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Se il divino diviene il problema
Aldo Ettore Quagliozzi
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In tempi difficili e perigliosi alquanto, nella contrapposizione interessata e senza più freni delle fedi su scala planetaria, quando ritorna alle narici il puzzo antico di bruciato di corpi innocenti lasciati morire in nome di un dio, uno dei tanti, e quando sembra di veder di nuovo mulinare spade, e sciabole e scimitarre benedette dal proprio benevolente e misericordioso dio, ebbene è proprio in tempi come questi che la trepidazione assale forte con l’angoscia di una domanda alla quale ben difficilmente, se non nell’obnubilamento assoluto della ragione, potrebbe trovarsi per darsi una risposta: “ ma di quale dio si parla ? “
Io non ho risposta sicura, che se ce l’avessi proverei paura immensa, una risposta sicura grande e confortevole, se non la miserevole personale esperienza, maturata dolorosamente negli anni che or sono tanti ma non tantissimi, in un agnosticismo sempre trepidante ed in ansia di ricerca, per la qualcosa abdico prontamente all’ardua impresa ed avverto che la rubrichetta è senza pretese escatologiche ed introspettive ed è lasciata alla libera riflessione degli incauti navigatori della rete, fortunati al pari di colui che ritrovò il vello d’oro.
1 - Da “Le stanze dell’immaginario“ di Umberto Galimberti
“I miei dubbi sulla religione incominciarono molto presto, quando, da piccolo, nelle lezioni di catechismo, sentii parlare del limbo, un luogo per i bambini morti prima di ricevere il battesimo. Costoro non andavano all'inferno perché non avevano avuto la possibilità di peccare, e neppure in paradiso perché non erano stati rigenerati dal battesimo che toglie quel peccato che Adamo ed Eva avevano commesso per tutta l'umanità, una colpa impersonale che vieta la visione beatifica di Dio.
Per i bambini, colpevoli d'essere nati solo per morire, non era previsto neanche il purgatorio, dove la pena del peccato si riduce se le preghiere dei vivi sono sufficientemente numerose e fervide. Per loro c'è il limbo, un luogo che nella mia immaginazione non riusciva mai a essere troppo preciso, e che comunque aveva il pregio di evitare a chi vi accedeva le atrocità dell'inferno e la monotonia del paradiso.
Una decina d'anni dopo, leggendo il quarto canto della Divina Commedia, appresi che, oltre ai bambini morti senza battesimo, abitano il limbo il nostro progenitore Adamo, i patriarchi, i profeti, i re dell'Antico Testamento, quindi Abramo, Isacco, Giacobbe, Noè, Mosè, Davide, che però furono liberati e portati in cielo da Cristo che fece la sua comparsa nel limbo "con segno di vittoria incoronato".
Vi rimasero, invece, non redenti, i poeti greci e latini, quindi Omero, Ovidio, Orazio, Lucano, i filosofi Socrate, Platone, Aristotele, Democrito, e gli eroi Ettore, Enea, Cesare, Camilla, Elettra. Non mi sembrava una cattiva compagnia, anzi forse il limbo era preferibile al paradiso, dove altro non restava che volteggiare con gli angeli nella luce accecante di Dio.
Ma un giorno la teologia cattolica smise di parlare del limbo, anzi lo abolì. Lo seppi da un libraio cattolico agli inizi degli anni Ottanta, quando mi recai da lui per comprare un Dizionario di teologia biblica e un Dizionario teologico interdisciplinare, dove alla parola "Libertà" seguiva la parola "Liturgia", e del "Limbo" neppure il nome.
Col tono di un impiegato di banca che a un acquirente inesperto dice che ormai è da molto tempo che un certo valore borsistico non è più quotato, mi annunciò che il limbo era una "nozione non più in uso", perché la teologia si era "ammodernata al passo con i tempi".
Eppure, nella geografia del soprannaturale a cui si dedicavano i medioevali che ancora non disponevano di mappe esatte per la geografia di questa terra, con l'immaginazione del limbo si descrive un mondo intermedio, uno stato d'animo, una condizione psichica.
Si tratta di quella condizione che caratterizza le idee allo stato nascente, che, al pari dei bambini che muoiono appena nati, rifiutano di essere elaborate, oppure dei sogni che fanno le veci della realtà, oppure di quelle vite che non hanno un'identità ben definita, tipiche di coloro che non sono ciò che sono o che credono di essere. Le donne più degli uomini, incerte, meglio, inafferrabili, che sono sempre in attesa di non si sa bene che cosa.
Il limbo è allora la condizione di coloro che restano nell'imperfetto, nell'incompiuto, nell'inquietudine: esseri indefiniti, non misurati dal tempo e neppure dall'eternità. Cioè la condizione di noi tutti, che dopo aver vissuto la vita non riusciamo davvero a identificarci con essa, ne percepiamo tutta la sua casualità, e andiamo con la memoria a ripercorrere per un attimo tutte le vite non vissute, morte sul nascere, come i bambini del limbo.
Ora che il limbo è stato abolito, non c'è più posto per tutte quelle nostre vite che abbiamo sognato, immaginato, progettato ma, per mille ragioni, non vissuto, vite senza storia, semplici ondulazioni di sabbia che il vento ha spianato senza però cancellarle dalla nostra memoria.
A queste vite, per le quali non c'è più posto nella geografia dell'aldilà, occorre accordargliene almeno uno nella nostra geografia interiore.
Abbiamo sempre bisogno di una favola che dia un senso, una forma, una profondità al nostro essere qui sulla terra, al nostro errare, una favola che ci renda meno impotenti di fronte all'instancabile ferocia degli uomini.
La teologia era una di queste favole, poi si è arresa alla ragione, ha voluto tutto dimostrare, e, per andare d'accordo con il sapere, ha chiuso le porte alle stanze dell'immaginario, dove, tra le altre cose non troppo ragionevoli, era custodito il limbo, un luogo mancante di tutti i sensi, dove un bambino senza nome, metafora di ciascuno di noi, perso tra i suoi fragili compagni, soli, privati come lui di tutto, conserva almeno il potere di sognare. Un rifugio precario, ma senz'altro un rifugio contro il troppo ordine o il troppo caos.
In fondo, diceva Chateaubriand: "C'è così poca realtà nell'uomo, che il cuore si stringe quando si separa dai sogni".“
2 - Da “L’invasione dei clerico-populisti“ di Paolo Flores D’Arcais pubblicato sul quotidiano l’Unità 10 luglio 2005.
“C’era una volta il clerico-fascismo. Per fortuna, adesso non c’è più. Contro la democrazia liberale, però, si annuncia un nuovo crociato: il clerico-populismo videocratico e piduista, dell’aspersorio e dello squadrismo padano, che tra madonne di Medjugore e santi franchisti vuole salvare l’Occidente- ormai frollo e secolarizzato dal dubbio – imponendo per legge a tutti i cittadini i precetti e le verità di santa romana chiesa.
Tutto questo nell’indifferenza garrula dei cittadini retrocessi a consumatori (oltretutto sempre meno opulenti) dalla partitocrazia e dalla politica/spettacolo. Tutto ciò nell’acquiescenza irresponsabile di gran parte del mondo laico ( … ), e nella lucidità emarginata di sparute minoranze democratico-coerenti (epperciò laicista) bollate di neo-dogmatismo, nichilismo morale e dittatura del relativismo (tutto e il contrario di tutto, insomma, e tanti saluti all’abc della logica).
( … ) La fede cattolica è compatibile con la democrazia? Dipende. Dipende dal tipo di fede che il cattolico vive, dal modo in cui fonda la sua fede, dai rapporti che pretende di stabilire tra la sua fede e la comune ragione umana.
C’è la fede di Paolo, la ‘ follia ‘ della croce, che è ‘ scandalo ‘ per la ragione: è la fede delle prime generazioni di cristiani, perfettamente sintetizzata nella frase ‘credo quia absurdum‘ ( … ). C’è la fede di Guglielmo di Ockham, francescano e logico, che col suo ‘rasoio‘ distrugge tutte le pretese di ogni teologia razionale. C’è la fede di Pascal, proposta allo scettico come vera e propria scommessa.
C’è, in tutti questi casi, la consapevolezza che la fede non è dimostrabile. Neppure per quanto riguarda un Dio creatore e l’anima immortale. E quanto al resto, un Dio che si fa uomo, morto sulla croce e risorto, che la fede è addirittura follia rispetto alla ragione. Absurdum.
( … ) La fede cattolica diventa ( … ) incompatibile con la democrazia non appena pretenda che un nucleo cospicuo di tale fede sia anche una verità di ragione, una norma naturale e obiettiva, iscritta nel cuore dell’uomo a somiglianza del patrimonio cromosomico, e che ogni uso ‘ retto ‘ della ragione possa scoprirla e debba dunque obbedirla.
Ogni qual volta avanzi tale pretesa, la fede cattolica diventa incompatibile con la democrazia. Incompatibile per natura e in potenza ( … ). Che poi si scontri davvero con la democrazia, o si rassegni a un modus vivendi, dipenderà da circostanze storiche, rapporti di forza, addirittura personalità e psiche ( inconscio compreso ) dei singoli papi.
( … ) Assoggettare il potere politico alla ‘Verità‘ è stata ( … ) la dottrina della Chiesa. Qualsiasi potere politico. E quello democratico più che mai, perché il più refrattario a piegarsi. La Chiesa, insomma, e checché se ne dica, non ha mai riconosciuto la democrazia liberale in quanto tale.
Perché una democrazia sia ‘vera e sana‘ lo Stato deve essere ‘unità organica e organizzatrice di vero popolo‘ e il governo vedere ‘nella sua carica la missione di attuare l’ordine voluto da Dio ( … ). Se l’avvenire apparterrà alla democrazia, una parte essenziale del suo compimento dovrà toccare alla religione di Cristo e alla Chiesa .
Sono parole –davvero inequivocabili– pronunciate da Pio XII nel radiomessaggio ‘Il sesto Natale di guerra‘. Inutile girarci intorno: la democrazia, per essere ‘vera e sana‘ deve ‘attuare l’ordine voluto da Dio‘.
Insomma, si scrive democrazia, ma si pronunzia teocrazia. Nulla di più pretendeva il Sillabo di Pio IX, quando nella ‘proposizione LVII‘ gettava l’anatema contro ogni legge che non si conformasse ‘alla divina ed ecclesiastica autorità‘.
( … ) La democrazia è un’altra cosa. Agli antipodi. La democrazia è la prima forma di convivenza umana che non si fonda sull’eteronomia ma sull’autonomia. Che non trae la sua legittimità da un aldilà, ma da se stessa, cioè dagli uomini che si danno ( autos nomos ) le leggi cui obbedire.
Non più la sovranità di Dio e dei suoi vicari su questa terra (non a caso ‘unti del Signore‘), ma la sovranità dei cittadini. Per questo la democrazia è la forma politica più fragile, perché priva di fondamento. Perché costretta a sostenersi da sé nel vuoto del disincanto, esattamente come il barone di Munchausen che si teneva in aria per il bavero (o il suo codino?).
La democrazia è infatti sempre esposta al rischio che una maggioranza preferisca –alla fatica della libertà e al dolore di essere individui– inedite sirene di servitù volontaria.
( … ) I vescovi chiedano pure ai fedeli di non usare il preservativo e la pillola, di non divorziare, di non abortire per nessuna ragione, di non porre fine con l’eutanasia a una vita ridotta a tortura. Ogni volta che pretendono di imporre queste norme per legge, a chi credente non è, aggrediscono e calpestano la democrazia.
Trasformare il peccato in reato è peccato (e reato) contro la democrazia. Come se il testimone di Geova imponesse una legge che vieta le trasfusioni, e il fedele islamico il Corano come costituzione.
Pretese ugualmente teocratiche. Contro le quali non solo ‘laicismo è bello‘ ma è più che mai indispensabile. Altrimenti la democrazia è già in coma.“
3 – Da “Anche se Dio non esistesse“ di Omar Calabrese.
“Un amico mi ha fatto avere via Internet un’immagine che pare riscuotere un gran successo in questo momento negli Stati Uniti (ovviamente in ambienti liberal). Si tratta della Nuova Carta Geografica del Nord America. Vi si notano solo due stati, gli United States of Canada, composti dal Canada medesimo e dalle due coste degli Usa, e Jesusland, che comprende le regioni che hanno votato per Bush. Si tratta di una vignetta satirica, è vero, ma questa vignetta interpreta meglio di molti dotti articoli lo spirito del tempo nella nostra cultura. Il fondamentalismo religioso - che credevamo confinato ai Paesi con forte giurisdizione teocratica - sembra infatti aver contagiato in modo serio (e, dico io, grave) la grande tradizione laica dell’Occidente. Le elezioni americane (ma, in piccolo, anche la precedente bocciatura dell’on. Rocco Buttiglione come commissario alla giustizia da parte del Parlamento Europeo per via di dichiarazioni integraliste) hanno provocato un dibattito sulla questione del rapporto fra laicismo e confessionalismo in politica che non conoscevamo da molti anni.
Si tratta, però, di una discussione davvero paradossale. Chi cerca nella religione cristiana un paravento o un appoggio ideologico per una presunta battaglia sul ripristino dei “valori” perduti pare aver dimenticato proprio il meglio della civiltà cristiana delle origini. È bizzarro che un laico come me provi a rammentarla, e tuttavia umilmente voglio provarci. Cominciamo dalle fondamenta, e domandiamoci quale sia il significato della parola “laico”, da dove provenga, e perché sia così rilevante per la concezione stessa dello Stato.
Etimologicamente, l’origine è semplice. Il termine deriva dal greco (làos) e vuol dire «appartenente al popolo». L’autore che, forse, lo ha utilizzato per primo è Quinto Settimio Florente Tertulliano, il grande apologeta cristiano vissuto all'incirca fra il 160 e il 240 dopo Cristo, e considerato come un maestro nientemeno che da S. Agostino un paio di secoli dopo. Tuttavia, molto presto la Chiesa impiegò la parola per indicare i fedeli generici, in contrapposizione ai chierici, cioè coloro che prendevano la strada del sacerdozio. Solo a partire dall’umanesimo la differenza si fa più marcata, e laico è colui che non necessariamente appartiene alla Chiesa. Nell’Ottocento, poi, l’aggettivo assume un carattere quasi polemico, opposto a clericale, e qualifica chiunque abbia una concezione liberale del diritto: i valori della legge e della cosa pubblica devono essere separati da quelli della fede, per garantire la convivenza, la tolleranza, la coesione sociale. Le vicende della formazione degli stati nazionali europei moderni acurono quella separazione, e la trasformarono in aperto conflitto, tanto è vero che per molto tempo la Chiesa negò ai cattolici la possibilità medesima di occuparsi di politica.
Il punto, insomma, sta tutto qui: le democrazie occidentali sono fondate sul principio della laicità dello Stato in quanto garanzia di uguaglianza fra tutti i cittadini; l’equità e la giustizia devono essere accolte come valide per tutti “etsi Deus non existet” (anche se Dio non esistesse). Si tratta di un concetto che le religioni, non solo quelle cristiane, accettano più o meno malvolentieri. In ambiente islamico, ad esempio, il rifiuto è pressoché totale. In Israele il modello è quello liberale, ma le spinte confessionali sono fortissime, tanto è vero che si contano numerosi partiti religiosi in Parlamento. In Europa, l’atteggiamento è stato sempre un po’ più pragmatico, e i molti partiti cristiani esistenti accettano la formula della «libera Chiesa in libero Stato», limitandosi a contrastare l’approvazione di leggi in aperto dissidio con la morale ecclesiastica, ma non oltrepassando di solito i limiti della dissuasione. Il che è persino ovvio: un diritto riconosciuto (come può essere il divorzio o l’aborto) non obbliga affatto il credente a praticarne l’esecuzione.
Veniamo, così, ad una riflessione sui fatti di oggi, che costituiscono a mio avviso un segnale di mutamento più grave di quanto sembri. Il fatto è che da più parti sta nascendo una spinta verso l'identificazione della morale con la morale religiosa. Una traccia la si può cogliere, ad esempio, nella pressante richiesta di inserire nella Costituzione Europea il riferimento alle radici cristiane. Un’altra può essere il testo della legge sulla fecondazione assistita approvato dal Parlamento italiano (e mantenuta in vita da un fallito quorum referendario n.d.r.). Non voglio entrare nel merito della correttezza di simili posizioni. I credenti hanno il pieno diritto di esprimere quelli che giudicano i principi irrinunciabili della loro fede. C’è tuttavia un problema. Siamo proprio sicuri che l’identificazione tout court della morale pubblica con quella confessionale sia una garanzia per quest’ultima? Credo francamente di no. Se, ad esempio, un giorno la maggioranza dei cittadini diventasse islamica, scintoista, animista che cosa succederebbe del diritto e di quei medesimi cittadini appartenenti ad altre fedi? Ho l’impressione che si moltiplicherebbero le guerre di religione.
È questa, forse, una posizione strettamente “laicista”? Ebbene, tutto l’opposto. Le sue basi sono state scritte proprio da quel Tertulliano che ho citato prima, e nel suo testo più famoso, l’Apologetico. Il libro è un’appassionata difesa del cristianesimo dalle false accuse dei Romani (idolatria, rituali sconvenienti, persino cannibalismo), e si conclude con osservazioni sui rapporti fra lo Stato e la Chiesa. Quel che preoccupava davvero la corte imperiale, infatti, era la disobbedienza dei cristiani alla legge comune. Tertulliano rivendica invece il diritto di disobbedire solo a quelle norme che contrastano con i comandamenti, separando insomma lui per primo fede e Stato.
In un’opera successiva, il De corona, anticipa il mondo moderno in maniera impressionante: inventa addirittura l’obiezione di coscienza, rifiutando per il cristiano l’obbligo della leva militare in virtù dell’imperativo di non uccidere. Siamo nell’anno 211 dopo Cristo! E' vero che Tertulliano morì poi eretico e dogmatico, ma resta il fatto che ha elaborato idee fondamentali sulla libera convivenza di credenti e non credenti. Possibile che milleottocento anni dopo si debbano compiere dei passi all'indietro così marcati? Molto meglio sarebbe ridefinire insieme, laici e religiosi, i nuovi fondamenti di un'etica condivisa: una sorta di massimo comun denominatore. Il prezzo, altrimenti, è troppo alto da pagare, è la democrazia medesima, e con la ipocrita scusa di ripristinare un “sistema di valori” che è invece ideologia pura.“
4 – Da “Dio non è di questo mondo“ di Umberto Galimberti
“Intorno a Dio c'è poco da dire. Fede e mancanza di fede sono adesioni dell'anima che vengono prima di tutti i ragionamenti e resistono a tutti i ragionamenti. Qualcosa possiamo invece dire intorno alla morte di Dio annunciata da Nietzsche, secondo il quale Dio è morto perché oggi gli uomini vivono e si comportano prescindendo dalla sua esistenza, costruendo un mondo che si lascia comprendere anche senza ricorrere all'idea di Dio.
Non è stato sempre così. Nel Medioevo, per esempio, dove la letteratura parlava di inferno, purgatorio e paradiso, dove l'arte era arte sacra, dove persino la donna era donna-angelo, nulla di quella cultura poteva essere compreso se si prescindeva dall'idea di Dio. Quindi Dio esisteva e faceva mondo. Oggi il nostro mondo può benissimo essere compreso senza ricorrere all'idea di Dio, mentre difficilmente sarebbe leggibile senza l'idea di "mercato" o l'idea di "tecnica". Oggi quindi Dio è morto. Intorno al suo nome non accade un mondo, perché il mondo che viviamo non ha bisogno dell'idea di Dio per essere compreso. Altri sono i suoi referenti.“
5 – Da “Figli di un dio privato“ di Umberto Galimberti
“Le religioni private non sono religioni. Sono sentimenti e pensieri personali intorno a quel limite della vita e del mondo che siamo soliti chiamare Aldilà. Le religioni sono tali se sono comunitarie, se hanno vita, chiese, moschee, sinagoghe, templi, se svolgono la funzione di recintare, tenendola in sé raccolta (re-legare), l'area del sacro, in modo da garantire a un tempo la separazione e il contatto, in modo da evitare l'espansione incontrollata del sacro e dall'altro la sua inaccessibilità altrettanto pericolosa.
Il sacro, infatti, è un regime di massima violenza suicida e omicida, dove si giocano espressioni di rifiuto radicale della normalità esistente, processi simbolici di rinascita e di trasformazione, eventi di morte, esplosione di sessualità selvaggia, dove in gioco sono quelle situazioni-limite intorno a cui da sempre si raccolgono quei regolatori del sacro che in tutte le culture si chiamano "sacerdoti", da sempre custodi di quelle metafore di base in cui l'umanità riconosce se stessa, quando la follia della mente disorienta l'anima e sottrae, al tranquillo incedere della ragione, ogni forza propulsiva.
Le religioni storiche, che pure sono state le grandi regolatrici del sacro, perché sapevano incontrare l'uomo presso il tempio, presso l'animale sacrificato, nell'orgia dionisiaca, nel mistero eleusino, alle pendici del Golgota, nelle arene lorde di sangue e brandelli di carne, hanno da tempo disabitato il recinto del sacro.
Venendo a patti con la ragione, con la buona educazione, con la cultura, con la morale civile, oggi la religione si è fatta evento diurno, e perciò parla di morale sessuale, di contraccezione, di aborto, di divorzio, di scuola pubblica e privata. E così, producendosi in discorsi che ogni società civile può fare tranquillamente da sé, lascia la gestione della notte indifferenziata del sacro alla solitudine dei singoli che cercano rimedi in farmacia, o alla follia dei gruppi che, privi come sono di quelle metafore di base dell'umanità che hanno fatto grandi le religioni storiche, producono quelle promesse vuote ma più spesso tragiche che, dalla religiosità della New Age a quella dei movimenti satanici o apocalittici, vengono incontro a quel nucleo di follia che ciascuno di noi avverte dentro di sé come non interpretabile, non culturalizzabile, non leggibile. ( … )“
6 – Da “Né senso né fede“ di Umberto Galimberti
“Al di là dell'apparente risveglio religioso, fatto più di effetti mediatici (come si è visto in occasione della morte di Giovanni Paolo II e l'elezione di Benedetto XVI) e di speculazioni politiche (vedi l'appoggio dei movimenti religiosi e ultraconservatori all'elezione di Bush), le religioni si stanno avviando inesorabilmente verso la loro estinzione, non per l'inarrestabile processo di secolarizzazione che caratterizza la nostra cultura, e neppure perché con le conquiste della scienza e della tecnica l'uomo può ottenere da sé quel che un tempo implorava da Dio, ma perché l'età della tecnica ha modificato la nostra psiche abituandola a un tempo contratto che è l'intervallo che intercorre tra i mezzi e i fini.
Un mezzo è un mezzo se adeguato al fine che vuol raggiungere, perché se è inadeguato, non è più un mezzo. Allo stesso modo un fine è un fine, e non un sogno, se i mezzi per conseguirlo sono disponibili oggi e non chissà quando.
Questo tempo contratto tra il recente passato e l'immediato futuro, che è il tempo proprio dell'età della tecnica, sopprime, dentro di noi, il tempo escatologico che prevede che, alla fine (del mondo), si realizzi quello che era stato annunciato. E siccome la religione si fonda sul tempo escatologico, se questo non ha più riscontro e risonanza nella nostra psiche, la religione muore, perché non più sostenuta da quella dimensione temporale (l'escatologia) di cui si alimenta.
Resta il problema del "senso della vita" a cui le religioni offrivano risposte. Perciò l'umanità vaga senza orizzonte, ma senza neppure più la disponibilità di affidarsi a quelle che già Eschilo chiamava cieche speranze.“
7 - Da “Dove ci sta portando la morale cattolica“ di Gustavo Zagrebelsky
“( … ) … rivolgiamoci alla realtà. Il cattolicesimo è oggi in auge forse più che come religione delle persone, come (surrogato di una) religione civile. Con molta leggerezza, si parla di supplenza della religione rispetto al difetto di idealità che si vede nella politica attuale. Le nostre società laicizzate non avrebbero in se stesse le risorse morali sufficienti per fondare un´unità durevole e, invece di cercare di darsele, dovrebbero riconoscere umilmente la loro minorità di fronte alla religione cattolica. Da qui al riconoscimento, forse non teorico ma almeno pratico, che la legge civile deve basare la sua forza sulla coincidenza con la morale cattolica e che la legittimità dei governanti non può prescindere dal consenso e dalla benevolenza dell´autorità ecclesiastica, il passo è breve.
Il cattolicesimo-religione civile sembra essere assai gradito, per i vantaggi materiali immediati che ne possono derivare, sia agli uomini di chiesa che a quelli di stato. Questa idea politica della religione cristiana, pur ben radicata nella storia e nella dottrina già dei Padri della Chiesa fin dal IV secolo, sembrerebbe essere una bestemmia dal punto di vista del messaggio di Gesù di Nazareth, ridotto a strumento di governo o a ideologia. In ogni caso, è un´aberrazione dal punto di vista di quel supremo principio di laicità che sta scritto nella Costituzione. La distinzione e l´autonomia dei due "ordini" – ha statuito ancora la Corte costituzionale nella sentenza n. 334 del 1996 - esclude che si possa fondare l´autorità delle leggi civili su obbligazioni religiose. Il che precisamente contraddice, anche dal punto di vista dello Stato, la tentazione di usare il cattolicesimo, o qualunque altra religione, come religione civile.
Si dirà: ma qui si fa confusione! Una cosa è l´uso politico-statale del cattolicesimo; altra cosa, l´uso sociale: vietatissimo il primo, lecitissimo il secondo. Guardiamo ai comportamenti. Che cosa ci dicono gli incontri, quelli che vediamo e i tanti altri che non vediamo, tra uomini di Stato e di Chiesa, tra melliflui sorrisi e reciproci salamelecchi, in cui la religione si compromette alla politica e la politica alla religione; quegli incontri da cui scaturiscono attese di appoggio alle aspirazioni degli uni e degli altri che si traducano in indicazioni elettorali e privilegi legali? Si tratta davvero solo di illuminare cristianamente la società o non piuttosto di inquinare clericalmente la politica?
Anche sul versante statale, dunque, quell´«aver presenti i principi costituzionali» che apre il preambolo del Concordato pare assai svuotato. Ma questo svuotamento cospira con quello dei principi conciliari che riguarda la Chiesa. Vanno nella stessa direzione, non si creano frizioni. Ognuno ci trova un proprio misero vantaggio. Così si spiega perché nessuna delle due parti ha mai posto problemi di rispetto del Concordato. Anzi, più ci si allontana dallo spirito, più si fa a gara nel lodare la propria e l´altrui fedeltà concordataria, la propria e altrui "sana" concezione della laicità. Con quest´aggettivazione (la "sana" laicità, la "vera" libertà, la "autentica" democrazia, ecc.), non si contribuisce al dialogo e alla comprensione, poiché ci si fa giudici in causa propria e si squalifica l´interlocutore, come portatore d´idee "insane", "false", "contraffatte". Ma le difficoltà si imporranno da sé e non sarà con gli aggettivi che le si risolverà. Non è facile dire quanto questa sospetta concordia potrà durare indisturbata; fino a quando si potranno alzare le spalle dicendo: sono polemiche d´altri tempi, "ottocentesche". Tra molti credenti e molti non credenti, per ragioni sia di fede sia di democrazia, cresce l´insofferenza, nella stessa misura in cui crescono i privilegi della Chiesa cattolica – quei privilegi cui essa si è dichiarata disposta a rinunciare quando facessero scandalo (e sarebbe il caso di riconoscere che effettivamente fanno scandalo) – e cresce la corsa all´investitura ecclesiastica del nostro ceto politico. Non fosse altro che per prudenza, sarebbe un errore non tenerne conto.“
8 – Da “Sacro senza morale“ di Umberto Galimberti
“( … ) … quel che conta è che la religione cristiana ha abdicato alla sua funzione che, come per tutte le religioni, è quella di gestire la notte indifferenziata del sacro che è un regime di massima violenza suicida e omicida, dove si giocano espressioni di rifiuto radicale della normalità esistente, processi simbolici di rinascita e di trasformazione, eventi di morte, e dove in gioco sono quelle situazioni-limite intorno a cui da sempre si raccolgono quei regolatori del sacro che in tutte le culture si chiamano "sacerdoti" da tempo provvisti di quelle metafore di base in cui l'umanità riconosce se stessa, quando la follia della mente disorienta l'anima e sottrae, al tranquillo incedere della ragione, ogni forza persuasiva.
Venendo a patti con la ragione, con la buona educazione, con la cultura, con la morale civile, la religione s'è fatta evento diurno, e perciò parla di morale sessuale, di contraccezione, di aborto, di divorzio, di scuola pubblica e privata. E così, producendosi in discorsi che ogni società civile può fare tranquillamente da sé, lascia la gestione della notte indifferenziata del sacro o alla solitudine dei singoli che cercano rimedi in farmacia, o alla follia dei gruppi che, privi come sono di quelle metafore di base dell'umanità che hanno fatto grandi le religioni storiche, producono quelle promesse vuote, ma più spesso tragiche, che sono il nutrimento di quella religiosità apocalittica o New Age che viene incontro a quel nucleo di follia che ciascuno di noi avverte dentro di sé come non interpretabile, non culturalizzabile, non leggibile.
Se c'è una possibilità per il cristianesimo di recuperare il rapporto con il sacro, questa possibilità passa attraverso la rinuncia, da parte del cristianesimo, a legiferare in sede morale, perché non c'è commensurabilità tra il sapere umano e il sapere divino, quindi non si può costringere il giudizio di Dio nelle regole con cui gli uomini hanno organizzato la loro convivenza e confezionato le loro morali.
Come ci ricorda il filosofo cristiano Kierkegaard, Dio è al di là del vero e del falso, così come è al di là del bene e del male. Il timor di Dio custodisce questa incolmabile differenza e teme per Dio ogni volta che si tenta di ridurre l'imperscrutabilità del suo giudizio alle regole della morale.
E questo perché da un lato l'imperscrutabilità di Dio è al di là delle morali umane, e dall'altro perché la trascendenza e l'inaccessibilità del suo giudizio vieta che una religione, in suo nome, possa sequestrare il principio del bene e del male, che è poi il segreto che Dio cela e che il serpente promette ad Adamo di svelare facendolo precipitare nella colpa e nel peccato.
Se il cristianesimo decide di rinunciare alle prescrizioni morali per tornare a essere "religione", il problema di formulare una morale che possa valere per tutti gli uomini, al di là delle divisioni religiose, passa alla ragione umana, come da duecento anni si è incominciato a fare a partire dall'Illuminismo, che da noi ha segnato la fine delle guerre di religione che altrove ancora incendiano la terra.“
9 - Da “Soli nella notte del sacro“ di Umberto Galimberti
“Il sacro ha abbandonato l'Occidente, ma non le sue anime perse, costrette a confrontarsi individualmente con il volto terribile del sacro, senza il conforto di un mito, di un rito, di un sacrificio, di una fede condivisa da una collettività che, comunitariamente e non individualmente, propizia e tiene a debita distanza l'aspetto inquietante del sacro.
Il sacro, infatti, è un regime di massima violenza suicida e omicida, dove si giocano espressioni di rifiuto radicale della normalità esistente, processi simbolici di rinascita e di trasformazione, eventi di morte, e dove in gioco sono quelle situazioni-limite in cui da sempre si raccolgono questi regolatori del sacro che in tutte le culture si chiamano "sacerdoti", da tempo provvisti di quelle metafore di base in cui l'umanità riconosce se stessa, quando la follia della mente disorienta l'anima e sottrae, al tranquillo incedere della ragione, ogni forza persuasiva.
Nel recinto del sacro, che gli antichi avevano cura di delimitare perché ciò che lì si manifesta è palese contraddizione, entusiasmo fuori misura, dolore sordo e muto, avvengono "sacrifici" (di cui la transustanziazione cristiana del pane e del vino in carne e sangue di Cristo è l'ultima traccia), in quella trasfigurazione di tutti i segni e di tutte le parole a cui non si può accedere se non attraverso i sentieri sconnessi della follia.
Le religioni storiche, che pure sono state le grandi regolatrici del sacro, perché sapevano incontrare l'uomo presso il tempio, presso l'animale sacrificato, nell'orgia dionisiaca, nel mistero eleusino, alle pendici del Golgota, nelle arene lorde di sangue e brandelli di carne, hanno da tempo disabitato il recinto del sacro per prodursi in esegesi costruite fuori dal recinto, là dove il pericolo tace o è lontano, prendendo a prestito alcuni elementi del sacro per proferire parole inincidenti, parole fuori dalla scena che il sacro ordina con riti, comandamenti, gesti perentori che si sottraggono a ogni vaglio critico.
Venendo a patti con la ragione, con la buona educazione, con la cultura, con la morale civile, la religione si è fatta evento diurno, e perciò parla di morale sessuale, di contraccezione, di aborto, di divorzio, di fecondazione omologa o eterologa, di scuola pubblica e privata. E così, producendosi in discorsi che ogni società civile può fare tranquillamente da sé, lascia la gestione della notte indifferenziata del sacro alla solitudine dei singoli che cercano non nella religione, ma nell'evento di massa (a sfondo religioso), la traccia di quei legami affettivi e comunitari che la nostra cultura dell'individualismo ha spezzato, sottraendo ai singoli quell'unica difesa (il legame comunitario) di cui gli uomini dispongono, per arginare il terrore della solitudine e dell'irreperibilità di una traccia di senso.“
10 - Da “Sulle tracce del sacro“ di Umberto Galimberti.
“ ‘Sacro‘ è parola indoeuropea che significa ‘separato‘. La sacralità, quindi, non è una condizione spirituale o morale, ma una qualità che inerisce a ciò che ha relazione e contatto con potenze che l'uomo, non potendo dominare, avverte come superiori a sé, e come tali attribuibili a una dimensione, in seguito denominata ‘divina‘, pensata comunque come ‘separata‘ e ‘altra‘ rispetto al mondo umano.
Dal sacro l'uomo tende a tenersi lontano, come sempre accade di fronte a ciò che si teme, e al tempo stesso ne è attratto come lo si può essere nei confronti dell'origine da cui un giorno ci si è emancipati. Questo rapporto ambivalente è l'essenza di ogni religione che, come vuole la parola, recinge, tenendola in sé raccolta (re-legere), l'area del sacro, in modo da garantire a un tempo la separazione e il contatto, che restano comunque regolati da pratiche rituali capaci da un lato di evitare l'espansione incontrollata del sacro e dall'altro la sua inaccessibilità. Sembra che tutto ciò sia stato presentito dall'umanità prima di temere o di invocare qualsiasi divinità. Dio, infatti, nella religione, è arrivato con molto ritardo.
Al contatto con il mondo sacro sono preposte persone consacrate e separate dal resto della comunità (i sacerdoti), spazi separati dagli altri in quanto carichi di potere (sorgenti, alberi, monti e poi templi e chiese), tempi separati dagli altri e nominati "festivi", che delimitano i periodi "sacri" da quelli "profani" dove, fuori dal tempio (fanum), si svolge la vita di ogni giorno scandita dal lavoro e dai divieti (i tabù) da cui traggono origini le regole e le trasgressioni.
Oltre alla lettura religiosa, del sacro si danno anche diverse interpretazioni antropologiche e psicologiche, perché il sacro non è solo esterno all'uomo, ma anche interno ad esso, come suo fondo inconscio, da cui un giorno la coscienza si è emancipata e resa autonoma, senza peraltro sopprimere lo sfondo enigmatico e buio della sua origine. Da questa origine la coscienza ancora dipende sia per la genesi delle sue ideazioni, sia per la minaccia mai scongiurata di esserne di nuovo risucchiata in quella forma che l'odierna patologia, in cui si è risolta l'antica mitologia, chiama "follia".
A conoscere questa follia non sono la psicologia, la psichiatria o la psicanalisi, ma la religione che, delimitando e circoscrivendo l'area del sacro, e tenendola a un tempo "separata" dalla comunità degli uomini e "accessibile" attraverso ritualità codificate, ha posto le condizioni perché gli uomini potessero edificare il cosmo della ragione, senza rimuovere l'abisso del sacro, perché è da quel mondo che vengono le parole che poi la ragione ordina in modo non oracolare e non enigmatico.
Se le religioni abdicano a questa loro funzione e lasciano la gestione della notte indifferenziata del sacro alla solitudine dei singoli, questi che cercheranno rimedi in farmacia, o nella follia dei gruppi che, privi come sono di quelle metafore di base dell'umanità che hanno fatto grandi le religioni storiche, producono quelle promesse vuote, ma più spesso tragiche, che sono il nutrimento di quella religiosità da apocalisse o da new age che viene incontro a quel nucleo di follia che ciascuno di noi avverte dentro di sé come non interpretabile, non culturalizzabile, non leggibile.“
11 - Da “Fede e ragione“ di Umberto Galimberti
“A me non piace la definizione di "ateo" perché ad affibbiarmela sono coloro che credono in Dio e guardano il mondo esclusivamente dal loro punto di vista, dividendolo in quanti credono o non credono. In questa etichettatura c'è tutta la prepotenza del loro schema mentale, che fa della loro fede la discriminante tra gli uomini.
Prima della nascita della ragione, che è cosa recente essendo nata 2500 anni fa con la filosofia (la quale, per distinguersi dalla teologia ha sempre ragionato "come se Dio non fosse"), la religione era un tentativo di reperire dei nessi causali per difendersi dall'imprevedibile e dall'ignoto che ha sempre terrorizzato l'uomo e generato angoscia. Una condizione, spiegano Heidegger e Freud, che, non attutita o ridotta, avrebbe paralizzato l'umanità e impedito la sua evoluzione.
Attribuendo a Dio o agli dèi quanto vi era nel mondo di enigmatico e inspiegabile, le religioni hanno offerto un abbozzo di principio di causalità, che riduce l'angoscia perché consente di visualizzare l'imprevedibile come l'effetto di una causa divina che si poteva controllare o con le preghiere o con i sacrifici.
Con l'avvento della filosofia e poi della scienza lo spazio della religione, come si può constatare in Occidente, si è ridotto, non solo perché col sapere l'uomo può ottenere da sé quel che un tempo era costretto a implorare a un dio, ma perché la mentalità tecnico-scientifica, che conosce solo il tempo progettuale, ha scardinato nella psiche dell'uomo che vive nell'età della tecnica la dimensione del tempo escatologico che alimenta ogni vissuto religioso.
Chiamo "escatologico" quel tempo in cui alla fine (éschaton) si realizza ciò che all'inizio era stato annunciato, per cui il tempo non è più un "ciclo" dove si succedono le stagioni in un'eterna ripetizione, ma diventa "storia", ossia tempo fornito di "senso". Ne consegue che la ricerca di senso appartiene solo a coloro che concepiscono il tempo iscritto in un disegno, che per la religione è un disegno di salvezza.
La tecnica non abita il tempo escatologico, ma quello "progettuale", dove qualcosa appare come un mezzo se c'è in vista uno scopo. E uno scopo è tale, e non è un sogno, se a disposizione ci sono i mezzi per realizzarlo. Ciò determina nella psiche umana una contrazione del tempo tra il recente passato (dove sono reperibili i mezzi) e l'immediato futuro (dove sono in vista gli scopi).
Questa contrazione del tempo, che tutti noi viviamo nell'età della tecnica, non lascia più spazio alla dimensione escatologica in cui è la radice di ogni dimensione religiosa. E siccome la psiche non è immutabile, ma, come ci ricordano Freud e Jung, è "storica" e subisce l'influsso del tempo, nell'età della tecnica la nostra psiche rischia di non disporre più di dimensioni simboliche capaci di ospitare e di abitare dimensioni trascendenti. In questo senso dico che la tecnica corrode anche il trono di Dio. Quanto poi a una ragione senza fede, mi pare che ciò rientri nello statuto della ragione, che, come ci ricorda Kant, è un'isola piccolissima nell'oceano dell'irrazionale.
( … ).“
12 - Da “Integrale e relativo “ di Umberto Galimberti
“Io non credo che il farsi largo della Chiesa in ambiti che non sono propriamente suoi dipenda solo dall'incapacità e dalla debolezza dello Stato a farsi garante della sua laicità. Questo è senz'altro vero, come opportunamente ha fatto notare Eugenio Scalfari, ma non basta. Le ragioni più profonde io le andrei a cercare nell'aumento della complessità dovuto alla globalizzazione, che ha indebolito paurosamente la percezione della nostra identità e il nostro senso di appartenenza; nel dilagare dell'incertezza dovuta alla precarizzazione del lavoro che ha fatto implodere niente di meno che l'idea di futuro; nell'11 settembre che ha diffuso l'idea dell'Occidente minacciato che, bando alle chiacchiere e alle mollezze della tolleranza e del pluralismo, ha spinto tutti alla ricerca frettolosa di un'identità da contrapporre oggi al mondo islamico e domani alla Cina.
Non si spiegherebbe diversamente perché il razzismo alla Oriana Fallaci è diventato un bestseller in tutto l'Occidente e la condanna del relativismo (a favore del suo rovescio che è il dogmatismo, quando non il fondamentalismo) di papa Ratzinger non trovi opposizioni, ma al contrario raccolga consensi anche da parte degli atei definiti per l'occasione "devoti".
Quando il presente si sente minacciato e il futuro appare sempre più incerto e buio, in un'assenza totale di pensiero (che forse è la più corretta definizione di "pensiero unico") si ricorre frettolosamente al passato per reperire nella tradizione e nella religione quelle risorse simboliche che possono arginare il senso di disgregazione e di minaccia, se solo vengono riproposte in modo integralista e sottratte all'atteggiamento critico della discussione, vissuta come estenuante.
Ma siccome l'Occidente appare, tra le civiltà emerse nella storia, quella che ha reperito la propria specificità nell'affrancarsi dall'assolutismo, dal dogmatismo, dall'intolleranza, è davvero curioso che, di fronte alla disgregazione contemporanea, rinunci alla sua peculiarità per rifugiarsi in un'identità del passato, quando, senza dialogo, senza ospitalità, senza tolleranza, senza relativismo, l'Occidente non era in nulla dissimile dalle altre civiltà.
La Chiesa queste cose le sa e, riproponendo in modo integralista la sua tradizione millenaria volutamente sottratta al dibattito, approfitta dello stato di incertezza del mondo non tanto per dare una risposta alle paure dell'uomo contemporaneo, quanto per allargare la sua sfera di influenza tra quanti, e sono i più, non si sono mai accostati alla fatica del pensiero, e perciò sono ben disposti ad abbracciare una fede che dia loro certezza e soprattutto appartenenza e identità.“
13 - Da “Dio e il male necessario“ di Umberto Galimberti
“Un giorno i Greci scoprirono che l'uomo, a differenza dell'animale, da un lato non può vivere senza conferire alla propria vita un senso, e dall'altro, consapevole com'è di dover morire, non può evitare quel destino tragico che costringe a costruire un senso in vista della sua implosione.
Il cristianesimo cercò di portare l'umanità fuori dalla tragedia, promettendo una vita ulteriore alla vita terrena, quindi una vita eterna da guadagnarsi anche attraverso il dolore, concepito a un tempo come conseguenza di una colpa originaria e come caparra per l'eternità. In questo modo il tragico veniva espulso dalla condizione umana e al suo posto subentrava la speranza accompagnata dalla fede, che garantiva che nulla sarebbe andato perduto, neppure una briciola di senso, perché tutto sarebbe stato custodito dallo sguardo accogliente di Dio.
E il male? Come non rivolgere a Dio la domanda che Giobbe un giorno gli rivolse a proposito dei mali che avevano afflitto la sua vita? Il cristianesimo non attribuisce il male a Dio, ma a quel suo antagonista, Satana ("l'avversario"), alle cui tentazioni l'uomo può cedere, essendo libero di optare per l'ubbidienza ai comandamenti di Dio o per la loro violazione. Dunque, per il cristianesimo, il male e il dolore che ne consegue non sono, come pensavano i Greci, tratti costitutivi della condizione umana, ma effetti dell'uso della libertà umana. Ciò di cui l'uomo va fiero, la sua libertà, in cui scorge la sua differenza dall'animale, è anche il fondamento del male e del dolore, che dunque non dipendono da Dio, ma dal libero arbitrio umano.
Solo accedendo a questa visione del mondo possiamo capire le parole, altrimenti terribili quando non incomprensibili che, in occasione dei funerali, sentiamo pronunciare dagli uomini di religione davanti alle bare. Parole che sfidano il dolore, che oltrepassano l'umano sentire, e che, ben ascoltate, finiscono per imputare non solo il dolore, non solo la malattia, non solo l'incontrollabile tragedia, ma persino la morte all'umana colpevolezza, che prende avvio dal giorno stesso della nascita, se è vero che occorre un rito purificatore (il battesimo) per accedere all'innocenza.
Pur di salvare la bontà di Dio, il cristianesimo non esita ad aggiungere al dolore umano anche il peso della colpa. Per questo ho sempre dubitato che il cristianesimo sia la religione dell'amore. Dell'amore per l'uomo, tanto proclamato, ma teologicamente smentito.“
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