Parvin Ardalan: la mia lotta per la democrazia
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Parvin Ardalan: la mia lotta per la democrazia


m.fo. inviata a Tehran


Parvin Ardalan ha accumulato una lunga esperienza di attivismo per i diritti civili, anche se ha un viso da ragazzina, e quando le chiedo come è arrivata a definirsi «femminista» mi parla della rivoluzione del 1979. Allora lei aveva appena dodici anni: «Prima della rivoluzione avevo una bicicletta, dopo mi hanno detto che non potevo usarla. Un giorno poi mi hanno fatto uscire da scuola perché non avevo il foulard, e da quel momento ho dovuto coprire la testa. Voglio dire: mi hanno fatto capire molto presto la differenza di essere donna».


Era l'epoca in cui le donne che avevano partecipato alla rivoluzione contro il regime dittatoriale dello Shah si sono sentire dire che il loro posto era separato: le magistrate dovevano lasciare i tribunali, le insegnanti dovevano passare al vaglio della «rivoluzione culturale islamica», tutte dovevano rispettare l'abbigliamento islamico, e nuove leggi ispirate alla shari'a ridefinivano il loro statuto personale: diritto di famiglia, eredità... La cosa non è andata liscia: l'8 marzo del 1980 migliaia di donne avevano traversato il centro di Tehran verso la piazza Azadi («Libertà», così ribattezzata dopo aver ospitato gli oceanici raduni della rivoluzione): gridavano «nella primavera della libertà manca il posto per le donne».


Parvin però era piccola, «una bambina può solo obbedire». Ecco dunque una rappresentante della folta generazione di donne iraniane cresciute «sotto l'hijjab», il copricapo islamico. «Quando sono arrivata all'università era impossibile perfino parlare con i compagni di corso, non come adesso». All'università si è messa a scrivere su questioni sociali, poi ha cominciato a lavorare per un magazine di sinistra, Odineh («vengo da una famiglia politicamente impegnata»).


Erano i primi anni '90, il periodo detto della «ricostruzione», quando finita la lunga guerra Iran-Iraq il presidente Hashemi Rafsanjani aveva avviato una parziale liberalizzazione economica e la relativa apertura sociale che ha preparato il terreno alla presidenza «riformista» di Mohammad Khatami («Ironico vero? Quando poi è arrivato Khatami i conservatori hanno chiuso il nostro giornale»). Odineh ha dovuto sospendere le pubblicazioni quando il suo direttore, un noto intellettuale critico del sistema, è stato arrestato in circostanze avventurose (in aeroporto, sotto gli occhi di Parvin che ha avvertito la famiglia nonostante l'ammonimento a tacere).


Nel suo percorso c'è anche Zanan («Donne»), la rivista che per prima ha dato conto della lenta ma inesorabile marcia delle donne per riconquistare lo spazio pubblico: è rimasta famosa l'intervista della direttrice Shahla Sherkat a Mohammad Khatami nel 1997, quando lui era appena stato eletto presidente e dichiarava di riconoscere alle iraniane un ruolo di protagoniste nella società (anche Zanan ha dovuto chiudere, il mese scorso).


Nel frattempo Parvin aveva cominciato a impegnarsi anche con il Centro culturale delle donne, fondato nel 2002 da un gruppo di attiviste sociali, giornaliste, editrici, giuriste. «In tutti questi anni sono sempre stata sotto la pressione della polizia», continua Parvin Ardalan. Fino a pochi giorni fa, quando è stata costretta a rinunciare ad andare a Stoccolma per ricevere il Premio Olof Palme per i diritti umani 2007. La Fondazione intitolata al premier svedese ucciso nel 1986 premia l'attivista iraniana per aver «reso la rivendicazione di eguali diritti tra donne e uomini un elemento centrale della lotta per la democrazia in Iran»: la consegna del riconoscimento (e di 75mila euro) è avvenuta giovedì, il 6 marzo. «Avevo tutto in regola, e nessuno mi ha fatto obiezioni al controllo passaporti. Hanno aspettato: solo quando ero ormai seduta nell'aereo, un volo Air France, è arrivata la polizia a dire che non potevo partire. Il personale del volo mi ha difeso, ero su un velivolo francese e potevo rifiutare di scendere. Ma alla fine sono scesa». Perché? «Beh, perché io volevo andare in Svezia ma anche tornare. Perché non mi hanno fermato al controllo passaporti? Sembra che volessero spingermi ad andarmene e non farmi più vedere. Ma la mia vita è in Iran, e voglio fare qui la mia battaglia».


Il premio a Stoccolma sarebbe stata un'occasione per parlare dei movimenti delle donne iraniane. E' proprio ciò che le autorità volevano evitare?
«So solo che pochi giorni dopo l'annuncio del premio ho ricevuto una convocazione a presentarmi in tribunale. Sono andata, ma il giudice che mi aveva fatto chiamare non c'era. Dicono che volevano farmi solo "qualche domanda", non so cosa volessero da me. L'avvocata Shirin Ebadi mi ha consigliato di aspettare una prossima convocazione, che non è mai arrivata». Il premio, e poi il divieto di partire, hanno fatto rimbalzare il nome di Parvin Ardalan sulle agenzie internazionali. Lei ripete che il loro è un movimento collettivo. «Io non sto facendo nulla contro la "sicurezza nazionale", sono secolare e indipendente, e nessuna autorità gradisce gruppi o persone indipendenti». Ride: «Noi cerchiamo di democratizzare il sistema, e il sistema spinge i movimenti a radicalizzarsi».


http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/09-Marzo-2008/art16.html



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