La gabbia del contratto
Giuseppe Aragno - 12-09-2006
Il congresso fu breve e senza lampi. Gli ideali sono fiori di serra. Fuori dal paradiso dei sogni, stentano a fare i conti con la realtà che li genera. Tra genitori e figli è da sempre così: fatica infinita. Padri di sogni divini, ci portiamo dentro, sepolti sulla soglia invisibile della coscienza, sotto millenari sedimenti, il nostro misterioso codice genetico e l'origine della specie; è vero, sappiamo sognare e volare, ma siamo l'acqua del mare che portiamo nel sangue, siamo il pesce, l'anfibio, la scimmia, l'impasto d'acqua e terreno raccattato a caso, una creta dozzinale e misteriosa che inspiegabilmente rinnova se stessa e contiene la coscienza del male e del bene. Siamo una creta bruta che sa gelidamente ammazzare a tradimento, ma può scegliere di morire per amore.

Il congresso fu breve e senza lampi: se così mi torna in mente sarà vero. Oggi, tuttavia, raccontando, mi pare che una luce dolce e ferma ci accompagnò per tutto il tempo, come accade ogni volta che ci troviamo assieme, uomini e donne, animali sin dalla notte dei tempi, eppure compagni nel far guerra agli istinti. Come accade per un miracolo d'umanità ogni volta che ragioniamo assieme. Secolo dopo secolo, generazione dopo generazione, questa guerra disarmata che conduciamo per piegare l'interesse personale ai bisogni collettivi, questa guerra che ci scava nel petto, che vinciamo e ad un tempo perdiamo - siamo noi che lottiamo contro noi stessi - questa guerra è la luce che attraversa uomini e cose. Questa guerra è la storia.

Il congresso fu breve e senza lampi, ma mise insieme, per chi volle vederlo, il passato e il presente in nome del futuro; mise contro per unirli uomini e storie diverse tra loro; mise l'uno di fronte all'altro uomini che gli anni avevano fatalmente cambiato e i compagni che li ricordavano così come erano stati. Insieme, passato e presente, com'eravamo stati e come la vita ci aveva ridotti.
- Irriconoscibili - pensai con amarezza.

Per la maggioranza c'era Fulvio Bartè, scienziato della borghesia che, dopo il Sessantotto, si era sistemato stabilmente nei ruoli dirigenti di partiti e sindacati. Da giovani, quando non sapevamo ciò che ci riservava il futuro, un sogno ci aveva uniti e ci pareva che fossimo disposti a vivere ore difficili e tristi in cambio di un epilogo capace di fermare il tempo e far dire alla storia: il mondo però l'hanno cambiato. Ma il tempo è così, non c'è rimedio: un istante è qui ma s'è già mosso e si è fatto passato; di momento in momento il tempo insegue il tempo e il futuro che ti aspetta non si ferma.
- Non si ferma - pensai, quando Bartè mi salutò. Alto, dinoccolato, parola facile e coinvolgente, l'avevo conosciuto bene. Pina mi raccontava spesso del suo impegno per fare spazio alle donne alla testa dell'organizzazione:
- Un sostenitore convinto delle "quote rosa", diceva compiaciuta.
A Pina non lo avevo mai detto, ma la faccenda delle "quote rosa" a me sembrava un penoso compromesso, un'oltraggiosa speculazione. In quanto al "sostenitore convinto" dei diritti delle donne, da giovane aveva disturbato le manifestazioni femministe con uno slogan di cui per anni era s'era andato vantando: "E ora, e ora, la fica a chi lavora". Se glielo avessi detto, Pina mi avrebbe rimproverato sorridendo:
- Ma tu sei maschilista, lo so, e ammettilo: a Bartè non perdoni mai nulla!
Non avrei potuto negarlo. Con Bartè ce l'avevo. Una volta che Pina mi parlava di certe due idee sul sindacato ero stato insolitamente feroce:
- Senti, io Bartè lo conosco. E' uno di quelli che in piazza si guardano bene dall'assumere pose da leader. Sai che fanno però? Tengono caldi i posti coperti delle seconde file. E in questo onestamente sono davvero bravi.
E lei, che mi voleva veramente bene, non aveva esitato:
- Guarda che se la metti così, io, da buona cristiana, poi ti cito il Vangelo: chi non ha peccato, scagli la prima pietra! E te la sei voluta.
Tutti e due, Bartè ed io, eravamo stati nemici giurati dei partiti e del gradualismo del sindacato. Tutti e due avevamo tuonato per anni: "è la lotta, non il voto, la lotta che decide!" ed avevamo sostenuto con la medesima convinzione la necessità di "portare nelle piazze la violenza operaia" per rompere la "gabbia del contratto". Ora eccoci insieme, passato e presente, noi com'eravamo stati e noi come la vita aveva fatto sì che diventassimo.
- A rigore di logica - avrebbe sottolineato Pina col suo tratto ironico e garbato - né tu né lui siete perfettamente in linea col vostro passato. E sarebbe strano se fosse il contrario.
Qui, lo so, mi sarei ribellato:
- Senti, mia buona cristiana, e fanne tesoro. E' vero, si cambia. Tra i mille torti che ci fanno gli anni anche questo subiamo: diventiamo "adulti". Il tuo caro Bartè però non solo ha buttato alle ortiche l'eskimo, il "movimentismo" e la fantasia al potere, ma sono anni che passa da un'autocritica all'altra. Ora è un "riformista convinto", ha scoperto la logica di partito e si è sistemato tra nipotini del suo Togliatti. E il matrimonio è riuscito così bene che, navigando abilmente tra le correnti e gli equilibri interni, Bartè si è procurato le sue brave opportunità di carriera ed ora eccolo al "Vinci", relatore, guarda caso, del documento della maggioranza!
A questo punto Pina avrebbe certamente sorriso e mi avrebbe preso affettuosamente sottobraccio:
- Lascia stare, dai. Ognuno fa le sue scelte.
- E' vero, ognuno le sue - le avrei risposto. Non avrei potuto fare a meno però di ricordare a me stesso che a Cava dei Tirreni lui non c'era mai arrivato.
Un po' annoiato per la routine del congresso di base, Bartè aveva preso a parlare e, da buon moderato, precisava:
- Il documento contiene un insieme di proposte che non rincorrono a sogni e non alimentano illusorie speranze, ma ha un programma concreto.
Qui s'era concessa un'enfasi moderata:
- Compagni l'epoca del padrone è tramontata e i nostri valori sono ormai in buona parte condivisi dalla controparte: siamo in un paese sviluppato e civile, è l'ora della strategia dei diritti e dell'etica della solidarietà. Il quadro è quello della concertazione, del reciproco riconoscimento, del mercato che accetta regole condivise.
Uno dietro l'altro, Bartè riassumeva i punti del documento e aggiungeva le sue considerazioni. Inutile correre appresso alle utopie. La flessibilità era un dato di fatto. Al sindacato toccava soprattutto sostenere, promuovere e controllare la redistribuzione del lavoro, impegnarsi per ottenere eguaglianza nelle opportunità di accesso.
Un tempo, pensai, l'obiettivo era quello di avere tanto lavoro quanto potesse servirne. Ora c'interessava solo assegnare con la dovuta regolarità quello esistente. E, per chi non ne trovava, era pronto un diritto sostitutivo: la tutela sindacale nella ricerca di una occupazione. Cento anni indietro, pensai. Una piramide rovesciata: non la lotta per la piena occupazione e la rivendicazione del lavoro come diritto garantito dalla Costituzione, ma lavoro come ricerca sul mercato: tanto ne abbiamo, e pazienza, distribuiamolo almeno onestamente. Una grande conquista per chi aveva sognato ed urlato nelle piazze: "Lavorare poco, lavorare tutti"! Una grande conquista davvero.
In quanto a noi insegnanti, il sindacalista mise in campo idee decisamente chiare. "Mi paghi poco, ma mi chiedi poco": questo, sostenne, era sempre stato il patto scellerato della categoria con i vecchi governi. Ora, però, ci avvertì seccamente, la seconda repubblica imponeva riflessioni nuove e scelte coraggiose. La Confindustria premeva e non aveva torto: bisognava razionalizzare, dimensionare, risparmiare, dar conto dei risultati; c'erano troppe classi di pochi alunni e altre agenzie di formazione; occorreva guardare al privato di qualità, pensare a forme di finanziamento che consentissero alle famiglie di potere scegliere. Tra mormorii stupiti e un evidente disappunto, Bertè lasciò trapelare un malcelato intento punitivo nei confronti degli insegnanti, una vera e propria lobby che, a sentir lui, godeva di intollerabili privilegi: orari brevissimi, mesi e mesi di ferie e nessuna verifica su una "qualità del prodotto" che, nel linguaggio della seconda repubblica, stava per capacità di insegnare. Sugli stipendi da fame il sindacalista non sprecò parole, ma non mancò di avvertire minaccioso e burocratico "il personale docente e non docente":
- Compagni, così non si può andare avanti: è finita l'epoca delle vacche grasse!
Oltre non si spinse, forse perché qualcuno dal fondo dell'aula lo scoraggiò:
- "Ma tu di quale scuola parli?".
- Per quello che facciamo, ci pagano anche troppo - sbottò, replicando con stizza, ma finse di non sentire un altro dissidente che, mimetizzato come l'altro in fondo all'aula, gli domandava:
- A chi ti riferisci, compagno, a noi che stiamo a scuola, o a voi che vi siete imboscati al sindacato?
Ci fu una scaramuccia tra consenso e dissenso, volarono parole grosse, ma prevalse l'antica disciplina. A tener conto degli applausi riscossi dall'anonimo contestatore, la minoranza si avviava ad un successo pieno. Bartè l'aveva tenuta abilmente sullo sfondo, ma la faccenda della Confindustria e del "privato" il suo effetto sembrava averlo avuto: per la prima volta "statale" e "privato" si erano associati nella vaghezza d'una formula - "servizio pubblico" - che apriva la via ad una definizione che inquietava, ma era destinata a lunga vita: la "scuola paritaria".
Dopo Fulvio Bartè, parlò un tipo piccolo, smilzo e allampanato, che si passava di continuo la mano nei capelli neri, lunghi e lisci e ricorreva ai toni di una passione troppo cauta e contenuta per giungere al cuore di quelli che ascoltavano. Coordinatore regionale della sinistra alternativa, incaricato di illustrare il documento della minoranza, il compagno Filippo Argento - era questo il suo nome - partì da un'amara considerazione: mentre l'aumento innegabile della ricchezza produceva nuove disuguaglianze, il sindacato guardava soprattutto al governo, ai partiti, ai padroni e non ascoltava i lavoratori.
Inspiegabilmente, il mormorio di approvazione non inquietò l'imperturbabile Bartè e non convinse Filippo a dar fuoco alle polveri. Da quel momento, anzi, più consensi riscosse, più il segaligno sindacalista divenne compassato, quasi che, d'un tratto, si fosse reso conto di un rischio: più che invitare a dar battaglia dentro il sindacato, il quadro che andava delineando poteva consigliare l'uscita dall'organizzazione. Nonostante i suoi sforzi, tuttavia, Filippo non poté evitare l'applauso quando chiamò alla lotta per la difesa del servizio sanitario e del sistema previdenziale, sempre più minacciati dai tagli alla spesa sociale e dalla privatizzazione strisciante, e quando accusò il sindacato di impedire che gli iscritti avessero un peso reale sulle sue scelte. Giacché c'era, Filippo si fermò poi su un punto che fece spuntare un sorriso sornione sulle labbra di Barté: "I ruoli di direzione sindacale significano l'automatico abbandono del posto di lavoro. Così perdiamo il contatto con la gente".
Se non si trattò di un errore premeditato con cinica abilità, la scelta di aprire una polemica così scottante, si rivelò un'imperdonabile ingenuità. Per uno dei contestatori, abilmente ed inspiegabilmente trincerati in fondo all'aula, fu infatti fin troppo facile impallinare l'improvvido - o diabolico - oratore:
-< i>Questo, Filippo, vale anche per te?
Mentre i segnali di un evidente fastidio si aggiungevano agli applausi e si accendeva il fuoco della polemica, la maggioranza recuperava parte del terreno perduto.
Giovanni Malanima, che presiedeva il congresso, fu però tempestivo:
- Compagni, dopo ci sarà il dibattito. Ora ascoltate e lasciate parlare.
Per un istante Bertè e Filippo Argento, sempre più annoiati, si parlarono con gli occhi. Poche parole condivise che fu facile capire:
- Ma perché si fanno i congressi?
Subito dopo Filippo tornò a recitare la sua parte: fu preciso, puntuale, ma incendi non ne accese. Svicolò sul tema scottante della pace e della guerra e scivolò su una buccia di banana quando, parlando della scuola, cancellò come il suo avversario la parola "statale" e si dilungò sulla formuletta del "servizio pubblico", che, potrò sbagliarmi, fece spuntare un nuovo, mefistofelico sorriso sulle labbra di Bartè.
Quando Malanima si slacciò lentamente dal polso l'elegante orologio, lo poggiò solennemente sulla cattedra che aveva davanti e aprì il dibattito, invocando il rispetto dei tempi fissati e promettendo il massimo rigore, nessuno dei contestatori si iscrisse a parlare. Gli interventi furono frettolosi e schematici: poco più che dichiarazioni di voto. Tutti rifiutarono l'etichetta di privilegiati che ci aveva appioppato Bartè, molti presero le distanze dalla scuola-azienda, altri dai rischi della privatizzazione ma, nonostante gli iniziali applausi dedicati a Filippo, finì che buona parte dei presenti si dichiarò sorprendentemente favorevole al documento della maggioranza.
Prima di me, ultimo a parlare, avviandosi al microfono col passo pesante e la pancia che gli ballonzolava sulla cintura dei pantaloni spiegazzati, intervenne il bidello che mi aveva indicato l'aula. Esordì facendo subito la voce grossa e rivendicando i suoi crediti di militante:
- Conoscete tutti la mia storia e mi potete credere, compagni: se non fossi sempre stato un combattente di sinistra, io vi direi che sono stanco di questo sindacato e me ne andrei!
Aveva cercato di attirare l'attenzione dei presenti e c'era riuscito. Si fece silenzio.
- I relatori lo sanno che la scuola non è fatta solo dagli insegnanti e che ci siamo anche noi? E noi, compagno Bartè, privilegi non ne abbiamo. Noi prendiamo la metà degli insegnanti, lavoriamo otto ore e facciamo straordinario tutto l'anno. Per chi lo fate il congresso? Per il personale della scuola o per gli insegnanti?
Uno dei contestatori degli ultimi banchi ritrovò la voce e ironizzò:
- Se lo facciamo per te, che diciamo? Che un'ora lavori e sette leggi il giornale?
Malanima si preparò al peggio, ma il bidello non accettò la provocazione. Si tirò su i pantaloni, strinse malignamente gli occhi, poi si fece tagliente:
- Compagni, io credo che oggi abbiamo avuto la prova che questo sindacato sta attraversando veramente una crisi gravissima. Io resto molto sconcertato quando un compagno esperto come Filippo, che riveste da anni incarichi di dirigente, qui, in un congresso, si mette ad accusare di scarsa democrazia l'organizzazione di cui fa parte. Quando si fanno queste affermazioni, occorrerebbe precisare le accuse, altrimenti io non capisco e mi sento offeso. Queste cose sono scorrette e un dirigente non le fa. E poi è ora di finirla con la polemica sui dirigenti esonerati. Chi è capace è una risorsa: se non è d'accordo, perché Filippo che è esonerato non si dimette? Un'altra cosa. La dobbiamo smettere di fare i rivoluzionari per prendere voti. Qui nessuno vuole colpire la sanità e la previdenza. Si tratta solo di far pagare chi tiene soldi e può farlo. Io, compagni, approvo pienamente il documento della maggioranza.
Ci furono applausi convinti. Consentirono anche quelli che fino a poco prima avevano contestato Bartè.
Quando toccò a me, c'era aria di smobilitazione e Malanima fu categorico:
- I cinque minuti fissati, poi si vota.
Feci cenno di sì, rimasi dov'ero senza andare al microfono, pensai per un attimo a Pina -- non avrei mai dovuto ascoltarti, le mormorai come fosse con me - e presi a parlare quasi senza riflettere:
- Sono anche troppi. Io non ho questioni di corporazione da fare e non m'interessa che cosa fa Filippo. Ci sono due documenti da votare e questo è quello che qui conta. Vi ho cercato molte cose che avrei voluto trovarci: ci sono vaghi accenni alla pace, ma nessuno mi spiega perché non abbiamo fatto sciopero quando è scoppiata la crisi del Golfo Persico e il nostro paese ci è entrato con uomini e armi. So che la guerra è estranea alla nostra storia del movimento dei lavoratori e so anche che qui, coi figli dei camorristi ho perso la mia battaglia. Mi hanno preso in giro, perché hanno capito che stavamo violando la Costituzione. "Lo vedete che nemmeno voi rispettate la legge?" Questo mi hanno detto, e io mi sono pentito di avere insistito per un anno sui principi della Costituzione. Non mi interessa di Filippo e di Fulvio: vorrei sapere perché non abbiamo fatto l'ira di dio per impedire che accadesse. Vorrei sapere da Bartè quando è morta la prima Repubblica, perché non me ne sono accorto e mi dispiace. Lui dice sempre "seconda Repubblica". Forse è nata quando ci siamo messi la Costituzione sotto i piedi e siamo andati a fare la guerra del capitalismo? Vorrei sapere perché quelli che contestano le scelte della maggioranza poi non si schierano apertamente per le tesi alternative, capire perché Filippo ha avuto paura di ottenere troppi consensi. Capire quali sono i meccanismi. Non sono così ingenuo però da domandarvi se sto assistendo a uno scambio. Su questo, perciò, basta. Non conosco la storia di combattente della sinistra di chi mi ha preceduto, ma non mi piace chi la propria storia la usa come carta di credito. Sono venuto qua ponendomi una domanda: che significa essere sindacato? Non ho trovato risposte convincenti in nessuno dei due documenti. Le tesi dell'opposizione però sono più vicine alla mia idea di sinistra e le voterò. Se poi Filippo si è accordato con Bartè, allora il sindacato ha una grave questione morale da risolvere.
Prima del voto, che era evidentemente già scritto, stavo per andar via. Malanima mi fermò:
- Filippo vorrebbe parlarti.
- E c'è bisogno di un ambasciatore?
- No - m'interruppe Filippo che lo aveva raggiunto - nessun ambasciatore. Hai indovinato. C'era un accordo, non lo nego. Siamo troppo deboli e disorganizzati per non doverne fare. Ci garantiscono una presenza negli organismi di direzione. Poi se saremo capaci, si vedrà.
Lo guardai pensieroso. E' della gente, pensai, della gente che avete bisogno, non della presenza negli organismi di direzione. Ma la gente ormai s'è allontanata. A osservarlo da vicino, Filippo sembrava ancora più magro e affaticato. Non c'è nulla che esalti e consumi più di una battaglia ideale.
- Non sono in grado di valutare - gli dissi - e poi mi sono chiamato fuori da tanto tempo.
- E perché sei qui allora?
-Se te lo dico, ti metti a ridere. Perché un'amica ha insistito molto.
- Solo per questo?
- No. Non credo. Non so che mi accade. Forse invecchiando ho scoperto che mi manca la militanza. Mi credi? Non ce la faccio a vedere che sbaracchiamo. E poi qui, in questa zona, avremmo davvero bisogno del sindacato. Io ho un chiodo fisso: trovare una maniera per non disperdere il patrimonio di esperienze che facciamo lavorando nelle zone di camorra.
Malanima si intromise:
- Filippo coordina l'opposizione nel sindacato. Pensiamo che potresti dare una mano.
- E tu chi sei, risposi indisponente, il suo portavoce?
- Smettila, dai, ci interruppe Filippo, siamo tra compagni. Vuoi partecipare al congresso provinciale?
- E chi mi nomina delegato, voi, d'accordo con Bartè? Non ci siamo spiegati.
- Aspetta e non dire di no: tu sei per le tesi alternative.
- Sì, non c'è di meglio, Filippo. Però si potrebbe...
- Certo. Ma occorre gente che dia una mano. Noi qui, secondo i patti, abbiamo la possibilità di avere fino a due delegati. Uno è Malanima. Un altro non c'è, non si candida nessuno. A me farebbe piacere se fossi tu. Se accetti, secondo me, ti vota anche qualcuno della maggioranza. E non sarà perché ci siamo accordati.
Ancora una volta pensai che non avrei mai dovuto dar retta a Pina e mormorai, come lei fosse con me: "Vuoi vedere che stavolta mi hai veramente fregato?". Sorrisi però e sorpresi me stesso accettando:
- Va bene.
Uscii dal "Vinci". In mano avevo foglietto: i numeri di telefono di Filippo Argento e Giovanni Malanima.
Benché l'avessero eletto delegato, all'uscita il bidello mi guardò con evidente ostilità e non rispose al mio saluto. Non me ne ricordavo più, ma è così: ci sono "compagni" di ogni estrazione sociale, scienziati della borghesia o proletari, che non distinguono tra scontro politico e fatto personale. Sono i rapporti umani a pagare il prezzo più caro del dissenso politico.

continua

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