Masetti ringrazia
Giuseppe Aragno - 09-01-2003
Cultura della memoria e necessità di restituire alle parole il significato che esse ebbero nel contesto storico in cui furono pronunziate non sembrano più appartenere ad una società in cui al rigore dello studioso si vanno sostituendo la studiata approssimazione dell’opinionista e l’artificiosa neutralità del politologo; una società in cui trovi ad ogni angolo chi è pronto a certificare la morte della storia e ad utilizzare, deformandole, le punte arretrate della fatica storiografica per dare dignità scientifica a formule strampalate e slogan che la fanno da padroni. Impera il paradosso e c’è chi s’innamora di se stesso, tirando fuori per far colpo la “rivoluzione conservatrice”, un non senso che si carica sulle spalle di Renzo De Felice – i morti, si sa, possono difendersi – il quale danni magari ne fece col suo revisionismo, ma tenne molto alla verità documentale e non volle scadere sino alla speculazione politica. Si scrive e si parla a destra ed a manca di guerra civile per dire Resistenza – è una bestemmia si sa, ma è di moda e si può, così si sta nel vento e il vento di poppa guida, spinge verso onori e prebende, che volere di più? – si scrive e si parla di Risorgimento lombardo ed anzi bergamasco, per tornare a dividere l’Italia, si esalta il processo di integrazione europea, mentre gli europei fanno tutti i giorni i conti con l’aborto estraneo ai popoli prodotto da banche e banchieri in un penoso decennio. Un’Europa esaltante, così si scrive, come se essa avesse davvero qualcosa a che spartire con quella sognata dai suoi promotori. Altiero Spinelli, ad esempio il quale, poveretto, ridotto alla follia di Ugolino, starà chissà dove nel rifugio dell’anima mangiandosi pagina a pagina il suo bel Manifesto di Ventotene.
Si legge di tutto e, ciò ch’è peggio, di storia si straparla. Ci sono parlamentari che ne mettono sotto tutela politica l’insegnamento e c’è un esercito di pennivendoli, velinari, opinionisti, memorialisti e reduci della scandalistica carta patinata, che ad ogni piè sospinto si esercita nella foibistica, nel savoiardismo, nella conciliazione degli opposti in un nome di un nuovo pacifismo: quello del dopoguerra, degli anni che sono passati e dei morti che sono tutti uguali. Regna sovrana nell’ideologia della “non ideologia”, la storia che non pronuncia condanne morali e si suicida nella palude della neutralità. Sempre, comunque e costi quel costi.

In questo desolante panorama occorrerebbe davvero essere riconoscenti a Grazia Perrone per la sua bella e limpida lezione di storia, fatta secondo le regole dell’arte, usando i fatti del passato per leggere il presente. Regola aurea cara Grazia che, utilizzando correttamente i ferri del mestiere provi a difendere dalla canea montante dei polemisti travestiti da storici, che ritenendo la ricerca storica un percorso da equilibristi sul filo teso del tempo trascorso, non cercano nel passato le chiavi di lettura del presente, ma le pezze d’appoggio per giustificarlo.
Delio Cantimori, storico insigne, davanti a documenti d’archivio si toglieva dal capo l’eterno cappello. I revisionisti, invece, “prendono cappello” irritati, perché i documenti – maledetta carta straccia da mandare al macero – smentiscono le loro storielle che piacciono tanto al Delfino.
Grazie, quindi, collega, per averci ricordato che la guerra si propone spesso di imbrigliare e inibire le istanze di emancipazione sociale delle classi deboli. Due precisazioni consentimele, in nome della necessità di correttezza di cui parli all’inizio del tuo bel tentativo di andare “Oltre il pacifismo”. Osservazioni marginali, che nulla tolgono alla qualità dell’intervento.
Salandra non precipitò il Paese nella catastrofe del conflitto per tenere a freno i sovversivi nelle piazze. Altri tumulti vi furono anzi successivamente, meno gravi certo, ma densi di significato, un anno dopo la Settimana Rossa: le radiose giornate di maggio. Solo che in piazza stavolta c’erano borghesi nazionalisti che la guerra la volevano. Salandra ne interpretò con freddo cinismo le istanze nettamente minoritarie, in un paese che nella sua stragrande maggioranza la guerra proprio non la voleva e, spalleggiato dalla corona, mise il paese di fronte al fatto compiuto, firmando a Londra un patto che – esautorando il Parlamento - avviò una così grave crisi dello Stato liberale, che il suo drammatico epilogo condusse al fascismo. In quanto alla Settimana Rossa, la sconfitta patita nel giugno 1914 non segnò la fine delle ideologie anarchiche. Non fu così, anzitutto perché non si trattava di ideologie, ma di ideali che alimentano ancora i sogni di tanti militanti – e posso dirlo senza suscitare sospetti, perché anarchico non sono – in secondo luogo perché dopo la guerra gli anarchici furono spesso protagonisti nella storia del paese. Basterà che tu li cerchi nella vicenda convulsa del “biennio rosso” o in Spagna, nelle brigate internazionali, impegnati a combattere franchisti e nazifascismi e te ne convincerai.
Brava, comunque, per aver ricordato Masetti, del quale invio a Fuoriregistro copia di una foto conservata a Roma nell’Archivio di Stato.






Pensa un po’, Grazia, per tirarlo fuori dal manicomio criminale in cui l’aveva gettato un Procuratore del Re, si mobilitarono persino i nostri emigrati in Sudamerica. Esistono ancora in archivio – e fanno venir voglia di togliersi il cappello assieme a Cantimori – schede di sottoscrizione giunte dall’America con le lunghe file di nomi, qualcuno scritto a matita, di poveri lavoratori che ne chiedevano la liberazione.
Continua a raccontarla ai tuoi studenti la nostra storia, così come hai fatto per noi e, se posso permettermi di offrirti uno spunto di riflessione, racconta anche cosa fu dei compagni di Masetti, mandati a penare nelle famigerate “compagnie di disciplina”, spediti al fronte a scannare ed a farsi scannare per la “grandezza della patria”. Soprattutto quale fu il loro destino quando, infine, nacque questa nostra fragilissima repubblica, quella che i soliti pennivendoli hanno preso a numerare: la prima, intendo, perché ora c’è chi ne conta una seconda. E qui si apprezza ancor più la valenza politica del tuo discorso sulle parole correttamente. Dico politica e non me ne vergogno.
Tirati fuori dalle galere, scesi giù dai monti sui quali avevano combattuto la guerra partigiana contro i nazifascisti, i compagni di Masetti furono tutti immediatamente “presi in consegna” da un angelo custode, un questurino ex fascista, transitato armi e bagagli nella repubblica antifascista e tenuti sotto stretto controllo. Di nuovo sovversivi, come il loro antico compagno Masetti, come Pinelli, che era innocente, ma preso da follia si lanciò da una finestra della questura di Milano mentre lo interrogavano per la strage di Piazza Fontana. Antifascisti, certo, ma “pericolosi” per una repubblica che di democratico aveva soprattutto la carta costituzionale: quella che non a caso oggi non va più bene e va “aggiornata”. Di qualcuno di quei “sovversivi” ho seguito le tracce sino agli anni ’60 del secolo scorso. Bene. I rapporti di polizia che li riguardano partono di là dove si erano interrotte le note dei funzionari del duce. Uno di quei funzionari – per intenderci – che accolse Pertini a Milano dopo Piazza Fontana e gli tese la mano che il leader socialista rifiutò disgustato: era la mano del suo aguzzino fascista. Ce n’erano a migliaia, centinaia di migliaia nell’Italia di quegli anni, ovunque nei gangli vitali dei centri del potere di un paese che, nascendo, aveva immediatamente rinunciato ad epurare – Sforza si dimise per questo – aveva “perdonato” tutto e quasi tutti, lasciando che il veleno fascista si riciclasse a suo piacimento.
Racconta anche, collega, questo ai tuoi studenti, alla vigilia della televisiva inchiesta sul “mistero” della morte di quell’anima innocente di Mussolini, avvenuta pochi giorni dopo che il duce aveva detto di no a Sandro Pertini – ancora lui quel maledetto partigiano - gli offriva la resa, gli garantiva l’incolumità fisica ed un equo processo. Poni, anzi poniamoci, una domanda: qual è stato storicamente il rapporto concreto tra dissidenza politica e potere costituito? Oggi, che la parola anarchico evoca – grazia ai media indipendenti e colti – gli incappucciati di Genova, oggi che i no global possono essere portati in una caserma, sequestrati e picchiati, qual è questo rapporto? Quale, quando un magistrato può impunemente incarcerare Caruso utilizzando il codice fascista? Qual è il filo rosso che lega tra loro i diversi volti del potere nostro paese? Riflettere su questi argomenti, insegnare la storia sulla scorta dei documenti che abbondano in archivio – di là viene la garanzia della ricostruzione storica della vicenda del nostro paese, non certo da commissioni parlamentari che di essa sono parte evidentemente in causa – porsi domande di questo genere sarà per caso fare politica a scuola ed occorrerà tacere? Pazienza, dopo la legge Cirani che consente di ricusare i giudici che hanno la pretesa di giudicare, faranno una legge anche per noi: per ricusare docenti che hanno la pretesa di ragionare.

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