Marie Rose Moro - I principi della clinica transculturale. Il trauma dell’esilio
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SEMINARIO INTRODUTTIVO ALLA CLINICA TRANSCULTURALE
Ospedali San Carlo e San Paolo di Milano
- settembre 2000 -

I principi della clinica transculturale
Il trauma dell’esilio

Marie Rose Moro
Psicoterapeuta, Responsabile Servizio di psicopatologia del bambino e dell'adolescente dell'Ospedale
Avicenne di Bobigny (Università Parigi 13)





3) Il trauma dell’esilio - Il terzo punto sul quale si basa la clinica transculturale è il trauma dell'esilio.

Sono stati fatti molti studi su questa tematica, ma ciononostante rimane un punto molto controverso. Che cos'è la migrazione? Cos'è il fenomeno migratorio? Innanzitutto è un evento sociologico, un individuo o una famiglia lasciano il paese originario per trasferirsi in un altro paese per ragioni multiple: politiche, economiche, personali, storiche. Possono anche coesistere tutte queste ragioni.

La migrazione, il fenomeno per cui si lascia il proprio villaggio, la propria città, il proprio paese è fisiologico in una società. La stessa migrazione interna, molto comune in Francia e in Italia, è una problematica molto importante che comporta una serie di conseguenze per gli individui, prenderemo però in considerazione solo i fenomeni migratori internazionali.

Si tratta di un evento sociologico che rappresenta, ne sono convinta, un atto di estremo coraggio, che le ragioni siano politiche o economiche. Ci possono essere anche ragioni tradizionali: ci sono zone in cui, indipendentemente dalle ragioni oggettive, per diventare uomini si deve partire all'avventura, ci sono sempre state persone che hanno tentato questo cammino, si tratta di vere e proprie tradizioni famigliari. Indipendentemente dalla ragione, si tratta comunque di un atto di grande coraggio, perché lasciare il proprio paese per andare in un altro, quindi cambiare universo, non avere più punti di riferimento, protezione, dover ricostruire tutto a partire dalla lingua, le appartenenze, il modo di fare, è un atto di estrema gravità e tutti i migranti lo sanno. Anche quando fanno questa scelta senza esservi obbligati, sono consapevoli che l'emigrazione è un atto grave, che avrà un'influenza anche sulle generazioni a venire.

In un determinato periodo si tendeva a pensare che certi tipi di migrazione fossero, per così dire, transitori, per cui si parte, si va a cercare di avere una migliore educazione per i figli, si cerca di guadagnare del denaro, ma poi si tornerà. Tuttavia tutti i migranti sanno che quando partono assumono su di sé il rischio di non tornare mai più, di trasferire i propri figli alla società d'accoglienza. I bambini sono per così dire «persi per l'Africa» come diceva una delle mie pazienti.

Non vorrei considerare ulteriormente questi aspetti, ma è importante capire che la migrazione è un atto che coinvolge individui e gruppi. Che la migrazione sia un evento sociologico è risaputo, è più complicato invece pensare che la migrazione sia parimenti un evento psicologico. Le conseguenze sull’individuo sono infatti profonde. Vorrei citare una storia particolare che mi aveva toccato in modo molto profondo. Un padre mi ha detto: «Io sono emigrato per salvare i miei bambini, perché i miei due primi bambini sono morti, e io immaginavo che si dovesse andare in un altro paese in cui ci si potesse occupare dei bambini in modo diverso, in cui i miei bambini potessero avere delle cure mediche». Non era solo una questione di cure mediche, il padre sentiva il bisogno di emigrare perché i bambini potessero rimanere in vita; quindi, si trattava di problematiche da un punto di vista psicologico estremamente complesse.

Un'altra storia è quella di un mio paziente maghrebino, che viveva in un piccolo villaggio del Marocco. Figlio unico, aveva perduto il padre quando era molto piccolo ed era stato allevato dalla madre, faceva il calzolaio. Aveva come tutore uno zio paterno che, invece, aveva molti figli emigrati in Francia, che avevano una macchina, dei soldi da dare alla famiglia ecc. Tutti in un certo qual modo avevano avuto successo. Quest'uomo aveva un certo potere nel villaggio, era ben inserito, voleva stare vicino alla madre che era sola; si era sposato con una cugina e tutto andava benissimo per lui, finché un giorno lo zio, a cui era molto legato, gli aveva rimproverato in modo paterno di non essere abbastanza ambizioso e di non avere, come i cugini, tentato la fortuna in Francia. Il mio paziente non aveva alcuna intenzione di partire perché stava bene con sua madre, accanto alla sua giovane moglie. Ha riflettuto però sul fatto che era importante essere un buon figlio agli occhi di questo tutore, che gli aveva permesso di avere un mestiere. Quindi, un giorno ha deciso di partire. Prima di partire è andato da un guaritore e gli ha detto: «Sei un guaritore quindi una persona che ha dei doni e dei poteri. Io devo partire per fare piacere a mio zio, ma fai in modo che io non parta, che venga rifiutato alla visita medica per ottenere il permesso di visto per la Francia. Fai in modo che succeda qualcosa e che io non parta». Si è recato da questo guaritore e poi è andato alla visita medica, dove invece è stato considerato idoneo.

Lo stratagemma non aveva funzionato e si era ritrovato a lavorare in Francia per una decina di anni, non si era arricchito, non era per nulla contento, ma non poteva neanche ritornare perché sarebbe ritornato senza niente, aveva a mala pena quello che gli serviva per vivere e mantenere sua moglie. Era partito per diventare un vero uomo proprio come si aspettava suo zio e si ritrovava in una situazione di grande infelicità. A un certo punto gli è capitato un incidente sul lavoro a cui ha reagito con uno scompenso fortissimo; ha cominciato a perdere la memoria, aveva
male ovunque anche se i medici dicevano che avrebbe dovuto riprendersi, aveva la sensazione che qualcosa non funzionasse, che fosse accaduto qualcosa ed era affetto da una profonda depressione. In occasione di questa depressione l'ho incontrato.

Quello che voglio sottolineare in questa storia è che quest'uomo raccontava molto chiaramente che per lui l'esilio era stato una sorta di dolore infinito e non era riuscito a superare il trauma del cambiamento di paese.

Non sempre la migrazione è dolorosa, ma è valido questo concetto di trauma nel senso psicanalitico del termine: la migrazione è un cambiamento di universo così profondo che produce degli effetti sulla persona, sull’interiorità della persona, sul suo funzionamento. Nella maggioranza dei casi si cerca di fare qualcosa che aiuti il paziente a vivere meglio quindi si cerca di trasformare l’effetto traumatico in qualcosa che lo aiuti ad adattarsi al nuovo universo. Ma in moltissime situazioni questo non è facile, c’è molta sofferenza di fondo, tanto più se la migrazione è stata molto ambivalente, come nel caso del mio paziente. Non sempre la migrazione è vissuta in modo così ambivalente, ogni migrazione è qualcosa a sé stante; ma il trauma esiste sempre.

Ci sono individui che riescono a ricostruirsi facilmente e ci sono altri per cui non è così facile, in quanto il trauma dell’esilio richiama altri traumi anteriori che tendono, per così dire, a riaffiorare. Questo è un concetto molto noto: la ricomparsa di un trauma anteriore che si riallaccia agli altri e rende dolorosa la vita dei pazienti. Anche trasmettere, quando si è soli, può diventare doloroso, e questo è molto importante per le donne e per i neonati; si trasmettono dei saperi ai propri bambini, ma questa trasmissione è resa possibile anche dal fatto che l’ambiente esterno è coerente con i saperi trasmessi. Se l’ambiente esterno non trasmette le stesse cose, se non c’è coerenza, evidentemente la trasmissione sarà difficoltosa e si perderà la sicurezza del valore di quello che si sa. A un certo punto la donna tenderà a dirsi: «Ecco, i miei bambini cresceranno in Francia; è davvero il caso che io trasmetta i miei valori e la mia lingua?» Io stessa comincio ad avere dei dubbi in proposito e le donne mi capiranno molto bene perché sanno che la trasmissione è qualcosa di complesso. Quindi, il trauma si situa a tutti questi livelli: l’esilio, la migrazione e le sue conseguenze.

Io utilizzo spesso la parola esilio, non so se esiste in italiano, perché a essa è legata l' idea di nostalgia. L’esilio non è traumatico di per sé, è più una sorta di nostalgia, l’esilio può anche essere creativo, ma quando si è in una situazione senza uscita, quando gli effetti sono troppo pesanti anche sulla propria famiglia, a questo punto si può parlare di vero trauma.

Vorrei insistere su questa doppia modalità della migrazione, tutte le migrazioni hanno un effetto sulle persone, ma questi effetti possono essere più o meno rielaborati. In generale quando tutto va bene e non ci sono problemi, è possibile per la persona, più o meno, negoziare la situazione in cui si trova con la sua condizione di esilio. Il problema si pone quando esistono degli eventi dolorosi nella nuova vita che riportano la persona al senso della sua precarietà: può essere una gravidanza o il fatto, per un bambino, di andare a scuola, può essere qualcosa che non funziona, qualcosa di difficile, una difficoltà sociale che impedisce di risolvere dei problemi, la sofferenza prodotta a una donna dalla difficoltà ad avere bambini, ad avere successo nel lavoro, un incidente o il fatto che i bambini vanno male a scuola o se ne vanno.

Mi capita di vedere famiglie che hanno lottato molto per crescere i loro figli e che hanno problemi quando i figli se ne vanno. Penso, per esempio, a una madre algerina che ho conosciuto; era da trent’anni in Francia e non parlava una parola di francese, perché per lei migrare aveva significato seguire il marito e fare crescere i suoi figli e basta. Dopo trent’anni, i figli avevano studiato e tutto procedeva bene, ma l’esilio di questa donna a questo punto non aveva più senso. Questa donna continuava a piangere e insisteva per rivedere sua madre l’ultima volta. Andava regolarmente in Algeria, ma a un certo punto si è lasciata prendere dall’angoscia di morire e non rivedere più sua madre, il suo desiderio di tornare era fortissimo. La sua situazione era complicata dal fatto che aveva un problema cardiaco che le impediva di viaggiare. Il fatto di ritrovarsi da sola senza figli era un piccolo trauma supplementare che richiamava tutti i traumi interni che lei aveva vissuto.

Ci sono dei momenti nella vita che tenderanno a ricordarci, in particolar modo i momenti di separazione e i momenti di lutto, che siamo soli e che non possiamo quasi contare sulla struttura del gruppo per aiutarci a elaborare dei lutti o delle separazioni. L’evento migratorio può avere, dunque, conseguenze che si rivelano molto lontano nel tempo.

Voi sapete anche meglio di me che la migrazione, una volta che io sia riuscita a organizzare questi effetti e a tenerli sotto controllo, può diventare molto creativa per la prima generazione e anche per la seconda, perché questa ricchezza, questa alterità che io porto con me, queste differenze di cui sono portatore e che riesco a far convivere a volte con un po’ di sofferenza con l’esterno, fanno in modo che io abbia qualcosa all’interno di me di cui sono fiera e che mi permette
di capire meglio la differenza tra le culture, di avere una certa agilità nelle relazioni con gli altri, di essere creativa, magari anche a livello artistico.

Io ho delle pazienti che sono delle vere poetesse, che in generale non mostrano questa tendenza all’esterno, ma quando cominciano a parlare dei loro bambini, dell’esilio, mi scrivono o si fanno scrivere da qualcuno per me delle specie di poesie che rappresentano il loro modo di trasformare la sofferenza vissuta e il dolore dell’esilio in qualcosa che consente loro di capire meglio il mondo e gli altri. Questo è vero per la prima generazione e ancor più vero per la seconda, i bambini dovranno negoziare con la loro alterità.



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