande ai dubbi ai desideri di ragazze e ragazzi. Ed è questa una forma di conoscenza anche per noi della vecchia generazione – che non abbiamo solo da temere (per la nostra solidità e prestigiosa autorità “maschile”) ma anche da imparare in questa continua messa in discussione. Che è elaborazione comune. Apertura anche ai nostri di desideri.
La scuola è un luogo di incontri, un incrocio da cui partono vie anche imprevedibili, aperte in quel campo magnetico dai soggetti che vi arrivano portando la loro storia, la loro cultura, il materiale e l'immaginario.
Qui bisogna stare per negoziare spostamenti, fare significato, sapere, traduzioni e codici simbolici.

A me pare che negli attraversamenti, irriducibili alla trasmissione “paterna” di conoscenze per tutti gli usi, stia il sapere oggi.
In una zona di frontiera – non un sistema di visti e dogane con cui tenere sotto controllo tutte le voci del coro. Una zona politica di confronto pubblico, aperta, senza sintesi preordinate.
E non penso solo all'incontro di culture, biografie, storie collettive, etnie diverse. Penso a un'adolescenza che per definizione (e per fortuna) è ricerca irrequieta di non si sa bene cosa; che non si lascia assorbire mai interamente dalla scuola, ma (quando va bene) la interroga, la contesta - oppure la soffre e s'annoia (quando va male). Ma essendo sempre altro da lei. Irriducibile. Non c'è una regia superiore possibile, stile il Christof che abita nel sole (o nella luna) in Truman show. Si tratta di stare in questa incasinata piazza, sapendo che non è l'ufficio (pre)personale dell'azienda, di accumulazione del capitale conoscitivo; né la cattedrale di edificazione dell'anima. Soprattutto non è le due cose insieme.
Ci sono bisogni, dubbi e desideri fuori delle scuole, che entrano ed escono dalle aule. Spesso ragazze e ragazzi mandano in classe, disciplinate, le loro controfigure studentesche. Dateci il diploma e non chiedeteci altro per favore: le passioni e le cose che c'interessano le teniamo per noi, ben protette altrove.
Qui facciamo quello che ci dite di fare, ma voi lasciateci in pace almeno (ogni tanto si esprimono così le mie ragazze di quinta; spesso le più brave). Ma poi ti chiedono anche libri per loro alla fine dell'anno, tirano fuori interessi mai visti e addirittura talvolta li portano all'esame: autori e temi per nulla trattati a scuola. Gratuiti, incontaminati. Salvi.
E qualche volta capita anche che un argomento sorprendentemente funzioni, per loro, a modo loro. La madre di Cecilia famosa di peste, e “la Lupa” di Verga: figure sacre-maledette, maestose fra sesso e maternità, amore desiderio e morte. Immagini femminili di un “assoluto” che parla ancora, credo, a loro e a noi, dell'essere donne e uomini. Delle passioni e delle nostre vite mai compiutamente progettate.
Oppure incrocia molte crisi religiose l'etica laica leopardiana, da fratelli precari ontologicamente fragili, orfani di un senso universale garantito da qualche padre; che abitano la possibilità e conoscono per mancanza, come nella poesia di Emily Dickinson. E perfino il corpo in dissoluzione panica d'annunziano, qualcosa forse dice alla pelle sovrascritta di piercing e tatuaggi che spunta fra jeans rasoterra e t-shirt. In fondo, come ha scritto Guido Armellini, i classici devono continuamente confermare con le nuove generazioni di essere tali. Non è facile per nessuno la scuola.
Penso che anche l'insegnamento scientifico – bestia nera sembra dei nostri studenti – guadagnerebbe senso e passioni se si presentasse ogni tanto come storia di problemi (e dunque di ricerca e dubbi anche) piuttosto che come sistemazione di conoscenze, classificazione di fenomeni, sempre un po' con la pretesa della definitività. Se se ne recuperasse la dimensione narrativa di intreccio di immaginazione e rigore, dove ogni sistemazione è tappa parziale della ricerca, e ogni percorso abbandonato, un percorso abbandonato e non solo un errore. Penso che sarebbe possibile per qualcuno fra i banchi “conquistare” un argomento, ed esserne conquistato. Non è sempre questo doppio movimento da andata e ritorno da se stessi la storia di un apprendimento; non parte dalla percezione dei dubbi e dei problemi l'esperienza riproducibile di una scoperta...
Ma una cosa è fare i conti nel lavoro sul sapere con questa alterità delle generazioni, un conto è pensare di assorbirla, assimilarla in un percorso iperscolastico pervasivo e onnicomprensivo. Tutta la vita e la propria biografia, nel curriculum vitae da esibire in un Port-folio.
Sempre sogni di onnipotenza in queste modernizzazioni del terzo millennio.
Il novecento alla fine forse è duro a morire, soprattutto per la destra.

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