Alla mia cara maestra
u.d.g. - 31-01-2004
Tanti bambini ai funerali di Zfira, 47 anni, una delle vittime dell’attentato di Gerusalemme

Eli, la maestra che insegnava a non aver paura

I bambini si tengono per mano. Un po’defilati, intimiditi da quei signori in divisa e in armi che presidiano il cimitero.
Fa freddo a Gerusalemme. Ed è un freddo che gela anche i cuori di chi è presente a quella mesta cerimonia.
Una bambina, Noa, ha in mano un sassolino e attende il suo turno per deporlo sulla tomba, come è usanza ebrai-ca.
E come lei fanno gli altri bambini. C’è chi posa sulla tomba anche un bigliettino per salutare la «cara maestra» che non c’è più. Noa è accompagnata dalla madre, Yael. La giovane donna fa fatica a trattenere le lacrime parlando di Eli Zfira, 47 anni, la maestra di Noa, una delle dieci vittime dell’attentato suicida dell’altro ieri a Gerusalemme: «Eli - dice - era una maestra eccezionale e una donna straordinaria.
Insegnava in una scuola sperimentale ed era amata dai suoi alunni, per la sua dolcezza e per l’entusiasmo con cui trasmetteva i suoi insegnamenti». Il piccolo David deposita sulla tomba un bigliettino in cui c’è scritto: «Alla mia cara maestra. Non ti dimenticherò mai». Prima di recarsi al cimitero, molti bambini, con le loro mamme, sono tornati sul luogo dell’attentato. Non c’è più traccia dell’orrendo massacro perpetrato da un kamikaze palestinese.
Le tracce di sangue sono state lavate. La carcassa dell’autobus sventrato dall’esplosione è stata rimossa. Le finestre dei palazzi mandate in frantumi dalla deflagrazione sono state rapidamente sostituite. Gerusalemme cerca di non pensare al ventinovesimo attentato che l’ha sconvolta, e di ritrovare una pa-venza di normalità . Ma è un’impresa improba. Sul luogo dell’esplosione vi sono tante fiammelle ancora accese, in ricordo di quelle dieci vittime innocenti di un odio insaziabile. Un odio che Eli Zfira non conosceva. «Ai suoi studenti - racconta Uri, il padre del piccolo Yos-si, un altro alunno di Eli - la signora Zfira insegnava ad aver fiducia nel prossimo e a continuare a vivere nor-malmente, nonostante gli orrori che ci circondano». Una normalità fatta di tante piccole cose: come portare i bam-bini a vedere una mostra o al cinema: ciò avveniva sovente, almeno una volta ogni dieci giorni. Normalità per Eli significava anche recarsi a scuola con l’autobus. «Quante volte - ricorda Meir Rubinstein, un suo collega - le avevo offerto di darle un passaggio con la mia automobile. L’autobus non è sicuro, le dicevo. Ma lei quasi sempre rifiutava, perché, spiegava, non prendere l’auto-bus, non andare al cinema o al risto-rante, era già darla vinta ai terroristi».
Salire su un autobus; fare compere in un supermarket; recarsi una sera a cena in un ristorante. A Gerusalemme ciò significa sfidare la sorte e un terrori-smo che ha trasformato ogni luogo della normalità in un possibile campo di battaglia.
Eli Zfira amava molto insegnare. L’insegnamento era il centro della sua vita. «Spesso - racconta ancora Meir - rimaneva a scuola anche dopo la fine delle lezioni, per preparare quelle del giorno dopo o per discutere sulla dispo-nibilità economica dell’istituto a far fronte alle tante richieste di materiale didattico». Una delle ultime discussioni del collegio degli insegnanti a cui aveva partecipato, riguardava le misure di sicurezza da adottare contro la minaccia terroristica. «Eli - dice Dalia, una sua collega - si era battuta perché la scuola assomigliasse il meno possibile ad un fortino. Dobbiamo fare il possi-bile, ripeteva, per non traumatizzare ulteriormente i bambini». Alla fine, le finestre delle classi furono rafforzate, all’ingresso dell’istituto fu montato un metal detector ma Eli riuscì a evitare che l’entrata della palestra fosse blindata.
Nei giorni della guerra in Iraq, quando c’era il rischio di attacchi missilistici da parte irachena, i bambini ve-nivano a scuola con la loro maschera antigas. «Eli - ricorda Yael - organizzò una sorta di “ballo in maschera”, colorando le maschere antigas, cercando di trasformare in gioco una situazione di pericolo».
Ogni giorno, Eli Zfira leggeva la paura negli occhi dei suoi allievi. E ogni giorno cercava di restituire a quei bambini la gioia dell’infanzia che i «grandi» provavano a rubar loro. «Eli - racconta ancora Dalia - non chiude-va gli occhi di fronte alla realtà, ma non voleva che questa realtà, segnata dalla paura e dalla violenza, travolgesse i bambini». La poesia. I computer. I corsi di recitazione. L’ideazione di fumetti. Gli incontri con artisti e personaggi del mondo della cultura, dello spettacolo e dello sport che Eli invitava periodicamente a scuola perché fossero sottoposti a mille domande dei bambini.
Era la conquista della normalità il sogno che Eli Zfira cercava di realizzare ogni giorno con i suoi piccoli allievi.
Ora quel sogno è stato spezzato per sempre. Su quell’autobus che Eli pre-deva ogni mattina, sfidando la sorte, scommettendo sulla vita. «Quando hanno appreso della sua morte, centinaia di bambini sono rimasti in lacrime», racconta il preside. Quei bambini hanno chiesto che la scuola fosse intitolataalla loro maestra. Per ricordarla nel tempo.

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