Roma: 29 gennaio 1944
Grazia Perrone - 12-01-2004


Alle 12,25 del 29 gennaio 1944 sei uomini armati irruppero improvvisamente in una casa sita in via Urbana, 2 (angolo via Ruinaglia) in Roma.

Tre di essi – in divisa – erano soldati tedeschi. Gli altri tre – in borghese – italiani.

In casa – in quel momento – erano presenti sette uomini.



Don Pietro Pappagallo (che, in quella casa, ci abitava) il colonnello Roberto Rendina, l’ing. Pompeo Resta, Venanzio Nesta, due ufficiali e un soldato dell’esercito italiano che non avevano voluto arruolarsi con i fascisti di Salò.

Furono messi tutti faccia al muro e sorvegliati a vista da una SS: gli altri cinque cominciarono a perquisire l’intera abitazione.

Portarono via una borsa di pelle contenente dei timbri e dei documenti in bianco ma … non trovarono quello che cercavano e che gli era stato suggerito dallo “spione” di turno (c’è, quasi sempre, questa, squallida, figura dietro tutti gli arresti effettuati dalla polizia segreta fascista): l’elenco degli uomini ai quali il sacerdote aveva fornito documenti falsi per sfuggire alla cattura e darsi alla macchia.

L’elenco c’era – incollato dietro una grande fotografia della, defunta, mamma del sacerdote. I nazisti videro la fotografia ma … non la girarono.

I poliziotti, però, “erano del mestiere”. Rimasero in quel “covo”, ormai scoperto, fino a tarda sera per catturare tutti coloro i quali si recavano da don Pietro.

La loro tenacia fu premiata. Il maggiore Michele Gualtieri e Peppino Caldarola furono catturati e condotti, insieme agli altri, in via Tasso dove don Pietro ebbe la sorpresa – quando fu condotto al primo interrogatorio - di incontrare un uomo che, essendo un suo concittadino, conosceva benissimo. Ma lo ignorò.


Il prof. Gioacchino Gesmundo.

Era stato catturato qualche ora dopo (alle 17 del 29 gennaio) [1] ma era irriconoscibile: il volto tutto nero di percosse, la fronte sanguinante, gli occhi gonfi e neri.

Per lui – la cui casa era, di fatto, la sede de l’Unità clandestina (edizione romana) – la sentenza di morte era già stata emessa.


Nella sua casa infatti, oltre ai libri e al materiale editoriale, i nazifascisti trovarono alcuni chiodi a tre punte abbondantemente usati dai partigiani contro le colonne autocarrate tedesche. Si trattava di attrezzi micidiali per la loro efficacia poiché riuscivano a strappare i copertoni dei camion in modo irreparabile, bloccando intere colonne (specie se i chiodi venivano utilizzati su carreggiate strette e in curva) e danneggiando seriamente i mezzi.

Sentenza già scritta, dunque. Ma gli aguzzini non avevano fretta di eseguirla.

Dovevano “torchiare” il prigioniero. Prima.

[1] Nell'abitazione del prof Gesmundo furono arrestate e condotte in via Tasso - il 30 gennaio 1944 - due combattenti partigiane: Maria Teresa Regaud (Medaglia d'argento della Resistenza) e Lina Trozzi che fu processata col Gesmundo. Condannata a dieci anni fu deportata in Germania. Il 29 aprile 1945 fu liberata – dall’esercito alleato – dal carcere ed istituto di custodia femminile di Aichac (in Baviera) nel quale era rinchiusa. Nonostante fosse stata, duramente, interrogata dai “bravi ragazzi” di Salò per nove giorni consecutivi la Trozzi riuscì a scagionare la Regaud (che, una volta liberata, tornò nella clandestinità) dicendo che era una compagna di Università incontrata, per caso, in strada.

Nota a margine: Le informazioni e le foto utilizzate per scrivere questa nota sono state tratte da due libri del prof. Antonio Lisi:

Don Pietro Pappagallo: un eroe un santo – Libreria Moderna, Rieti, 1995
Gioacchino Gesmundo: l’altro martire di Terlizzi – Ass. Pro Loco Terlizzi - 1993






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 GIOACCHINO GESMUNDO    - 09-08-2010
Grande grande grande GESMUNDO E DON PAPPAGALLO, UN ABBRACCIO...