La visita ai campi profughi di Gerusalemme durante il viaggio in Israele e l'impegno di Wojtyla e del patriarcato cattolico per sanare le ferite tra ebrei, cattolici e musulmani I palestinesi ricordano quel lontano amico polacco Società civile e governo palestinese ricordano le prese di posizione per una «soluzione giusta» del conflitto con Israele
MICHELE GIORGIO GERUSALEMME
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«Questo Papa è stato un amico dei palestinesi». Con queste parole Hana Amir di Gerusalemme est, ha dato ieri il suo saluto a Giovanni Paolo II giunto alle ultime ore della sua vita. Amir, più di ogni altra cosa, ha voluto rappresentare il pensiero di tutto il suo popolo, di cristiani e musulmani. «Cinque anni fa, proprio in questi giorni, il Papa entrò nel campo di Deheishe, alle porte di Betlemme, per dire ai nostri profughi parole di conforto e di sostegno. Non lo dimenticheremo mai», ha aggiunto Amir che in passato ha svolto incarichi per il Comitato esecutivo dell'Olp.
Profondo rispetto ha espresso anche il premier Abu Ala che ha sottolineato l'equilibrio mantenuto dal pontefice nel conflitto israelo-palestinese che, tuttavia, ha sempre ribadito il diritto della popolazione nei Territori occupati di vivere libera. «Ciò che ho apprezzato di Giovanni Paolo II in questi ultimi anni è stata la sua vicinanza al popolo palestinese nonostante il forte avvicinamento avuto dal Vaticano allo Stato di Israele», ha spiegato Anton Seniora, un insegnante. Una considerazione che ha trova conferma nella recente condanna del Papa verso la costruzione del muro israeliano in Cisgiordania. «Bisogna costruire ponti non muri» tra i popoli, disse suscitando l'approvazione di tutti i palestinesi ma non quella di Israele che in quelle parole vide invece una incomprensione della Santa Sede verso le sue «necessità di sicurezza».
Secondo l'analista palestinese Wadie Abu Nassar «l'allacciamento dei rapporti diplomatici tra Vaticano e Israele è stato seguito da una attenzione del Papa verso il problema palestinese che non hanno avuto le istituzioni che pure dovrebbero preoccuparsi di far rispettare le risoluzioni internazionali». Abu Nassar è convinto che questo atteggiamento è stato fondamentale per l'azione del Patriarca cattolico di Gerusalemme, Michel Sabbah, che nelle sue omelie non esita a ricordare che la pace in Medio Oriente potrà essere raggiunta non solo quando sarà garantita sicurezza a Israele ma anche (o soprattutto) se i palestinesi potranno vivere finalmente liberi e in uno stato indipendente. Non è certo un caso che Michel Sabbah sia il religioso cristiano più rispettato dalla popolazione palestinese, a differenza del Patriarca greco-ortodosso Ireneos, da molti giorni contestato duramente per non aver impedito la vendita di due edifici storici nella Città Vecchia di Gerusalemme a società immobiliari legate al movimento dei coloni israeliani.
La chiarezza mostrata dal Papa sul tema della guerra, unita all'importante ruolo del Patriarcato cattolico, sono stati peraltro un fattore importante nella salvaguardia dei rapporti tra cristiani e musulmani palestinesi nelle fasi più critiche dell'Intifada, quando i carri armati israeliani entravano e uscivano dalle città della Cisgiordania. «Il popolo palestinese è unito ma gli occupanti israeliani da un lato ed alcuni estremisti islamici dall'altro hanno inferto qualche colpo alla coesione tra le due comunità religiose che è stato ricucito anche per merito delle posizioni del Papa e della Chiesa cattolica locale» ha spiegato Mahdi Abdel Hadi, del Centro di analisi politica «Passia» di Gerusalemme est. I giorni, forse le ore, di Giovanni Paolo II sono contati e cristiani e musulmani palestinesi attendono di capire se dal conclave che sta per aprirsi a Roma uscirà il nome di un Papa che continuerà a sostenere una soluzione fondata sulla giustizia del conflitto in Medio Oriente.
Ieri l'agonia del Papa ha trovato ampio spazio sui media dei paesi arabi. La televisione satellitare Al Jazeera ha trasmesso in diretta la messa da San Giovanni in Laterano, fatto senza precedenti. L'Egitto, a stragrande maggioranza islamica, è uno dei paesi che hanno seguito con più attenzione l'evolversi della situazione nella Santa Sede.
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