Un viaggio nel viaggio. Immigrati e integrazione
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Un viaggio nel viaggio. Immigrati e integrazione
cura di Alice Giannitrapani



Il secondo appuntamento legato al ciclo di incontri sull’adolescenza, “il disagio invisibile”, è incentrato sui temi di immigrazione ed integrazione. Attraverso l’uso della metafora “un viaggio nel viaggio”, Graziella Favaro e Almira Myzyry ci raccontano delle esperienze e delle difficoltà dei ragazzi che arrivano in Italia, trovandosi ad affrontare conteporaneamente il distacco dal paese natale e il distacco/crescita che vive l’adolescente nel suo diventare adulto.

Apertura dell’incontro a cura di Ferruccio Capelli:

Ferruccio Capelli, segretario dell’associazione Casa della Cultura, richiama gli intenti e la progettualità di pensiero che lega il ciclo di incontri: l’adolescenza.
Questo incontro è dedicato al tema dell’immigrazione, fenomeno di recente sviluppo per un paese come l’Italia, ma in via di forte espansione. Ferruccio Capelli sottolinea come sia prioritario negli impegni dell’associazione tenere sotto osservazione ciò che accade nell’immediato, tenendo conto delle svariate “angolature” e prospettive dei fenomeni attuali.
Il recente incontro con il poeta peruviano José Enrique Briceno Berrù, che presenta la sua raccolta di poesie in italiano, è testimonianza dell’intento di far vivere dentro la programmazione, una nascente letteratura italiana fatta da immigrati, coinvolgendo la stessa comunità in maniera più attiva nel panorama letterario italiano, terra di immigrazione e contaminazioni.

L’incontro con Graziella Favaro e Almira Myzyry verte ancora una volta sul tema dell’adolescenza, dei disagi visibili e invisibili di adolescenti immigrati, rappresentata attraverso la metafora di “un viaggio nel viaggio”.
Luogo di comuni esperienze per questi ragazzi è la scuola, sulla quale si gioca la partita dell’integrazione.

Graziella Favaro:

Graziella Favaro apre l’incontro ponendo l’attenzione sul significato dell’esperienza adolescenziale, indicando come sia necessario vederla da più prospettive, come fase di un cammino che ha radici lontane per gli immigrati venuti o che stanno arrivando.
Integrazione, adolescenza e inserimento scolastico sono le parole chiave.
Chi sono? Quanti sono gli immigrati oggi presenti sul territorio italiano? Da dove vengono?
Questi sono i quesiti che aprono l’intervento, accanto alla riflessione legata ai temi della costruzione identitaria nel diventare grandi in una terra diversa da quella natia.

Il mondo dell’immigrazione è molto ampio, sfaccettato e complesso. In Italia vivono, stando alle fonti ufficiali, 2.200.000 sono gli immigrati regolari e altri 300.000 sono quelli in attesa di formalizzare la propria permanenza. Solo a Milano, il 21% dei bambini che vengono al mondo sono di nazionalità straniera, una percentuale elevata che fa pensare ad un maggiore incremento futuro.

In merito agli adolescenti immigrati, possiamo suddividere il fenomeno in tre categorie o “mondi”: gli adolescenti ricongiunti, gli adolescenti che si trovano in Italia da soli e gli adolescenti in Italia che fanno richiesta di asilo.
I ragazzi di età compresa tra i 12 e i 16 anni arrivano in Italia prevalentemente per motivi di ricongiungimento, ma non riescono tuttavia a diventarne cittadini, in quanto per ottenere la cittadinanza si deve beneficiare del diritto di sangue (ius sanguini) o del diritto di suolo/luogo (ius loci). Solamente gli stranieri nati in Italia e che continuano a vivere sul territorio italiano fino ai 18 anni compiuti, accedono al diritto di cittadinanza.
Le fasce di età che crescono più della media sono quella infantile (da 3 a 6 anni) e quella adolescenziale (da 14 a 18 anni). Nelle scuole superiori il ritmo di crescita degli alunni stranieri aumenta del 25% annuo, prevalentemente in istituti professionali o tecnici, per il 43% dei casi (rispetto al 20% degli autoctoni), mentre è irrisoria la percentuale che si iscrive nei licei.

Le definizioni che vengono correntemente usate per definire questi fenomeni danno un’idea su come questa fascia di età venga letta: “seconda generazione” o “generazione uno e mezzo”.
Proprio “uno e mezzo” esplica l’idea della distanza di questi ragazzi, che sperimentano distanze spaziale e valoriali rispetto ai loro coetanei, a differenza dei genitori, che arrivano nel paese ospitante con una storia identitaria definita. Questi sono i ragazzi delle “terre di mezzo”, “in bilico”, “in mezzo al guado”… espressioni metaforiche che rimandano ad una precarietà emotiva situata nel passaggio simbolico e reale del viaggio tra paesi, culture, valori e modi di vivere differenti.

Vi sono due viaggi che accomunano tutti gli adolescenti: vi è un viaggio simbolico di addio ai lidi dell’infanzia, luoghi simbolici di sicurezze e rassicurazioni ed un viaggio centrifugo dalla dimora verso il mondo. Per gli adolescenti immigrati c’è anche la realtà di un viaggio nella migrazione, che spesso non è scelta né preparata e comporta frequentemente disillusioni rispetto all’ “eldorado” fantasticato.
Questi giovani si trovano a dover abbandonare la densità di una vita aggregativa amicale e familiare del paese d’origine per intrapprendere una strada impegnativa di cambiamenti, tra sradicamento e
riorientamento, in una sorta di viaggio identitario nella propria storia, frutto della ricomposizione di pezzi di vita, nel puzzle delle origini, passando per il presente e pensando al futuro.
Per poter superare il vissuto di separazione essi compiono un viaggio molteplice e diacronico, tra infanzia, adolescenza ed età adulta.

La scuola, per poter essere di aiuto nella fase di accoglienza del minore deve saper riconoscere tre momenti tipici nell’elaborazione della distanza per questi ragazzi e saper riconoscere i tempi delle stesse.
Nella prima fase, specialmente per i 13, 14 e15enni, tutte le risorse dell’individuo sono mobilitate per il presente: la sfida della lingua, il dovere dell’apprendimento, lo spazio del corpo, regolato da comportamenti congrui a “saper stare nello spazio”, rappresentano parte delle problematicità che questi ragazzi si trovano ad affrontare.
Graziella Favaro racconta del vissuto di un ragazzo serbo, che esprime il proprio disorientamento verso forme comunicative dell’insegnante che non riconosce, poiché quando il maestro dice “adesso facciamo questo…”, il tono accogliente sottintende in realtà l’espressione di un ordine, poiché sottintende “che se non lo fai…!”
Paradossalmente, più l’insegnante vuole accogliere, più disorienta, poiché mette in atto una modalità comunicativa ambigua e non trasparente che non viene riconosciuta dal ragazzo.
Nella fase del “qui e ora”, il passato va messo tra parentesi per poter gestire la nostalgia che può rappresentare un’ulteriore sofferenza poco gestibile al momento.
Nella seconda fase il dolore emerge e il ragazzo inizia un primo tentativo di elaborazione.
La terza fase è invece legata al futuro ed alla costruzione di un progetto di vita. “Cosa farò?”, “cosa sarò?”: questi sono gli interrogativi che si pongono questi ragazzi.
Vi è quindi la necessità che l’insegnante affini lo sguardo per poter essere in grado di accompagnare l’alunno in questi tre momenti.

Il Centro Come ha condotto di recente una ricerca su questi temi, partendo dai disegni e dai racconti di sé di alcuni ragazzi immigrati, sufficientemente inseriti, da poter raccontare in uno spazio visivo e descrittivo, “l’io da piccolo”, “l’io oggi” e “l’io nel futuro”.
Si è riscontrato che tra i più grandi alcuni non sono riusciti a disegnare il passato, mentre alcuni tra i più piccoli presentano le stesse difficoltà per il futuro. Ad un “vuoto” del passato si contrappone un’incapacità di immaginarsi e di rappresentarsi nel futuro.
Attraverso la visione di alcuni disegni, Graziella Favaro ci illustra e descrive immaginari e tematiche ricorrenti: Eduardo si disegna nel passato in compagnia dei nonni, mano nella mano, in cammino; la stessa scena è riproposta nel futuro, ma Eduardo è solo con il suo nuovo nucleo familiare, quello che spera di potersi costruire un giorno. Una ragazza cinese si rappresenta frammentata: la sua testa è a scuola, il suo busto in Cina con la mamma, mentre le gambe rappresentano il suo futuro; questa è la spiegazione che fornisce la stessa ragazza del suo disegno.
Nel futuro molti ragazzi si immaginano soli, ma con una forte volontà di farcela, supportati da strumenti meccanici o tecnologici in grado di aiutarli.
Nell’io nel futuro, un ragazzo si disegna alla guida di un aereo in uno spazio vuoto; ricompare la tematica del viaggio ma soprattutto della difficoltà nel prendere una decisione sul luogo in cui ci si fermerà a vivere.

La solitudine, per la mancanza di coetanei con cui condividere le stesse esperienze, ma soprattutto per la mancanza di un supporto familiare in grado di rassicurare il ragazzo, porta molti adolescenti a
sviluppare la credenza di essersi fatti da soli, di essere cioè i “demiurghi di se stessi”, nella solitudine delle sfide del quotidiano.

Questa fase dell’adolescenza ben si presta ad essere rappresenta in forme dicotomiche tra autonomia e dipendenza, responsabilità e senso d’inadeguatezza, nell’autonomia delle responsabilità e nella dipendenza verso i voleri della famiglia, che a volte rischia di incastrarli nei suoi progetti. Si ha in questa fase una differenza netta tra immigrati e autoctoni. Racconta Favaro di come una mediatrice, collaboratrice del Centro Come osservasse stupita il comportamento italiano di “trattare i bambini come i grandi e i ragazzi da bambini”. Da noi l’adolescenza è vista come l’età dell’evasione e questo è un giustificativo ritenuto sufficiente a non spingere i genitori a pretendere molti doveri o compiti ai propri figli, viceversa nell’infanzia i bambini sono spesso coinvolti in molte argomentazioni a cui vengono fornite spiegazioni ed a loro è richiesto di fare.

Dover imparare una lingua è una regressione necessaria, poiché implica il dover ricominciare da capo e poco si concilia con la necessità dell’essere inseriti in percorsi di studio esigenti, ma molto difficile da accettare per questi ragazzi. Questi dati aprono alla riflessione sul sistema scolastico e sull’offerta formativa che i ragazzi ricevono negli istituti professionali, che forniscono aspettative più basse e una perdita di autostima nel ragazzo.

Almira Myzyry:

L’intervento di Almira Myzyry parte proprio dal concetto di viaggio, analizzandolo nella sua concretezza: da che paesi vengono questi ragazzi e come arrivano in Italia?
Nelle ricerche sull’immigrazione, i ragazzi vengono definiti e categorizzati, tra le altre, in base al fatto che siano “accompagnati”/ “non accompagnati” o “mal accompagnati”: cosa significano queste espressioni?
Essere “non accompagnati” vuol dire che questi ragazzi sono arrivati in Italia senza i genitori, questo avviene prevalentemente per i ragazzi provenienti da Albania, Marocco e Romania; non significa però che questi ragazzi siano necessariamente soli, infatti, in questi paesi il concetto di famiglia abbraccia un numero più ampio di persone e parenti, i ragazzi sono spesso accompagnati da zii o altri parenti, il che per la nostra legge non è però sufficiente. Il cognome è spesso ritenuto significativo per giustificare la validità del legame di parentela, ma trovandosi di fronte alla realtà italiana, che non prevede questa accezione, e di fronte a un iter burocratico complesso, si trovano disorientati.

Per legge i minori non possono essere espulsi, ma in alcuni casi è previsto il rimpatrio assistito, che vede la collaborazione dei servizi sociali italiani con quelli del paese di origine, o il permesso provvisorio di minorità, che implica l’affidamento del ragazzo ad una comunità.
Almira Myzyry riscontra nell’esperienza delle comunità di accoglienza alcune criticità ed in particolare l’insorgenza di conflitti di disobbedienza, in quanto la figura dell’educatore, spesso giovane, riveste più un ruolo affettivo e di accompagnamento, che un ruolo educativo e autoritario. Parlando ad esempio dei giovani albanesi, abituati per cultura e tradizione a figure genitoriali forti, in una situzione come quella della comunità, faticano a trovare un referente in grado di gestirli.

Almira Myzyry preferisce concentrarsi sulla tematica dei ragazzi ricongiunti o arrivati “soli” piuttosto che parlare di figli di immigrati, nati in Italia o arrivati quando erano molto piccoli, anche se non manca di citare come vi siano lo stesso difficoltà per questi adolescenti, a partire da operazioni apparentemente semplici, come quella di andare all’estero con la scuola: per chi non è cittadino italiano anche solo l’ottenimento di un visto richiede molti passaggi burocratici.

Per quanto riguarda il ricongiungimento ai parenti che si trovano già in Italia (per la maggioranza dei casi si tratta di ricongiungimento al padre) vi è la difficoltà di affrontare una realtà spesso diversa da quella che era stata raccontata dal genitore emigrato alla famiglia, diversa da quella proposta dalle immagini televisive e da quelle sognate dal ragazzo.

La Myzyry segnala come vi sia la tendenza alla reinterpretazione da parte dei singoli della propria cultura , spesso anche in maniera più tradizionalista da parte dei figli di immigrati, che trovandosi in una realtà ostile tendono ad assumere posizioni più rigide rispetto a quelle degli stessi genitori. Secondo la relatrice non bisogna quindi caricare di eccessiva enfasi la cultura di origine, poiché essa è frutto di reinterpretazioni continue, da individuo a individuo.
La tendenza auspicata verso cui lavorare è dunque quella di un “universalismo interculturale”, capace di una modalità comprendente, che lavora sui propri stereotipi per trarne conoscenza.


http://www.casadellacultura.it/site/materiali/archivio/societa/006_disagio_islam.html



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