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Sotto le macerie le antiche parole
Il Manifesto - 08-04-2003
Apro il giornale, accendo la tv: sulle cartine geografiche (stiamo imparando nuovi nomi di citta'), frecce guerriere si estendono a sud, aggirano i grandi agglomerati, risalgono, scavalcano i fiumi e si perdono da qualche parte, prima di Baghdad. Le citta' bombardate sono decorate da stelle colorate, simbolo delle esplosioni, che sugli schermi televisivi lampeggiano: forse per rendere il simbolo piu' realista. In questi ultimi giorni, dai primi di aprile, sembrava che le frecce si fossero piantate nella sabbia in attesa di rinforzi.
Notte a Baghdad. L'obiettivo fisso registra vampe di fuoco in cielo. Le luci della citta': qualche macchina, alcuni camion, qualcosa che assomiglia alla vita di tutti i giorni.
Gli inviati speciali, da qualche parte nel sud - non possono precisare dove si trovano - riferiscono alcune voci, che il giorno dopo saranno smentite dagli uni e riprese dagli altri. La carcassa di un blindato carbonizzata, alcuni civili lungo una strada.
Qualche immagine girata da Al Jezeera (una strada commerciale di Baghdad, i feriti in un ospedale). Alcuni reporter, impassibili, ci ripetono cio' che gia' sappiamo, cioe' non molto. Usano i loro videofoni perche' fa piu' "diretta", piu' "live". La trasmissione ne risente, non c'e' sincronia tra la voce e il movimento delle labbra, ma poco importa: non li ascoltiamo, turbati dalle reiterate deformazioni delle loro facce. Non appena si riesce a distinguerle si decompongono in quadratini bianchi e blu, prima di ricomparire per un attimo, troncate e come divorate da una piaga tecnologica che avrebbe certamente affascinato Bacon.
Reporter inseriti ("embedded") nelle unita' militari; reporter in Kuwait, a Baghdad; dichiarazioni dello stato maggiore; discorsi di Saddam, riprodotti dai canali arabi. La "strategia della comunicazione" ha cambiato anche il paesaggio audiovisivo, ma in una situazione di guerra l'immagine appare per cio' che e': un miraggio, un nonluogo per eccellenza. Le immagini non possono illustrare una situazione della quale non sappiamo granche' - e certo non possiamo aspettarci di saperne molto prima che sia giunto il momento, prima che tutto sia finito. Dunque, se le fanno vedere, e' per tenerci li' ad aspettare il seguito per tutto il tempo che ci vorra', facendo finta di dirci qualcosa.
Alcuni giorni fa mi trovavo a Londra, e nella mia camera d'albergo guardavo "Skynews": in Iraq, nei pressi del confine del Kuwait, un reporter inglese si e' trovato in mezzo a un gruppo di adolescenti chiassosi, e scambiando le loro grida per segni di entusiasmo ha commesso l'errore di porgere il microfono a uno di loro. Il ragazzo ha approfittato dell'occasione per esprimere cio' che pensava di Bush con un gesto significativo, mentre i suoi compagni scandivano: "Saddam!
Saddam!". Il povero reporter, per un attimo travolto dagli eventi, e' stato costretto a dire ai telespettatori che i sentimenti degli iracheni erano "misti". Se non avesse avuto l'infelice idea di dare la parola a quei ragazzi, la loro vivacita' avrebbe potuto essere interpretata in tutt'altro modo.
Luogo, nonluogo: coloro che hanno coscienza di essere aggrediti, invasi, scoprono improvvisamente il proprio attaccamento allo spazio nel quale vivono. E ne fanno un luogo, accettano di legarlo a un passato comune, di esprimere solidarieta' che ancora poco prima non erano affatto scontate. In altri termini, prendono coscienza della loro identita'. La lezione non e' nuova. Neppure i principi europei che dovettero entrare in azione a due riprese per liberare la Francia dal suo dittatore imperiale pretendevano di farsi anche amare dai francesi. Il nonluogo della guerra e' quello dei turisti con tanto di casco e armi blindate, missili e aiuti alimentari, che si stupiscono, fuori da casa loro, di non essere piu' a casa loro; fuori dal linguaggio, di non riuscire a farsi capire; fuori dal diritto, di incontrare la violenza.
L'errore del governo americano ha origine dal suo disprezzo per i valori che erano - comunque li si valutasse - quelli della democrazia americana. Certo, sappiamo da tempo che la storia degli uomini spesso si fa anche con le parole, ma raramente ne abbiamo avuto una dimostrazione piu' cinica, o peggio ancora, piu' allucinata. Oggi, ci sarebbe solo da sperare che gli attuali dirigenti americani siano davvero interessati solo al petrolio e al dominio, e non credano molto in cio' che dicono.
Ma purtroppo e' ben piu' probabile che ci credano, cosi' come credono in Dio: con la fede sanguinaria dei convinti, che peraltro non esclude, come dimostra la storia, il perseguimento di interessi materiali.
L'aspetto piu' terrificante delle immagini e dicerie con cui si pretende di informarci e' che le parole, lungi dal dare un senso alle immagini, hanno perso il loro significato. La democrazia, i diritti umani, la liberta', i fini umanitari: tutte nozioni massacrate dai bombardamenti di una retorica arrogante, tracotante, ingarbugliata e cialtrona. Come le citta' in rovina, le macerie semantiche testimoniano il trionfo della farneticazione. Basta parlare! Vedremo quello che ci sara' da vedere.
Prova di forza. Ed ecco che si formulano alternative impossibili in guisa di ultimatum. Ci si ingiunge di scegliere: il dittatore di Baghdad o i nostri liberatori, i terroristi o i democratici, il tradimento o la guerra, e tra poco l'islam o il vangelo. Tutte le parole nascondono tranelli, tutti i ragionamenti sono insidiosi, tutti i dibattiti falsati. Questo vicolo cieco, questo nonluogo semantico dove nessuno riesce piu' a ritrovare le strada non e' meno temibile delle immagini tuttofare della tv.
La guerra e' dappertutto e da nessuna parte. Le immagini la mostrano, le immagini la mascherano. Le parole fuggono, le parole mancano. Quando le parole torneranno, sara' per dirci quel che le immagini non riuscivano a tacere. Che questa guerra non si doveva fare.

Marc Augé

Articolo segnalato da Alberto Biuso, che chiosa:

L'articolo è di Marc Augé, uno dei più originali antropologi europei; è lui che ha coniato il concetto di "non luogo" per riferirsi a tutti quegli spazi senza identità che costellano la nostra civiltà. Augé è anche un difensore del paganesimo (e quindi incontra tutta la mia approvazione...) sia classico che africano. A proposito, quando spiegavo ai miei studenti l'imperialismo ottocentesco, leggevo insieme a loro i versi nei quali Kipling difendeva il valore morale del "fardello dell'uomo bianco", che sacrifica se stesso per portare la luce ai popoli tribali e pagani; gli studenti -ingenui!- mi chiedevano come fosse stato possibile un tempo in cui si credeva al valore morale di simili comportamenti; e ora? non si fa la guerra per portare la libertà -quindi il supremo valore- non è ancora questo il "fardello del cow-boy"?

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