
Mi chiamo Laleh ed ho un'età tenera, infelice, talvolta
sarcastica. D'altronde ognuno ha l'età che si sente.
Sono nata in una famiglia numerosa, 6 fratelli e due gatti, in
uno Stato che del gatto ha solo la forma e non l'astuzia. Il monte
Damavand è la vetta della mia città e anche di una
sorta di gerarchia sociale.
Vivevo lontano dal mare, e questo è stato l'impulso, il
particolare rivoluzionante, diciamo la ciliegina che cambiato
la mia vita. Perché io ho sempre cercato l'elemento umido,
sono stata affascinata da Talete, dai naturalisti e spinta dall'odio
verso tutto ciò che è secco, statico o semplicemente
bianco. Tutto ciò, combinato all'amore per la pasta Barilla
e l'acqua Levissima e ad una graziosa indole anti-europea (nulla
è più attirante del disprezzo verso l'ignoto) mi
ha spinto a indossare l'abito del colore che tanto odiavo e a
trasferirmi in Italia, è stato un po' un rapporto qualità-
prezzo.
Ma questa è tutta una scusa, una poltiglia superficiale
attaccata qui per caso perché alla base c'è qualcosa
di molto più profondo.
Ero alla disperata ricerca dell'infelicità, tutto era perfetto:
una famiglia unita e vivace culturalmente, degli amici fedeli,
un lavoro appagante, una situazione politica che coronava finalmente
la libertà in nome della religione islamica. Cosa desideravo
di più? Ero cosi completa che non riuscivo a separare la
ragione dai sentimenti, l'apparato respiratorio da quello digerente.
Ma ciò a cui realmente aspiravo era l'incompletezza, l'incomprensione,
il senso di vuoto che ti fa sentire sazia come un bue. La
superficialità e l'approssimazione degli italiani, motti
come " non fare oggi quello che potresti fare domani" è
ciò che sognavo, e ci sono arrivata.
Sono riuscita ad amalgamare la cultura della completa spensieratezza
orientale e quella dell'incompletezza, della spensieratezza mediterranea.
E' un successo incomparabile: un po' come riunire l'essere al
non essere, la paglia al fieno, Roma a Cartagine.