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Dell’educare. 97
“Non c’è educazione senza maestri…”
Aldo Ettore Quagliozzi
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Scrivevo, al capitolo sesto – “Ovvero della sofferenza insostenibile” – del mio lavoro “I professori” pubblicato presso AndreaOppureEditore (2006):
“Francesca Giusti è l’autrice di "Lettera di una professoressa", apparsa nell’anno 1998 che ancor oggi appare di una attualità straordinaria, essendo nata dal profondo di una esperienza scolastica vissuta. In un tempo come l’attuale nel quale il disagio degli insegnanti esplode anche nelle forme proprie di un malessere psicofisico e che in omaggio ad una inglesizzazione del linguaggio nazionale viene riconosciuto e definito come la sindrome del burnout, la lettura della sua piacevolissima prosa sposta la discussione su di orizzonti più ampi, che si allargano sino alla organizzazione sociale e politica delle società del ventunesimo secolo, con le loro precarietà e le assenze di certezze per il futuro delle nuove generazioni. Generazioni senza progetto, le si potrebbe di già definire. E terribile e dominante il tutto è la domanda di fondo della Giusti: (…) Se lo studio non serve a costruirsi una vita e non è nemmeno servito a cambiare il mondo, a che cosa potrebbe servire? (…).”
Ho ripreso quelle poche considerazioni sul lavoro di Francesca Giusti per introdurre una stupenda riflessione che di seguito trascrivo tratta da “A mia madre mia prima maestra” del grande pensatore spagnolo Fernando Savater.
Non sfuggirà ai più come la perdita di una “dimensione pedagogica dei rispettivi ruoli”, nella società, nella politica, nelle arti liberali come nei mestieri, nelle moderne società del terzo millennio, sia la concausa della perdita di centralità della scuola, della sua irrilevanza pedagogica, della sua azione e dello smarrimento di un orizzonte certo entro il quale indirizzare le energie delle nuove generazioni.
Scrive l’illustre Autore spagnolo che “come educatori non ci resta che l’ottimismo”, “l’ottimismo” come condizione indispensabile per realizzare al meglio la propria azione, ed ancora più avanti rafforza le Sue convinzioni scrivendo che “chi prova repulsione per l’ottimismo, deve lasciar perdere l’insegnamento, senza pretendere di pensare in che cosa consiste l’educazione.”
La prosa di Savater sottende l’eterno dilemma, mi pare ancora irrisolto, perché rimosso dalla dialettica corrente, sebbene sia stato tante volte posto dai tanti o dai pochi, non saprei, nelle discussioni e nelle riflessioni all’interno della scuola ed all’esterno nella società, se la scuola debba essere trasmettitrice di nozioni e contenuti, configurando per gli insegnanti quel ruolo minimo di neutrali trasmettitori di competenze disciplinari, ovvero, essere essa luogo primo di formazione “umana” affinché si realizzi compiutamente quanto l’illustre Autore auspica quando scrive che l’imperativo per gli umani è che “nasciamo per raggiungere l’umanità.” E mi pare di poter concordare con Savater affermando che la scuola abbisogna sì delle competenze disciplinari ma, ancor più, di quelle altre più nobili competenze che concorrono a far divenire i suoi attori Maestri.
“(...) Non c’è educazione senza maestri, ovviamente, ma neppure senza che padri e madri fungano da insegnanti o che tutti, giornalisti, artisti, politici ..., accettino la dimensione pedagogica dei rispettivi ruoli. La convivenza democratica deve essere educativa, altrimenti non è più democratica. ... ho imparato che l’intelligenza che cerca e comprende è la migliore alleata dell’amore che tutela ma non soffoca, dell’amore che aiuta a crescere in libertà. (...) Ma come educatori non ci resta che l’ottimismo, così come chi fa del nuoto, per praticarlo, ha bisogno di un ambiente liquido. Chi non vuole bagnarsi, deve abbandonare il nuoto; chi prova repulsione per l’ottimismo, deve lasciar perdere l’insegnamento, senza pretendere di pensare in che cosa consiste l’educazione. Perché educare è credere nella perfettibilità umana, nell’innata capacità di apprendere e nel suo intrinseco desiderio di sapere, nel fatto che ci sono cose (simboli, tecniche, valori, memorie, fatti ...) che possono essere conosciute e meritano di esserlo, e che noi uomini possiamo migliorarci vicendevolmente per mezzo della conoscenza. (...) E’ curioso l’uso dell’aggettivo umano, che trasforma in obiettivo ciò che potremmo dire essere l’inevitabile punto di partenza. Nasciamo umani, ma non basta: dobbiamo anche riuscire a esserlo. E si dà per scontato che possiamo fallire nel tentativo o perfino rifiutare l’occasione di provarci! Ricordiamoci che Pindaro, il gran poeta greco, raccomandò enigmaticamente : - Diventa ciò che sei -. ... la piena umanità non è una semplice qualità biologica, una caratteristica genetica programmata come quella che rende carciofi i carciofi e polipi i polipi. Gli altri esseri viventi nascono essendo già definitivamente quello che sono, ciò che saranno per sempre, qualunque cosa accada, mentre per noi umani è più prudente dire che nasciamo per raggiungere l’umanità. La nostra umanità biologica ha bisogno di una conferma a posteriori, qualcosa come una seconda nascita in cui, attraverso il nostro sforzo e il rapporto con gli altri umani, si confermi definitivamente la prima. Dobbiamo nascere uomini per diventare umani.”
ottobre 2011
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