Il pianto, il riso, il tornio
Vittorio Delmoro - 13-06-2003
IL PIANTO

Io ho pianto quando la mia mamma tentò di farmi andare all'asilo (dalle suore, non v'era altro, allora); così tanto che il tentativo rientrò in fretta e così passai ancora tre anni con lei, come avevo desiderato. Credo piansi (ero proprio un fregnone!) anche il primo giorno di scuola; ma lì non ci fu verso : toccò continuare. Poi non piansi più, mai più per la scuola; a volte tramutai il pianto in odio verso qualche professore, un odio così evidente che uno di loro chiamò mia madre per chiederle cosa avessi per fissarlo sempre così malevolmente.
Da insegnante ho vissuto altri pianti, quelli degli alunni, i primi giorni di scuola, e l'Antonio che pianse addirittura un anno intero; al mattino inchiodava la madre sulle scale e non c'era verso di trascinarlo in classe : vinceva quasi sempre lui e se ne tornava beatamente a casa. L'anno scorso, già in quarta, l'ho voluto vicino a me mentre leggevo davanti a qualche centinaio di genitori uno sproloquio simile a questo : Antonio era stato pochi minuti prima uno degli interpreti più eccezionali dello spettacolo che avevamo inscenato.
Sono fiero, devo confessarlo, della mia scuola dove in cinque anni si passa dal pianto al riso, per ritornare al pianto. Sì, perché questa è la conclusione che da qualche tempo ha preso piede. Si cominciò una decina d'anni fa con una quinta che volle lasciare un ricordo a noi insegnanti : un oleandro piantato nel giardino della scuola l'ultimo giorno, in mezzo a un lacrimatoio generale; e si proseguì con una lettera-testamento letta sempre in occasione di spettacoli e feste finali, sempre alla fine, sempre quando si era al culmine dell'allegria : e giù tutti a piangere, alunni, genitori e insegnanti.
La scena si è puntualmente ripetuta qualche sera fa, tanto da ispirarmi questa considerazione : perché piangono, questi alunni, quando ci lasciano? Perché non se ne vorrebbero andare? E perché l'anno successivo, gli anni successivi, tornano a trovarci e gironzolano per le aule, inseguiti dagli occhi curiosi dei piccoli che non capiscono cosa vogliano mai questi giuggioloni?
Alla scuola media non piange nessuno; no, meglio, qualcuno sì, per aver letto la sua bocciatura sui tabelloni. Ma pochi; altri se ne vanno magari disgustati e imprecando sfracelli, oppure strafelici che per tre mesi non si parla più di scuola.
Non so alle superiori, non so più, ma non credo si pianga.
C'è chi dice che anche l'esame di stato è fonte di apprensioni, disperazioni, momentanee pazzie e aggiunge che la cosa si verifica anche in altre occasioni, compiti, interrogazioni, ...
C'è dunque una scuola del dolore, della sofferenza, che a volte conduce anche a gesti disperati. E' inevitabile? Fa parte delle sfide della vita? C'è un'alternativa?

IL RISO

E' quello del puro divertimento di cui sono pervase le aule delle scuole dell'infanzia in cui a volte mi è capitato di entrare; oppure quello degli occhi dell'alunno che in questo modo ti fa capire come la sua partecipazione e la sua autoaffermazione siano effettive : il riso della conoscenza.
Ne ho osservati innumerevoli, di risate, a volte sguaiate, anche nei ragazzi di scuola media, ma si era in momenti parascolastici (feste, spettacoli) e quasi sempre all'interno del gruppo di amici; dentro le aule quasi mai, se non in risposta alle battute dei soliti "ultimi".
Un collega-on-line raccontava di aver avuto la piacevole sorpresa di essere invitato ad un paio di cene dai suoi alunni di prima e seconda superiore, cene allegre, par di capire.
Io e una mia collega-at-school invece quest'anno inviteremo noi i nostri ex alunni (ora in terza media) ad una cena : vogliamo sapere da loro com'è andata in questi tre anni, cos'è la scuola media. Sono convinto che rideremo molto, noi almeno, noi insegnanti, ne abbiamo di cose da rinverdire; chissà se anche loro ne avranno...

IL TORNIO

Tutto questo per giungere al nodo che da qualche giorno mi inquieta : se il sistema dei licei non è adatto al solito "disadattato" (e a tutti i suoi simili, che pare siano numerosi, forse la maggioranza), perché farli soffrire sopra Dante e il greco? Non è più logico, naturale e proficuo (per loro) metterli su un'altra strada, che approdi al lavoro e alla manualità?
Qualcuni se lo domanda, tra i docenti.
Sofferenze evitate, insuccessi eliminati, molto risparmio di energie personali (di Indelicato e soci) e statali (soldi, soldi). Non era questa in fondo la scuola prima della Lettera a una professoressa? Non sono questi i costi e le defaillance della scuola di massa? Brian al tornio, dunque, e vedremo se la scuola migliora!
A parte le condivisibili distinzioni sull'alta professionalità del tornitore, a me pare che un discorso simile sia di una banalità disarmante (Catalano dixit) : insegnare Dante (il greco, ...) a chi non frega nulla né di Dante né della scuola è certamente impresa titanica; molto più semplice insegnare a chi ha già una predisposizione, un interesse, un desiderio di impararlo. Se lo stato (la società) ci consegna ai licei classette proprio ben messe, con adolescenti ben disposti verso la cultura libresca, la nostra professionalità ne risulterebbe agevolata, i risultati sarebbero soddisfacenti e meno professori si ammalerebbero di cancro. Quegli altri invece, quelli dell'effe pi (formazione professionale) si troverebbero con tanti aspiranti operai, desiderosi solo di apprendere un mestiere da mettere a frutto prima possibile e via coi torni, i circuiti, i menù, i motori. Contenti tutti : la riforma Moratti ha reso la scuola felice!
Il problema è che quegli adolescenti sono un po' strani : c'è quello che non vuole né Dante né un lavoro; c'è quell'altro che ama sia Dante che il tornio; e quell'altro ancora che un giorno sprofonda in Dante e il giorno dopo dentro gli ingranaggi del motore.
Come dividerli? Che intrecci instaurare? Quale ingegneria scolastica inventare?
Il fatto è che ogni giorno è per noi una sfida : come riuscire a far brillare quegli occhi...

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