Verso la scuola delle illibertà?
Pino Patroncini - 14-02-2004
Su un giornalino sindacale francese c’era una vignetta con quattro personaggi. Uno diceva: “Sapere”. L’altro: “Saper fare”. Il terzo “Saper essere”. “Già! – diceva il quarto – il problema è come tenerli insieme”. Se invece di far coniugare questi tre obiettivi ai nipotini di Paperino in un “safares”, dall’ammiccante e perfido sapore avventuroso, al Miur si fossero posti questo problema forse la legge 53 non avrebbe la dimensione devastante che ha.
E d’altra parte il fatto che oltralpe il problema si ponga in questo modo, con molta più consapevolezza della semplice e ovvia tiritera su “sapere, saper fare e saper essere”, di moda ormai dagli anni settanta, ci dimostra che la discussione è aperta ben oltre i nostri confini nazionali. E ci dimostra anche che le polemiche sulle soluzioni da dare a questo “intreccio” non sono vieta propaganda dei “soliti comunisti”, per i quali, a sentir qualcuno, l’Italia sarebbe una specie di parco di ripopolamento, tanto più preoccupante ora che i bambini non i limitano a mangiarli, ma li portano persino alle manifestazioni..

Scuola, lavoro, società e…. tempi di vita

La questione insomma è aperta ovunque, almeno in Europa, a prescindere dalla radicalità dello scontro politico e della storia delle forze politiche che lo animano.
Assistiamo in questi anni ad un fenomeno che consiste nell’orientarsi di sempre maggiori masse studentesche verso studi più “generalisti”, rispetto ad un periodo in cui la gran massa degli studenti si instradava verso studi professionali o tecnici. Non è un caso che quel periodo e quel fenomeno corrispondesse ad un momento di sviluppo della grande industria e che coincidesse, in anni diversi da paese a paese, al primo boom della scolarizzazione secondaria.
Il fenomeno ha diverse cause. Sicuramente incide su questa scelta dell’utenza la consapevolezza che la complessità del mondo moderno richiede una preparazione culturale di base più ampia, tanto più oggi quando la mutabilità continua del quadro economico richiede capacità di ri-orientarsi nel mercato del lavoro. Ma è comunque un po’ difficile pensare a un genitore che quando fa la scelta per il proprio figlio pondera con precisione i pro e i contro da questo punto di vista. E’ più probabile che questo motivo agisca attraverso le altre concause che partecipano alla definizione della scelta: una disponibilità economica nelle famiglie maggiore di quanto non fosse negli anni cinquanta e sessanta, una serie di fattori di prestigio sociale, la sensazione che gli studi rispondano più a un bisogno di orientamento nella società moderna, a un diritto di cittadinanza, che non a sbocchi lavorativi immediati. Ma agisce anche il rinvio di una scelta professionale che a 14 anni è difficile da definire, nella grande maggioranza delle famiglie.
Si tratta di fattori che sono in diretta connessione con le modificazioni dei tempi di vita dei giovani i quali oggi ci stupiscono con la maggiore permanenza nelle famiglie d’origine o lo spostamento in avanti dell’età dei matrimoni, tutte cose anch’esse surdeterminate, magari attraverso superficiali fatti di costuma, da un insieme fattori materiali.

Il fenomeno in Europa.

Sta di fatto che il fenomeno è presente ovunque. In Italia ha assunto la veste di una diminuzione costante di utenza dell’Istituto tecnico a favore dei licei, ma ultimamente ha investito anche l’istruzione professionale. Quest’ultima era stata invece finora parzialmente beneficiata dall’allungamento dei propri percorsi scolastici e dall’innalzamento dell’obbligo scolastico a 15 anni. Il ritorno a 14 anni come termine dell’obbligo scolastico, coincidente con un calo dei passaggi dalla terza media alla prima superiore pari all’1,6%, ha dato la prima botta. Le notizie sul passaggio alle regioni con annessi e connessi hanno fatto il resto.

In Francia, dove il “collège”, la scuola media quadriennale, copre anche il nostro biennio di secondaria superiore e , per questo, ne prevede due paralleli, uno generale e uno tecnologico, ancora nel 1990 166.000 allievi frequentavano il settore tecnologico. Nel 2002 erano appena 42.500, all’incirca in 10% dell’utenza. Pur non essendo vincolanti nelle scelte questi due bienni sembravano studiati per indirizzare o ai licei generali o a quelli tecnologici e professionali, secondo la canonica separazione francese. Oggi però non è più così. Solo la metà di quel 10% che frequenta il biennio tecnologico si orienta nei licei professionali, mentre del restante 90% che proviene dal settore generale solo il 23% prosegue nei licei professionali. Infatti nella secondaria superiore francese alla crescita della scolarizzazione complessiva che ha portato gli studenti dei professionali francesi dai 400.000 del 1960 ai 700.000 attuali e i liceali dai 450.000 del 1960 al 1.500.000 attuale, si è accompagnato progressivamente uno spostamento dell’utenza, sicché da un rapporto quasi paritetico dei due rami si è oggi grosso modo al rapporto di uno a due.

In Germania, del cui sistema duale i nostri governanti decantano le virtù (di cui però i tedeschi stessi e le inchieste internazionali dubitano!), nel 1952 il 72% degli alunni frequentava la Hauptschule, vale a dire la scuola tecnico-professionale tedesca ed appena l’11,3% il liceo, che lì si chiama Gymnasium. Nel 2000 la Hauptschule era scesa al 22,3%, il Gymnasium era salito al 29,3%, mentre il grosso dell’utenza scolastica stava nei settori intermedi costituiti dalla Realschule (24,5%), grosso modo corrispondente al nostro Itc, o nelle scuole a più percorsi o a percorso integrato , come la Gesamtschule, (18,4%).

In Spagna, dove negli anni ottanta si era registrato un aumento degli afflussi alla Formazione Professionale, grazie a finanziamenti campagne e progetti di potenziamento messi in campo dai governi socialisti, questa non ha mai soddisfatto più del 39% della scolarizzazione secondaria. A fronte di un sistema liceale imperniato su un “bachillerato” ultra-classico, il sistema spagnolo sta creando notevoli problemi all’economia iberica: è risaputo, dicono i giornali economici madrileni, che un sistema economico evoluto dovrebbe avere almeno il 60% di tecnici e operai specializzati e la Spagna si trova ad avere percentuali praticamente invertite.

Governare la società o irreggimentarla?

Il caso spagnolo mette in luce più di tutti come la scuola può produrre squilibrio nelle risorse umane anziché conformarle ai bisogni, anche quelli più immediati ed elementari, della società. Non siamo più infatti all’indomani della seconda guerra mondiale quando le esigenze di uno sviluppo industriale centrato su settori chiave, unito ad un accesso agli studi secondari ancora ridotto, consentiva di appuntare tutta l’attenzione su un’architettura scolastica scheletrica e relativamente semplice e di cui soprattutto era garantito, per tutti, utenti e committenti, il rapporto causa effetto. Con il boom della scolarizzazione si è introdotta una variabile imponderabile determinata dalla scuola come “consumo di massa”, per cui oggi, se vuole essere all’altezza della situazione, una riforma scolastica deve caratterizzarsi non solo per essere un’opera di architettura istituzionale, ma anche un’operazione di governo della società, delle sue tendenze, di orientamento dei comportamenti sociali in campo educativo direttamente o indirettamente indotti dal sistema economico e dai suoi effetti sulla vita quotidiana.
In altre parole c’è da chiedersi se a fronte di una società che già per conto suo si attrezza ad un percorso scolastico dalle connotazioni culturali “generaliste”, tale da rinviare i percorsi professionalizzanti a età più avanzate, la netta separazione in due tra un sistema di studi liceali e un sistema di avviamento professionale risponda al bisogno espresso da questa tendenza e alla necessità di governarla. D’altra parte non questo o quel governo, questo o quel singolo progetto politico, ma l’insieme dello sviluppo e degli interventi, a volte anche contraddittori, finora operati, hanno determinato una storia della secondaria superiore italiana che si è mossa nel senso di una sempre maggior omogeneizzazione dei percorsi, talché oggi esiste una graduazione tra licei tecnici e professionali molto più attenuata di quella che c’era in origine.
Anziché una licealizzazione spinta della secondaria superiore, con un pendant professionale distanziato in termini ordinamentali, organizzativi, didattici e istituzionali, non sarebbe stato meglio proseguire sulla strada dell’omogeneizzazione? Per fare fronte ai problemi della dispersione, che si accampano a pretesto della scelta segregante, non sarebbe stato meglio intervenire sulle pratiche didattiche, invece che sugli ordinamenti? Non ci insegna niente il fatto che paesi con sistemi fondati sul dualismo educativo come la Germania, dove è praticamente “proibito” il percorso liceale al di sotto di certi rendimenti verificati a 11 anni, abbiano visto lo sviluppo non del settore professionale, ma di quelli intermedi? Non è stato questo un vero e proprio aggiramento della “proibizione” da parte della società tedesca?

Casa delle libertà e scuola delle illibertà.

In altre parole a chiunque abbia un po’ di sale in zucca non può non apparire chiaro che la licealizzazione spinta, ancorché sia un risposta inadeguata ai bisogni di formazione culturale di massa, non arresterà il flusso in direzione degli studi “generalisti”. Anzi questa tendenza sarà accentuata dalle caratteristiche “praticone”, su cui già ora si fanno promesse, della nuova istruzione professionale, dalla sua veste non statale ed anche non scolastica, dal suo carattere di percorso di seconda scelta. Le magnifiche e progressive sorti di tecnologie avanzate e di professionismi competenti esistono solo nelle illusioni dei cosiddetti buonsensisti, i quali tutt’al più possono sperare di ritagliarsi qualche nicchia dorata nell’istruzione professionale regionalizzata. La realtà è già oggi quella di corsi improvvisati per tappare i buchi derivati dall’improvvida abolizione della legge 9 e dell’obbligo scolastico a 15 anni ed elevati al rango di sperimentazione del futuro sistema. Il tappabuco elevato a sistema: un’ottima metafora del futuro che aspetta questo settore scolastico, se ancora lo si potrà chiamare così.
Oggi nel nostro paese il 36% degli alunni della secondaria superiore frequentano i licei, il 37% gli istituti tecnici, il 23% l’istruzione professionale, il 4% l’istruzione artistica a sua volta divisa in licei e istituti d’arte. Da un punto di vista “strutturale” il liceo, pur pensato come scuola della teoria pura, come vorrebbe un autorevole documento ministeriale, non arriverebbe al 40% delle scelte. Ma nessuno può escludere che, una volta arricchito dai nuovi indirizzi, il suo appeal reale, con un’alternativa appiattita sulla formazione professionale regionale, non solo si mangerebbe in un boccone la quota degli alunni frequentanti gli istituti tecnici, ma invaderebbe persino l’area dell’attuale istruzione professionale.
Visto il profilo vertiginosamente astratto della licealizzazione all’italiana, che promette di confinare tutto il sapere aggettivabile nel settore dell’istruzione e della formazione professionale, corriamo il rischio di trovarci nella stessa situazione della Spagna. Anzi: dal punto di vista numerico in una situazione persino peggiore!
Orbene, per far tornare a tutti costi i conti, la Spagna ha pensato di ovviare a questa situazione sostituendo all’orientamento degli alunni l’incanalamento forzato sulla base dei risultati conseguiti al termine del primo anno di secondaria inferiore. Più o meno ciò che da sempre si fa in Germania, da cui gli spagnoli hanno copiato parte del sistema. Ciò di cui da alcuni anni parlano i francesi, per rinverdire una separazione tra corso generale e corso tecnologico che, come abbiamo visto, nel cuore e nel cervello della gente ha sempre meno senso.
Fatta la prima operazione di segregazione scolastica tra liceali e professionali, quando sarà chiaro che questa romperà gli equilibri attuali senza dare i frutti sperati, dovremo assistere anche da noi a questa ulteriore forzatura? La marginalizzazione di educazione tecnica nella scuola media e le voci sul rientro almeno parziale del latino, che fanno tanto tornare in mente la prima fase della scuola media unica, quella in cui c’era l’opzione latino-tecnica, ne costituiscono un’inquietante anteprima? Assisteremo come in Spagna e in Germania ad un incanalamento precoce e forzato? Ad ostacoli e proibizioni gabellate per orientamento?
Insomma: dalla Casa delle libertà avremo una scuola delle illibertà?


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