Marie Rose Moro - I principi della clinica transculturale. Il trauma dell’esilio
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SEMINARIO INTRODUTTIVO ALLA CLINICA TRANSCULTURALE
Ospedali San Carlo e San Paolo di Milano
- settembre 2000 -

I principi della clinica transculturale
La prima e la seconda generazione

Marie Rose Moro
Psicoterapeuta, Responsabile Servizio di psicopatologia del bambino e dell'adolescente dell'Ospedale
Avicenne di Bobigny (Università Parigi 13)




4) La prima e la seconda generazione - Passiamo quindi all’ultimo punto che volevo prendere in considerazione a livello teorico. Consentitemi di insistere sul fatto che ci sono diversi studi a nostra disposizione sulla prima generazione, ma ciò che mi ha appassionato subito è stata la seconda generazione. Che cosa fanno questi bambini della loro alterità culturale? La seconda generazione è destinata a trasformare la società d’accoglienza, il destino in generale della seconda generazione è quello di diventare bambini e adulti nel paese d’accoglienza e di restarvi. Il loro destino è legato alla questione della trasmissione fra la prima e la seconda generazione, perché questi bambini non hanno conosciuto il villaggio, i rituali d’iniziazione, non sanno che cosa significano certe cose.

Mi ricordo un piccolo latinoamericano durante una consultazione in cui i genitori parlavano di
susto, il bambino capiva questa parola che però non aveva alcun senso culturale per lui. I latinoamericani che sono in questa sala lo sanno meglio di me, il susto è un concetto culturale molto importante, che esprime una estrema paura. Anche in Maghreb c’è una parola che indica uno spavento che separa il corpo dallo spirito e può comportare sofferenza, preoccupazione, sia nell’anima che nel corpo. Questo piccolo latinoamericano capiva la parola, ma non aveva alcun senso per lui. I genitori dicevano che questo bambino parlava molto bene francese e spagnolo a casa ma, non appena andava a scuola, chiudeva la bocca, non parlava più, non riusciva più a parlare a nessuno, né alla maestra, né ai compagni. Era spaventatissimo, in modo tale che non riusciva a comunicare e a imparare. Di fronte a questa situazione, i genitori erano disperati e mi avevano chiesto aiuto. Siamo giunti alla conclusione che il bambino soffriva di susto, ma il bambino di per sé non attribuiva nessuna strutturazione culturale a questo termine.

Si tratta di bambini della seconda generazione che non parlano più la lingua dei genitori. Da un punto di vista del bilinguismo, in Francia troviamo una situazione terribile: solo il dieci per cento dei bambini immigrati è bilingue, quindi una percentuale molto bassa, insufficiente. Questo è dovuto alla concezione francese della lingua, si ritiene che l’identità sia la lingua e non si può immaginare un’identità francese plurilingue. Questo fa parte della nostra storia. La scuola e le istituzioni in generale non favoriscono assolutamente la trasmissione della lingua madre, cosa che io ritengo un errore perché il bilinguismo è importante per la strutturazione individuale, per la trasmissione, per il legame genitori-figli. Il bilinguismo è fondamentale ma non è particolarmente favorito dal paese. Non so che cosa succede in Italia, comunque la seconda generazione non è necessariamente bilingue e si trova in una situazione diversa dalla precedente generazione: questi bambini non hanno subito il trauma della migrazione, ma questo trauma è stato loro trasmesso. Vivono in una situazione di rottura, cioè di separazione tra il mondo di casa e il mondo della scuola o dell’esterno. Quindi la loro difficoltà e anche la loro grandezza consiste nello stabilire dei collegamenti fra l’esterno e l’interno. Il problema non è quello del trauma diretto, i figli si trovano a livello di questa rottura e separazione tra due mondi molto difficili da conciliare. Le difficoltà sociali finiscono per aumentare ulteriormente la distanza fra i due ambienti: la casa e la scuola, la casa e il consultorio.

Non aggiungerò altro, se non che si tratta di una problematica che si accresce quando i bambini crescono e si acuisce in particolare nell’adolescenza. Vorrei concludere questa riflessione, accennando qualcosa di molto importante per l’approccio transculturale. La prima e la seconda generazione pongono problemi diversi; dobbiamo rispondere a questi problemi non in modo standardizzato, ma inventare cose nuove, seguendo l’evoluzione delle situazioni e con la consapevolezza che per questi bambini e adolescenti bisogna riflettere in termini di trasmissione, di rottura, più che in termini di trauma diretto.


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