Un otto marzo in Iran - Dove sfilare non è cosa da donne
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Dove sfilare non è cosa da donne

Un otto marzo in Iran, nei luoghi in cui le donne si ritrovano e si mobilitano. Ma lontano dagli occhi del potere. Eppure le organizzazioni femministe resistono, sotto il nome «politically correct» di ong. La strada però è in salita

 

Marina Forti

inviata a Tehran


Un otto marzo a Tehran. Scena prima: il caffè della «Casa degli artisti», Khane Honarmandan, una palazzina anni '40 nel centro della capitale iraniana, trasformata negli '90 in uno dei primi spazi aperti della città: oggi è popolare tanto per le sue esposizioni e conferenze quanto per questi tavolini affacciati su un giardino pubblico. Qui incontro alcune promotrici di una campagna avviata nell'estate del 2007: vogliono raccogliere un milione di firme a sostegno della richiesta di modificare le leggi che discriminano le donne. Elencano: dal diritto di famiglia che le penalizza nel divorzio o nell'affidamento dei figli, alla norma per cui la testimonianza di una donna in tribunale conta metà di quella di un uomo, fino al «prezzo del sangue», il risarcimento che l'omicida deve alla famiglia dell'ucciso: se la vittima è una donna anche ucciderla costa la metà.
«Lascia perdere i numeri, non sappiamo di preciso quante firme abbiano già raccolto, sull'ordine delle centinaia di migliaia», spiega Parvin Ardalan, una delle attiviste più impegnate in questa campagna, spolverino nero sui jeans, sciarpa d'ordinanza sui capelli (è la «tenuta» più comune tra giovani e studentesse di città, anche se lei è sulla quarantina). «Ci sono molti gruppi che raccolgono le firme, in tutto il paese, non ce le hanno ancora mandate. A volte le attiviste vengono arrestate e i fogli con le firme scompaiono. Ma è il processo che conta. Molti diversi gruppi, associazioni e ong di donne si sono mobilitati».
Tutto è cominciato da un gruppo di attiviste raccolte attorno al «Centro culturale delle donne»: formato intorno al 2000 dall'incontro di generazioni diverse, intellettuali, giuriste, attiviste per i diritti umani, nomi noti e meno noti. Era un momento di scontro di potere durissimo in Iran tra il governo riformista dell'ex presidente Mohammad Khatami e un establishment conservatore arroccato. Qualche tempo dopo il gruppo si è registrato legalmente come «ong», organizzazione non governativa, per poter tenere attività pubbliche. Hanno fondato una biblioteca e un premio letterario. L'8 marzo è una data ignorata dalla Repubblica islamica, e loro hanno cominciato a segnarla con sit-in in una piazza centrale della città: regolarmente sono state disperse a manganellate, arrestate, picchiate. Quest'anno hanno rinunciato al sit-in in piazza (il calendario ha fatto coincidere l'8 marzo con un'importante festività religiosa sciita, la fine di un periodo di lutto): hanno festeggiato nella sede della biblioteca, dove hanno assegnato a tre giovani ricercatrici il premio letterario intitolato a una scrittrice di inizio secolo, Sedigheh Dulat-Abadi, una delle figure che ha ispirato generazioni di femministe iraniane.
Hana Maddah, da poco laureata, è tra le più giovani attiviste del centro culturale delle donne. «Ci chiedevamo come coinvolgere settori più ampi di donne in un grande movimento pacifico», spiega. Avevo letto che in Marocco le leggi sullo statuto delle donne sono state modificate dopo la raccolta di un milione di firme», spiega. «Là il re e molti ministri sostenevano la riforma, mentre noi non siamo certo appoggiate dal sistema. E poi noi abbiamo deciso di raccogliere le firme da persona a persona». Mostra un modulo: nome, età, sesso, professione, città di residenza. Per scrivere l'opuscolo che elenca leggi e norme hanno chiesto aiuto alla Nobel per la pace Shirin Ebadi e al suo gruppo di avvocati («Ho conservato la copia originale con tutte le sue correzioni», dice Hana).
Le «campaigner» sono spesso studentesse, oppure insegnanti, attiviste di ong femminili. Spesso organizzano seminari sulla situazione legale delle donne, di solito con giuriste ed esperte in diritti umani. A volte gli incontri si tengono in case private, a volte in occasioni pubbliche. Hanno messo sul loro sito web il testo dell'opuscolo e del modulo, mi mandano un piccolo «spot» pubblicitario sul telefonino. «Abbiamo preso contatto con gruppi e ong di donne in altre città. Poco a poco gruppi di donne che neppure conoscevamo si sono messe in contatto con noi: avevano scaricato dal sito il materiale e cominciato a raccogliere firme. «Chi sono? Spesso ong di welfare, per la difesa di donne e bambini, charities», spiega Ardalan. Un impressionante numero di organizzazioni indipendenti sono nate in Iran negli anni '90, chi assiste i bambini di strada e chi promuove corsi di pittura o attività culturali, e quasi sempre le attiviste sono donne. Certo, erano tempi di apertura: negli ultimi due anni, con un parlamento dominato dai conservatori e la presidenza di Mahmoud Ahmadi Nejad, gli spazi sociali si vanno chiudendo e anche la vita delle ong è più difficile. Eppure si sono fatte avanti in molte. «Abbiamo organizzato incontri con questi gruppi di altre città, anche se ciascuno lavora in modo autonomo. Negli ultimi tempi sono aumentati gli arresti e i contatti si sono un po' diradati», aggiunge Parvin Ardalan. Dall'inizio della campagna 43 attiviste sono state arrestate, di cui una decina mentre raccoglievano le firme in luoghi pubblici; due sono attualmente agli arresti, molte sono state condannate per attività illegali con sentenza sospesa.
«Poi è nato il gruppo delle madri», racconta Parvin. E' successo quando la prima studentessa che raccoglieva firme è stata arrestata, e poi altre, e anche studenti che avevano cominciato ad appoggiarle, e le rispettive madri si sono messe insieme per sostenerli. «Ora anche loro, le madri, vanno in giro a raccogliere firme, sono diventate attiviste della campagna. Tra loro ci sono molte mogli o parenti dei sindacalisti arrestati». Parlano del sindacato dei guidatori di autobus della Grande Tehran, unione indipendente nata fuori dall'organizzazione ufficiale dei lavoratori islamici (il sindacato governativo): i loro scioperi tra il 2005 e 2006 sono stati repressi con estrema durezza, i leader sono in galera da oltre un anno e restano al bando. Per il resto, i contatti con le lavoratrici restano pochi, ammettono, e non nelle aziende: «Le donne lavorano soprattutto in piccole aziende, e riunirsi sul luogo di lavoro significa rischiare il licenziamento», spiega Firouzeh Mohajer, professoressa all'Università di Tehran, che a questo tavolo rappresenta la generazione delle madri.
C'è un dialogo tra le attiviste femministe (così si definiscono) e l'establishment? In parte sì, anche perché il sistema non è certo un monolite. «Le nostre rivendicazioni sono diventate tema di dibattito pubblico», dice Hana. Parlano di lobby presso le deputate riformiste, l'ala sinistra della repubblica islamica. Alcune intellettuali riformiste sono andate perfino a cercare illustri esponenti del clero a Qom, la città delle più importanti scuole religiose: neanche il clero sciita è monolitico, e così il Grand ayatollah Sane'i si è pubblicamente dichiarato a favore di alcune precise riforme: lui ad esempio è favorevole a parificare il «prezzo del sangue». «Perfino la Guida suprema, l'ayatollah Khamenei, ha ammesso che bisogna discuterne», dice Hana. Loro sono convinte che sia merito della loro campagna. Ma il dialogo tra queste giovani donne con le spillette femministe sullo zainetto e le gravi signore della sinistra islamica non è ovvio.
Scena seconda: una sala di riunioni nel seminterrato di una casa privata, una modesta palazzina in una zona popolare nel centro di Tehran. Nel tardo pomeriggio dell'8 marzo una trentina di signore sono riunite per ascoltare alcune candidate riformiste, tutte si augurano l'un l'altra «buona festa delle donne». Una delle oratrici è Soheila Jelozarzadeh, deputata per tre volte consecutive, presidente di una «società politica delle donne», cioè esponente della «sinistra islamica». Si parla della battaglia per essere riconosciute a pieno titolo nella società, di discriminazioni inaccettabili, di resistere al potere del mercato e di giustizia sociale. Qui le tenute sono più severe, prevalgono gli hijjab neri, c'è anche qualche chador: e però sono attiviste come queste, con le loro deputate, che si sono battute per riforme di civiltà, eliminare il matrimonio delle bambine, riconoscere alle donne il diritto di chiedere il divorzio (le suffragette della repubblica islamica?). Chiedo alla signora Jalozarzadeh: cosa pensa della campagna per il milione di firme? «Le ho incontrate, ci battiamo per gli stessi obiettivi. Siamo pronte a portare in parlamento le loro rivendicazioni». Lei ha firmato? «No, ma ripeto: collaboriamo».

 



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