Dicere ius, utopia da difendere
Salvatore Camaioni - 05-11-2002
L'attacco alla indipendenza della magistratura non subisce soste: non c'è disgrazia (eruzioni, terremoti, stragi, guerre, alluvioni, terrorismo...) che tenga. L'obbiettivo programmatico principale -se non
addirittura unico- di questo governo è la
neutralizzazione della funzione giurisdizionale nei confronti del ceto dirigente (politico, economico...)
del Paese.
Non è ancora finita la vicenda scandalosa della legge Cirami che già si riparte con la separazione delle carriere dei magistrati. L'obbiettivo è
quello di far tornare il pubblico accusatore, cioè il pubblico ministero che per obbligo di legge esercita l'azione penale, sotto la direzione, di
diritto o di fatto, del Potere esecutivo, com'era una volta, al tempo del fascismo e ancor prima. A quel tempo il p.m. era "rappresentante del Potere
esecutivo presso la giurisdizione". E la cosa buffa è che a giustificare la subordinazione del p.m. all'Esecutivo veniva invocato il principio liberale
della divisione dei poteri tipica degli Stati moderni, con il seguente ragionamento: se la potestà di dare esecuzione alle leggi spetta al Potere esecutivo, questo deve essere dotato di un proprio organo -appunto il p.m.- che promuova l'intervento della giurisdizione, cioè del giudice, tutte le volte in cui, per legge, non sia possibile provvedere direttamente
all'esecuzione della legge con la funzione di polizia.
Ma si è 'scoperto' che affidare al Potere esecutivo l'incarico di promuovere e gestire l'azione penale recava con sè il pericolo di una strumentalizzazione politica, cioè di parte, della più delicata funzione
giurisdizionale e quindi ne è derivata la necessità di porre tale funzione al riparo dalle ingerenze della poltica e dell'amministrazione. Con la
Costituzione repubblicana si è quindi stabilito di dotare la magistratura, e cioè anche il p.m., di autonomia ed indipendenza rispetto a tutti gli altri
Poteri dello Stato. Tra i presidi a garanzia di tale autonomia -oltre all'istituzione del Csm, alla nomina dei magistrati per concorso, al riconoscimento della loro inamovibilità...- è stato proclamato all'art.107
che "i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni" e che "il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario".
Dunque, è la Costituzione che vuole che tra i magistrati tutti vi sia assoluta parità ed una legge che incida su questo dato sarebbe incostituzionale. Peraltro è la stessa Costituzione che introduce e
riconosce soltanto la distinzione delle "funzioni" tra magistrati, sicché pretendere di introdurre, in modo palese o surrettizio, ulteriori distinzioni sarebbe contro la Costituzione. Distinzione delle funzioni che
c'è già, è operativa ed è stata rafforzata, ad esempio, dalla soppressione delle funzioni accusatorie del Pretore -quando era esistente- che in sede
penale cumulava impropriamente le funzioni di giudice e di p.m.
Il nuovo processo penale, contrariamente a quanto sostiene il senatore di An Luigi Bobbio, ex pubblico ministero guadagnato anche lui come i suoi
camerati al garantismo da operetta dei delinquenti impuniti, non esige quella netta distinzione tra p.m. e giudice che si dovrebbe tradurre nella definitiva separazione delle due magistrature. Infatti, la legge istitutiva del nuovo processo penale -che non è diventato di tipo accusatorio ma è di tipo misto- ha anzi rafforzato l'unità della magistratura modificando il
vecchio art.190 del r.d. 30.1.1941, n.12 consentendo il libero passaggio da un ramo all'altro su semplice domanda dell'interessato e previo parere del
Consiglio giudiziario, con delibera dell'organo di autogoverno, cioè del Csm, che deve soltanto accertare la sussistenza di attitudini alla nuova
funzione. Il che dimostra pure che il passaggio da una carriera all'altra non è automatico ma richiede una valutazione attitudinale da parte del Csm.
Tutte le chiacchiere che si fanno sulla "terzietà" del giudice, che non sarebbe super partes perché fa parte dello stesso ordine giudiziario del p.m., sono risibili, perché non soltanto la teoria ma anche la prassi dimostra che il giudice, quando lo ritiene giusto, dà torto al 'collega' del pubblico ministero, senza esitazioni, come dimostrano i tanti provvedimenti che vengono impugnati dal p.m. perché gli hanno dato torto.
Quando si propone di separare i concorsi di accesso ai due rami della magistratura e si pongono ulteriori limiti, ulteriori ostacoli, al passaggio
da una carriera all'altra si persegue chiaramente il disegno di separare la pubblica accusa dalla stessa matrice culturale cui appartiene il giudice.
Che è una matrice culturale non certo 'corporativa', di parte, perché è la matrice della giurisdizione, cioè del "dicere ius" che deve formare ed accompagnare sempre tutti i protagonisti della giurisdizione, e cioè il
giudice e le parti del processo. Sono state istituite di recente le Scuole di specializzazione per le professioni legali, a cui accedono aspiranti
avvocati, magistrati e notai, proprio perché si è riconosciuta la sostanziale unitarietà della formazione giuridica e l'opportunità che i percorsi formativi siano conseguentemente unificati anche dopo la laurea e
sino alle soglie dei vari concorsi, affinche i futuri professionisti, indipendentemente dalle strade scelte, si ritrovino a condividere la medesima cultura giuridica. L'idea di diversificare la cultura del giudice
da quella del p.m. va quindi in controtendenza e non riesce a nascondere l'ispirazione illiberale ed opportunistica che la sorregge.
Separare il p.m. dalla comune radice culturale giurisdizionale del giudice ha soltanto una ragione, inconfessata e spregevole, e cioè quella di
porre, di fatto, il p.m. alle dipendenze del Potere esecutivo, cioè del Governo, che non è super partes perché è espressione di una parte soltanto,
seppure maggioritaria, del Paese.
Bisognerà quindi al più presto ritornare in trincea, con i girotondi, a difesa dell'indipendenza della magistratura, senza mai perdersi di vista.
interventi dello stesso autore  discussione chiusa  condividi pdf