Squadre e squadristi
Piero Di Marco - 22-11-2002
La sgradevole sensazione di una brutta aria, diciamo un po’ squadrista - tranquillamente, borghesemente squadrista - ha cominciato a insinuarsi negli ultimi anni, e si pecepisce andando in giro per la città, leggendo i giornali, guardando la televisione.
Un venticello, un’inclinazione insomma culturale, di linguaggi diffusi, di atteggiamenti e di modi di fare, che diventano piano piano normali, che non fanno più scandalo, annegati come sono nel rumore di un’informazione rumorosa, di una televisione drogata, di una conversazione spesso impaziente e tirata via.

Molti di noi ricordano certi pratoni della periferia, o certi campetti in terra battuta magari di parrocchia, dove si giocava a pallone per ore e ore, tra ragazzini.
Chi veniva da una casa agghindata, chi da un appartamentino di operai, chi era romano, chi era appena immigrato dalla provincia e odorava ancora di
pane paesano e di fumo di camini, la parolacce si specavano in tutti i dialetti, e pure qualche pugno - in mezzo a tante risate, prese in giro, battute e ghiaccioli all’amarena.
C’erano i prepotenti, c’erano i timidi, quelli che giocavano con gli occhiali legati con l’elestico, quelli con gli scarpini e quelli con le scarpe marroni con i lacci, quelli secchi come stecchini e quelli grassi e
grossi come oche, sempre rossi e sudati.
Non c’era legge e non c’erano arbitri, in quei pratoni, ma qualche regola fondamentale esisteva, ed era più ferrea di qualunque legge scritta: non si menava uno con gli occhiali, non si andava in due o tre contro uno solo, non si colpiva da dietro, non si usava la mazzafionda perché era un gap tecnologico sfacciato, e pure pericoloso. Il temperino, chi ce l’aveva
doveva tenerlo in tasca.
Non è che mancasse il ragazzino che di tanto in tanto violasse quelle regole, o non ci provasse: ma era subito fermato, più con un coro di pernacchie che con le mani, o almeno si faceva una cattiva fama asai dura a morire.
Il marchio, il grido più ricorrente, in questi casi di violazione, era quello del “ve se sapete mette’” e quello più generale e legislativo , un’epigrafe: “Questo è Sleale”.

Vent’anni fa sono sparite le lucciole - come ci aveva fatto notare Pasolini - e si vede che la lealtà faceva parte dello stesso ecosistema.
Non è sparita la lealtà, naturalmente, ma è certamente sparito il suo valore sociale e la sua natura di virtù: è diventata una corrente di pensiero, un
optional.
Lo è diventata anche nello sport, e in particolare nel calcio.
Questo è un fenomeno importante – velenosamente importante - dato che nello sport e nel calcio in
particolare tanti e tanti ragazzini imparano a vivere, sia perché lo praticano, sia perché lo guardano e ne assorbono i comportamenti.
Lo è diventata non solo sui campi, ma anche nelle discussioni che si fanno intorno al calcio, nel criterio delle valutazioni, nei comportamenti, nei giudizi.

Come tutti i fenomeni perversi, anche lo squadrismo nasce da un vuoto, e precisamente da questo vuoto di lealtà.
Lo squadrismo è violenza sleale, di tanti contro uno. Violenza esagerata, che ha i toni e le parole, i gesti, che manifestano l’ansia di distruggere, di umiliare come più è possibile, colpendo a caso la competenza professionale o la persona, il lavoro e la vita sessuale, l’aspetto, le virtù e le debolezze, la razza, la religione, la città di provenienza.

C’è lo squadrismo politico, naturalmente, che interessa relativamente i più giovani, i quali lo percepiscono però indirettamente come fenomeno ambientale – in una società televisiva, tutto ciò che gira nei vari canali rappresenta una sorta di paesaggio che riguarda un po’ tutti.
Apparati poderosi, formati da tre emittenti e una decina di giornali d’ispirazione berlusconiana,
show-man, nani e ballerine, giornalisti e opinionisti che si sono buttati per mesi e mesi a insultare i magistrati: uno per uno, con nome e
cognome, dal come portano i capelli alle indagini, a fuoco concentrico, con tutte le ingiurie possibili.
Milioni di persone condividevano - legittimamente - le critiche di merito che venivano fatta a quei magistrati: ma avrebbero dovuto rimanere rattristati dalla violenza, dalla pretestuosità e dalla slealtà dei modi in cui era portata l’aggressione.
Questo non è avvenuto.

Lasciamo stare la politica, e passiamo al calcio, che è assai più vicino al panorama mentale dei ragazzi, sostituendo o sovrapponendosi spesso alla
scuola nel processo pratico dell’educazione.
Ci sono trasmissioni televisive dove c’è un coro di giornalisti e di opinioni, spesso tutte concentrate contro qualcuno - un presidente, una società, una città.
Una gara a chi trova l’insulto più triste, anche se generalmente mascherato da una compìta ipocrisia lessicale.
Dieci contro uno, cento contro uno, e chi ha il temperino lo tira fuori, e se qualcuno porta gli occhiali peggio per lui: mirare sulle lenti dà un gusto ancora maggiore, e tutti applaudono e soggnignano.
Il fatto che - nella pratica, forse casualmente, forse no - le televisioni e i giornali appartengono ad una certa area, e che quindi i soggetti presi di
mira ad un’altra, è in fondo secondario. La cosa è semmai un dispiacere in più per chi - come me, come noi - appartiene a quest’area “altra”.
Allo stadio ci sono i cori dei buu-buu verso i giocatori di colore – africani, brasiliani, arabi – e verso quelli conosciuti come ebrei. Si mettono in cento, in mille contro uno, per annichilirlo e umiliarlo. Su questi casi di squadrismo razzistico c’è poco da dire, dato che la sua nefandezza si illustra da sé: ma è forse lo squadrismo che più degli altri penetra nelle menti dei ragazzini.

Recentemente una ragazza, un’attrice, ha avuto un’uscita imprudente e offensiva verso una squadra e una società di calcio, durante una trasmissione sportiva.
Si è scatenato il finimondo: tifosi inferociti, giornalisti che alzano il dito come neppure fra’ Cristoforo, la chiamano infame, sciacquetta, attriciucola; chi finge di voler sdrammatizzare la chiama una povera
imbecille, un’ignorante, isterica; gente che telefona alle televisioni per minacciare.
Non valgono le spiegazioni, non valgono le scusa. C’è la voglia di vendetta.
Con una buona dose di squadrismo, di mille contro uno, e trattandosi di una donna la preferenza va subito alla sfera sessuale e alla insufficienza
mentale: un sintomo tipico dello squadrismo.
C’è un fondo di squadrismo – poco visibile, come tutti i fondi, ma denso e ad effetto lungo – anche nell’esaltazione continua, ossessiva del “risultato” a tutti i costi, nel valore assoluto della “vittoria”, nel disprezzo verso i “perdenti”, nel ricorrere continuo del concetto di “grandezza” e di “ricchezza”, nella scontata superiorità di chi è più “potente”.
Nel trattare di tutto ciò – squadre, società, presidenti e giocatori – la stampa, i commentatori televisivi e la gran parte degli addetti ai lavori, e i tifosi, la gente, usano spesso parole umilianti per chi non appartiene alla categoria dei privilegiati, ai vincenti, ai bravi.
Parole che in una normale conversazione sarebbero vergognose.
Parole delle quali sembra che nessuno dei giornalisti o della gente si chiede cosa prova il figlio di quel giocatore, di quel “perdente” al quale sono rivolte, quando le sente pronunciare davanti a mille o a dieci milioni di persone.
Sono certo che saranno in molti quelli che, leggendo questo articolo, pensano che è esagerato, che si tratta cioè di fenomeni “riprovevoli”, o che in qualche caso di giochi, di eccessi di allegria o di polemica, ma che in ogni caso lo “squadrismo” non c’entra niente.
Lo pensano in buona fede, sicuramente.
Ci siamo abituati.
Ma la nostra buona fede può salvare noi, forse, ma non credo che possa aiutare i nostri ragazzi a recuperare il valore della lealtà, a imparare a guardare con delicatezza alle altre persone, alle cose e anche a se stessi.
Cosa possono fare i genitori distratti, o la scuola nelle sue poche ore, contro tutto questo?
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 Daniela Spatafora (Palermo)    - 24-11-2002
Sono un'insegnante e noto anch' io questo genere di meccanismi tra i ragazzi... E' vero la scuola può fare poco, però gli insegnanti possono essere sempre vigili e, quando si accorgono che in classe scoppiano dinamiche di questo genere, possono immediatamente farle notare agli alunni, senza mai abbandonarsi allo scoraggiamento di chi dice:"Tanto chi sono io per farmi sentire da loro che credito posso avere io presso di loro?"....
Non basta certamente questo a trasformare una generazione, però è anche vero che molti di noi non tentano nemmeno di provarci....