Lacrime di fine anno
Vittorio Delmoro - 09-06-2002
Mi si è asciugata la lingua – ha sussurrato Rosalìa, la più sensibile dei miei alunni di classe seconda, mentre i suoi amici guardavano con occhi attoniti i compagni di quinta che piangevano sconsolatamente. E piangevano quasi tutti, anche Gabriele, solitamente così spensierato, anche Cristian, che passava la vita col sorriso stampato in faccia, anche Matteo, alla continua ricerca di qualcuno da prendere in giro. Delle femmine si sa, così delicate e suscettibili, bastava poco a gettarle in lacrime. Solo Davide se ne stava dietro tutti gli altri come sempre, col capo chino e l’espressione abbattuta, ma non piangeva.

Il pianto scolastico non era certo una novità per me; in oltre trent’anni di carriera ne avevo viste di lacrime! Ma si era sempre trattato di residui di litigate più o meno furiose, di risposte emotive ad insulti troppo pesanti, di vero dolore fisico in seguito ad incidenti presto dimenticati; qualche volta si era trattato di paura o comunque di ansia per qualche risultato inatteso, oppure di un’improvvisa ed irrefrenabile emozione, subito dominata per evitare inopportune prese in giro.

Questa volta però era diverso; per la verità un’avvisaglia c’era stata la sera precedente, quando a conclusione del consueto spettacolo di fine anno, gli alunni della quinta erano rimasti sul palco e fra gli applausi che stavano scemando e il brusio che cominciava a montare avevano voluto dire due parole di ringraziamento agli insegnanti che stavano per lasciare; le lacrime erano sgorgate subito dagli occhi di Elisa che parlava al microfono e avevano contagiato le compagne e anche qualche maschio; ma tutto si era perso nel successivo trambusto generale ed io non mi ero neppure accorto di Giordano che, emozionatissimo, mi stava dando un bacio.

La solita scena emotiva con cui la quinta termina il proprio ciclo elementare, avevo pensato tra me, che di scene simili ne avevo vissuto almeno una ventina (insegno in due/tre classi ogni anno) e me n’ero andato a dormire contento per lo spettacolo riuscito proprio bene.

E dunque, quando stamattina, ultimo giorno di scuola, sono arrivato in classe non mi aspettavo certo una continuazione dell’emotività della sera prima, centuplicata! I miei alunni di quinta stavano facendo il giro delle classi per salutare in quell’imbarazzante modo i loro compagni e ad ogni incontro giù a piangere come disperati!

I miei piccoli di seconda sulle prime non sapevano se considerarlo uno scherzo, avendo conosciuto quei ragazzoni alti come le maestre in ben altri modi! Marco li guardava con un mezzo sorriso tentando di dire nel suo linguaggio incerto piangono… , mentre Giulia ed Elena lo accarezzavano come erano solite fare spesso; Alessandra dopo un po’ ha detto, rivolgendosi a Martina : mi viene da piangere anche a me.

Ma perché piangono? – ha chiesto ad un certo punto Sofia, poco addentro a certi meccanismi dell’emotività occidentale, lei che dopo un approccio silenzioso, aveva trascorso mesi a ridere degli strani comportamenti dei compagni e soprattutto miei, quando facevo il buffone in classe, provenendo da un Marocco dove il maestro (ci ha raccontato) otteneva il silenzio dai suoi 37 alunni a suon di schiaffoni.

Gli dispiace di lasciare la scuola – ha spiegato la maestra che in quel momento li stava accompagnando nella dolente visita.

Eeeh! – ha replicato Sofia incredula, ma gli assensi convinti di tutte quelle facce lacrimose le hanno fatto cambiare espressione all’istante.

È stata una giornata particolare, bastava un accenno anche vago alla scuola che finiva, bastava che ad Elisa si riempissero gli occhi di lacrime, che tutti quanti ripiombavano nello sconforto; non era una cosa drammatica, naturalmente, caso mai malinconica; piangevano sommessamente, costantemente, senza disperazione, ma con tenacia; e si abbracciavano, si stringevano, a gruppetti di quattro o cinque, oppure addossati all’insegnante di turno (siamo in quattro) e in pochi minuti ci riversavano addosso un’emozione, un calore, un trasporto come in cinque anni non era mai successo, almeno a me.

Di cosa ci stavano ringraziando? Cosa sentivano di perdere?

A ripensarci a mente fredda non mi sembra di aver fornito loro un così vasto bagaglio umano; anzi, parlandoci a cuore aperto nei dieci minuti che precedevano l’intervallo tre giorni fa, siamo stati concordi che in prima e seconda elementare me ne avevano creato di problemi! Tra Gabriele, Francesco, Enrico, Cristian, Matteo e anche Giulia, mi avete fatto morire! Confessavo sinceramente e loro annuivano, ricordandomi le sublimi arrabbiature.

Ma evidentemente sono cresciuti e in questi cinque anni hanno probabilmente assorbito più di quanto noi (io) riteniamo di aver dato; e non si tratta di nozioni, evidentemente, né di conoscenze, che dovrebbero essere l’oggetto del nostro mestiere; si tratta di altro, anche di altro, se non soprattutto…

Invece mio figlio, che frequenta la quarta elementare in un’altra scuola e che già al mattino faceva storie per andare (che ci vado a fare, tanto oggi è l’ultimo giorno e non si fa niente!), appena tornato a casa si è steso sul pavimento senza neppure disfarsi dello zaino e si è messo ad urlare come un pazzo : è finita, finalmente, è finita!

Altre scuole, altri alunni…

Certo mio figlio non è quello che si suol definire un alunno modello, anzi è una specie di ronzìo fastidioso, un problema per i suoi insegnanti, e non è il solo! Ma anche i miei lacrimanti non sono stati dolci, almeno nei primi anni; poi hanno cominciato a cambiare, lentamente, progressivamente, inesorabilmente, per fortuna.

Cinque anni di scuola; ho fatto il conto : sono circa 6.800 ore, pari a 283 giorni di 24 ore l’uno; neppure tanti alla fine.

Di questi appena un quinto trascorsi con me; sufficiente per tutte quelle effusioni? Pare di sì. Sinceramente non credo di meritarmele (almeno io), se ripenso a tutte quelle sgridate, a tutti quei richiami sul registro, a tutte le prediche pronunciate per il loro bene (crediamo noi, o almeno vogliamo crederci)…

Chissà perché poi alla fine se ne dimenticano; dimenticano il senso di offesa, dimenticano l’umiliazione subita, dimenticano l’afflizione che inevitabilmente accompagna il rimprovero; alla fine solo le nostre virtù elogiano, ci fanno sentire degli strani eroi, come compagni amorevoli, come genitori comprensivi; l’idea di professione che ci portiamo dentro ne viene sconvolta, il richiamo emotivo esercitato da quelle lacrime ci avvolge con legami così tenaci che mi ricordano lo spot televisivo in cui normali lavoratori non riescono a compiere normali azioni quotidiane perché imbrigliati da grossi elastici rossi.

Almeno dall’85, dall’uscita dei Nuovi Programmi (ma nella mia scuola da più di vent’anni) quest’idea di professione come prevalentemente istruttiva, con le specializzazioni disciplinari, con gli approfondimenti specifici, con una gran varietà di contenuti, aveva pian piano messo radici, tentando di coniugare educazione ed istruzione nel nuovo termine di formazione della persona; ci eravamo allontanati dalla maestra mamma per conquistare l’insegnante esperto, in un team collaborativo e progettuale.

Moratti, con la sua controriforma, ci ha fatto riscoprire quest’idea di professione, rimettendola all’ordine del giorno, dopo anni di appannamento e anche di ripensamento. Ma ecco le lacrime…

Dunque la scuola non può eliminare l’emotività facendo perno sulla razionalità educativa; la scuola non può dimenticare quella che Galimberti chiama educazione dell’anima.

In questa giornata di recupero emotivo l’insegnante potrebbe anche valutare il fatto come sintomo di quella fragilità dei sentimenti che poi causa i collassi di cui si occupano le cronache giornalistiche durante l’adolescenza; ci si potrebbe anche sottrarre a questa domanda d’aiuto, rinviando l’onere alla famiglia, che ne ha sempre detenuto il brevetto.

Possiamo? Certo che fino a quando un professore di scuola media o di scuola superiore si trova ad avere a che fare con decine e decine (a volte centinaia) di alunni ogni anno per poche ore la settimana, il compito non è solo arduo, ma decisamente improponibile!

Pertanto è compito nostro, di noi maestri elementari e di voi maestre materne; l’educazione completa, del corpo della mente e dell’anima, resta un nostro peculiare obiettivo, checché ne pensi Moratti e al di là di ogni riforma imposta.

Almeno finché ci consentiranno di porcelo.






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