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Dell’educare. 98
“Non credo che gli insegnanti si rendano conto del danno…”
Aldo Ettore Quagliozzi
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Come dal titolo, convengo che nella “pratica” quotidiana della scuola non vi sia grande consapevolezza sugli enormi danni che una disinvolta, improvvisata “azione pseudo-educativa” possa arrecare ai giovanissimi affidati alle cure della scuola pubblica.
E non mi riferisco alle tante azioni, anche violente e da codice penale, che si registrano nella scuola pubblica, allargata a quella cosiddetta privata, delle quali i mezzi di comunicazione ci informano con dovizia e puntualità; esiste infatti un’altra “violenza”, più sottile e velenosa per lo sviluppo psichico delle giovanissime generazioni, che è abbastanza diffusa e che consiste, da parte degli operatori scolastici più disinvolti, meno sensibili, nello stigmatizzare fortemente “in negativo” gli atteggiamenti, i comportamenti, e l’essere stesso dei giovanissimi nella loro giovanile corporalità, sicché tanti e tanti preadolescenti, da quell’accanimento arbitrario ed ingiustificato, ne vengano segnati per il resto della loro esistenza.
Nella scuola pubblica, per come è stata da me vissuta nei lunghissimi anni della mia attività, si fanno “pettegolezzi”: e sono “pettegolezzi” pesanti sui giovanissimi, “pettegolezzi” che sembra siano stati una “pratica” di sempre all’interno delle istituzioni educative, tanto da ritrovarne traccia in quello specialissimo trattatello pedagogico che ha per titolo “Ai piedi del maestro [1910]” di quel grande pensatore e pedagogo a nome di J. Krishnamurti [1895-1986].
Nel mio volume “I professori” (2006), al capitolo XXXII – pag. 151 - che ha per titolo “Ove si descrive una scola in orbace”, riprendevo una memoria di Luca Canali da un Suo lavoro che ha per titolo “Vita di mia madre scritta da lei medesima”, che trascrivo:
“In quella scuola ho assistito a scene da Inquisizione: una collega cui era stata assegnata una classe di ripetenti, per punire i suoi alunni chiamava uno dei colleghi, il più prestante: questi prendeva l'accusato per un orecchio fin quasi a staccarglielo, lo portava di peso nel cortile, e lì a pugni, calci, scudisciate, lo faceva urlare e torcere dal dolore. Scene disgustose, tanto più che le vittime erano sempre le stesse: gente umile, inoffensiva, succube, che non si sognava neppure di protestare. In classe ebbi una lavagna con una lunga fenditura procurata dalla testata di un alunno sottoposto a punizione. - Pensa un po', - mi disse il collega autore dell'impresa, - quel ragazzo aveva la zucca più dura della lavagna. Ma oggi mi ringrazia perché gli ho raddrizzato le costole -. Altra collega manesca era la Segretaria del fascio femminile, sempre in perfetta divisa, alta, elegante, di una violenza spietata: picchiava i ragazzi ridendo e fumando. Le affidavano sempre classi maschili. Non si alzava mai dalla cattedra: - Mi ci scomodo, - diceva, - non ne vale la pena -. Aveva sulla cattedra un righello con i bordi d'acciaio. Chiamava lo scolaro da punire, gli ordinava: - Apri le mani, tutte e due -, e picchiava con il righello con tutta la forza, secondo l'entità della mancanza: cinque colpi per mano, dieci, e così via. Oppure con la mano inanellata dava schiaffi in piena faccia, spintoni che mandavano il ragazzo a sbattere contro un banco, o addirittura disteso in terra.” Era la scuola del “ventennio”, la scuola in “orbace”; ma di quelle pratiche, e di quant’altro ancora, ne è rimasta impregnata fin nelle midolla l’azione (dis)educativa della scuola pubblica, e non, del bel paese. Di seguito trascrivo la riflessione tratta dal volume “Ai piedi del maestro [1910]”.
“(…). Non credo che gli insegnanti si rendano conto del danno e della sofferenza causati dai pettegolezzi (…). Gli insegnanti dovrebbero ben guardarsi dal creare delle difficoltà ai loro allievi, pettegolando sul loro conto. Nella scuola non si dovrebbe mai permettere che ad un ragazzo fosse dato un soprannome offensivo, e si dovrebbe essere per regola che nessuno potesse parlar male di alcun membro della scuola, sia maestro che allievo. Il mio maestro fa osservare che, parlando dei difetti di una persona, noi non solo intensifichiamo in essi questi difetti, ma riempiamo inoltre la nostra mente di cattivi pensieri. Non vi è che un unico mezzo per liberarci veramente dalla nostra natura inferiore, quello di rinforzare in noi la natura superiore. E mentre è dovere dell’insegnante di comprendere le debolezze di coloro che sono affidati alle sue cure, egli deve persuadersi che non riuscirà a vincere la natura inferiore del fanciullo se non circondandolo di amore, stimolando così in lui le più alte e nobili qualità, finché non vi sarà più posto per le debolezze. Più l’insegnante farà dei pettegolezzi circa i difetti degli allievi e maggiore sarà il danno arrecato; egli quindi non dovrebbe mai parlare dei difetti di un ragazzo salvo quando si trovasse a consiglio coi propri colleghi per escogitare i migliori metodi di porgere aiuto ad ogni singolo allievo per liberarsi delle sue debolezze. Sarà pur bene far comprendere ai ragazzi quanto crudele sia il pettegolezzo fra di loro. Conosco più d’un ragazzo la cui vita a scuola è stata resa infelice a causa della spensieratezza e sgarbatezza dei suoi compagni, mentre l’insegnante o non s’accorgeva della sua infelicità o non sapeva come spiegare ai ragazzi la natura del male che cagionavano. Spesso i ragazzi pigliano per pretesto qualche singolarità nel parlare o nel vestire, o qualche errore commesso, e, non rendendosi conto del dolore che cagionano, torturano spensieratamente il loro disgraziato compagno con allusioni poco gentili. In questo caso il male è dovuto principalmente all’ignoranza, e se l’insegnante ha ascendente sui giovani e amorevolmente spiega loro quale dolore stanno cagionando, essi, allora, ben presto la smetteranno. (... ).”
novembre 2011
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