Formazione e immigrazione - di Massimiliano Fiorucci
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Formazione e immigrazione

di Massimiliano Fiorucci


La formazione interculturale è stata spesso indicata come via preferenziale all’integrazione della popolazione immigrata. Ciò è vero nella misura in cui tiene conto di almeno tre aspetti centrali: la qualità della formazione erogata, la “globalità dei bisogni” di cui sono portatori gli immigrati e i progetti migratori dei migranti e delle loro famiglie. “La formazione per chi emigra è sintesi di accoglienza e stabilizzazione. L’immigrato accetta di intraprendere un percorso formativo si per imparare a convivere nell’ambiguità della sua condizione sia per uscire da essa. Egli inizia un processo di reidentificazione linguistica, socio-culturale e professionale perché sa che non può sopportare più a lungo di vivere soltanto col “bene-rifugio” rappresentato dalla propria lingua, mentalità, operatività. L’immigrato cerca la sicurezza che i contenuti della formazione possono dargli (dalla prima alfabetizzazione alla formazione professionale)” (Demetrio, Favaro, 1992: 33). La formazione, tuttavia, non può da sola risolvere tutti i problemi di inserimento o di non inserimento dei migranti: l’esito dei percorsi di integrazione ha a che fare con le più complessive politiche di integrazione che un paese è disposto a mettere in atto.



La popolazione immigrata viene molto spesso percepita dalle istituzioni così come dall’opinione pubblica come portatrice unicamente di esigenze e di bisogni di tipo primario (vitto, alloggio, ecc.). Ciò rischia di proiettare o consolidare un’immagine fuorviata del soggetto migrante trascurando quasi completamente quelli che sono stati definiti come i “bisogni formativi e culturali”. In una ricerca ormai classica Francesco Susi ha mostrato che i bisogni formativi e culturali delle popolazioni immigrate non sono un “di più”, un lusso da riservare agli immigrati di cui si siano già soddisfatti i bisogni primari. Essi sono presenti in ogni fase dell’esperienza migratoria e ne condizionano lo sviluppo e gli esiti, a seconda delle risposte che ricevono (Susi, 19912). Oggi a distanza di circa quindici anni da quella ricerca alcune  cose sono cambiate e, tuttavia, l’indagine continua ad essere di stringente attualità. La ricerca, infatti, ha esaminato ed evidenziato i bisogni formativi e culturali degli immigrati residenti in Italia. Essi possono essere così sintetizzati:




  1. bisogno d’inserimento e superamento delle “barriere culturali” ma anche bisogno di conservare la propria cultura, farla conoscere, trasformarla in una risorsa superando la “mentalità del colonizzato” che spinge a dissimulare la propria identità;



  2. bisogno di conoscere la lingua italiana nei suoi diversi aspetti;



  3. bisogno si sentirsi soggetti attivi della vita economica e sociale del paese ospite;



  4. bisogno di conoscere la lingua italiana a differenti livelli di complessità, a secondategli grado di istruzione e delle necessità dei richiedenti;



  5. bisogno di accesso ai servizi e di sostegno per poterli utilizzare;



  6. bisogno d’informazione su tutto: sull’Italia e sulle possibilità e modalità dell’eventuale rientro nei paesi di origine (Susi, 1991: 103-105).


     Sono stati individuati con precisione, infine, i bisogni concernenti l’istruzione e la formazione:




  1. bisogno di vedere riconosciuti i propri titoli di studio e la propria professionalità;



  2. bisogno d’accesso a corsi di istruzione e formazione professionale che tengano conto delle caratteristiche e dei vincoli della domanda degli stranieri (per esempio, della loro disponibilità di tempo) e dei loro progetti di stabilizzazione e di rientro (Susi, 1991: 105).


Le esigenze assolutamente attuali della popolazione immigrata sono perciò relative al bisogno di inserimento sociale e professionale. Ciò significa che le politiche di integrazione – senza trascurare i bisogni primari (lavoro, vitto, alloggio) - debbono superare quell’approccio emergenziale che le ha caratterizzate per anni considerando l’immigrazione non come un fenomeno strutturale ma come un fenomeno contingente.

La formazione assumendo queste legittime richieste può diventare una via preferenziale per integrare i soggetti immigrati nel tessuto economico, sociale e culturale dei paesi ospitanti. Il rischio da evitare è quello di predisporre per gli immigrati una  formazione di serie B. “Bisogna imparare, invece, a riconoscere in ogni straniero – afferma Francesco Susi – una persona che reca con sé una storia e una memoria, che ha una cultura e una patria, un progetto di vita, delle competenze da valorizzare e delle cose da dire; che incontra problemi diversi e differentemente acuti a seconda del gruppo etnico, a seconda se è uomo o donna, ragazzo, giovane o anziano, a seconda del percorso migratorio, a seconda se dispone o meno del sostegno di una comunità; che non ha solo bisogni di vitto o alloggio, ma anche di comunicazione, di socialità, di affetto, di cultura. Si tratta di guardare i fatti diversamente da prima, di farsene una nuova rappresentazione e, dunque, di operare una ristrutturazione cognitiva che è lungi dall’essere compiuta. Essa è, però, indispensabile, se si vuole rinviare agli stranieri l’immagine nuova e diversa che si deve avere di loro” (Susi, 1991: 20).
Sui bisogni di socialità e di affettività si è soffermato anche lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun che nel suo libro L’estrema solitudine racconta con grande efficacia con grande durezza le sofferenze vissute da chi è costretto ad emigrare. L’estrema solitudine, infatti, è la condizione normale dell’immigrato. Attraverso interviste, incontri, storie e racconti riportati nel testo emergono i problemi di integrazione e di identità che si riflettono sul piano personale e sessuale. Lo scopo del suo lavoro era quello di raccontare non tanto la vita quotidiana e le sofferenze insite nello svolgere lavori duri, nocivi e mal retribuiti: in quei momenti, nonostante tutto, i soggetti si sentono in qualche modo riconosciuti. Il suo intento era quello di capire come vivevano gli immigrati durante il loro ‘tempo libero’ (la sera, la domenica). Come passavano questi momenti, con chi? E’ proprio in questi momenti che avanza ‘l’estrema solitudine’, l’assoluta assenza di relazioni affettive: tutto ciò si traduce in disagio psichico e in malattia e sofferenza psichica e fisica fino a tradursi in forme più o meno evidenti di impotenza sessuale. “L’immigrato, effettivamente, - spiega Tahar Ben Jelloun nella Prefazione al volume – è sempre stato percepito come una forza-lavoro, talvolta come un parassita per le società sviluppate. Raramente è stato considerato come un uomo, cioè come un essere con un’anima, con uno spirito, un cuore, delle emozioni, dei desideri e, perché no, anche ricco di fantasia e di senso dell’umorismo” (Ben Jelloun, 1999: 7). L’immigrazione si configura molto spesso – come ebbe a dire Jean Paul Sartre all’inizio degli anni Settanta – come “schiavitù dell’epoca moderna”. Ma in Francia come in Italia non arrivano solo delle “braccia”, arrivano uomini, soggetti, persone con i loro bisogni materiali, affettivi, culturali, ecc. “A questi uomini – continua Tahar Ben Jelloun – che vengono strappati alla loro terra, alla loro famiglia, alla loro cultura, viene richiesta soltanto la forza lavoro. Il resto non lo si vuol sapere. Il resto, è molto. Provate a valutare in un uomo il bisogno d’essere accettato, amato, riconosciuto; il bisogno di vivere nella dignità, il bisogno d’essere con i propri cari, nell’amore della terra, nell’amicizia del sole. [..] Il capitalismo vuole degli uomini anonimi (al limite, astratti), svuotati dei loro desideri, ma pieni della loro forza lavoro” (Ben Jelloun, 1999: 14 e 15). Il tentativo di Ben Jelloun è quello di dare voce all’umiliazione, al disagio e ai bisogni di tutti quei soggetti che, molto spesso, assistono i “nostri” anziani per i quali non abbiamo più tempo o raccolgono - di nascosto - i “nostri” pomodori lavorando in condizioni di vita e di salute che non riserveremmo nemmeno ai nostri animali da lavoro o da cortile (Medici Senza Frontiere – Missione Italia, 2005).
La negazione del diritto ad esprimere la propria ricchezza umana, la propria interiorità, la propria affettività si traduce, per conseguenza, in disagio e, spesso, in malattia.

Le iniziative di formazione rivolte agli immigrati residenti in Italia si caratterizzano soprattutto per la loro discontinuità. Nel suo secondo e ultimo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia la “Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati” sosteneva che per quanto riguarda la formazione professionale per gli immigrati nel corso degli anni Novanta vi sono state sostanzialmente tre fasi .

All’inizio degli anni Novanta – durante la prima fase – gli interventi di formazione professionale si caratterizzavano per la logica emergenziale da cui erano guidati. Dopo una seconda fase di sostanziale stasi, a metà degli anni Novanta, si è assistito ad una ripresa delle iniziative formative che si sono distinte per una maggiore attenzione alla qualità della formazione.

Ancora oggi, tuttavia, la situazione italiana presenta un quadro disorganico della formazione professionale per gli immigrati, caratterizzato da “mancanza di progettazione, frammentazione dell’offerta, discontinuità temporali, incertezze finanziarie. […] Fatica a dipanarsi anche una strategia di collaborazione e di intervento sinergico e coordinato. In generale, molto sembra lasciato alle iniziative dal basso e vi è scarsa interazione fra gli enti proponenti, tra questi e le pubbliche amministrazioni, e con il soggetto regionale, il quale non svolge un’azione strategica significativa di promozione e integrazione” (Zincone, 2001: 408). La formazione professionale per gli immigrati rimane “un segmento formativo marginale (anche in termini quantitativi), su cui pochi enti possono vantare una reale e consolidata competenza, e in merito al quale sembrano pesare le difficoltà di collaborazione tra i soggetti istituzionali competenti e la scarsa progettualità del soggetto pubblico” (Zincone, 2001: 408).
Vi sono, tuttavia, oltre ai problemi del sistema formativo nodi problematici legati ai modi in cui si realizza la formazione rivolta ad un’utenza straniera. Gli esperti che si occupano di queste tematiche concordano sul fatto che l’obiettivo a medio e lungo termine è quello di realizzare un programma di formazione comune che preveda attività e corsi cui possono accedere tanto gli autoctoni quanto gli immigrati. Gli immigrati, tuttavia, sono portatori anche di esigenze specifiche legate sia a problemi di natura culturale sia a problemi di natura socio-economica. Tali problemi, più o meno direttamente connessi con l’ambito della formazione, derivano da vari e complessi fattori e devono necessariamente essere tenuti in considerazione nella realizzazione e nella progettazione di qualsiasi iniziativa di formazione. Essi possono essere così sintetizzati:




  1. “la situazione di particolare svantaggio socio-economico che vive la maggioranza degli immigrati (problemi allogiativi e della condizione lavorativa, mancanza di diritto di cittadinanza, problemi con il permesso di soggiorno);



  2. la ghettizzazione della maggioranza degli immigrati nella fascia secondaria del mercato del lavoro, in cui non vi sono mestieri che richiedono una specifica formazione professionale;



  3. l’esigenza, avvertita dagli immigrati, di vedere riconosciuti i propri titoli di studio e di avere una formazione che possa essere di una qualche utilità anche in vista di un eventuale rientro nei paesi di origine;



  4. il problema della differenza linguistica; l’appartenenza a culture diverse rispetto a quella occidentale, nelle quali spesso vi è una visione molto differente del rapporto con l’insegnante, del rapporto con il mondo del lavoro e delle stesse pratiche di istruzione e di formazione” (Tagliavia, 2003-2004: 113).


Si tratta ovviamente di questioni molto differenti e che, tuttavia, influenzano fortemente tanto l’accesso alla formazione quanto gli esiti della stessa. Gli immigrati, infatti, abbandonano molto spesso le poche attività di formazione cui prendono parte perché impossibilitati a frequentare quei corsi che si svolgono in orari incompatibili con le loro esigenze lavorative. Molti di loro sono costretti a lavorare per tutta la giornata e risiedono in località periferiche lontane dai centri in cui si svolgono i corsi. La frequenza di un corso richiederebbe l’abbandono del proprio lavoro e ciò produrrebbe almeno due conseguenze nefaste: l’impossibilità di mantenersi, l’impossibilità di rimanere in Italia dove vige una legislazione che vincola indissolubilmente il permesso di soggiorno al contratto di lavoro. Agli immigrati è negata in radice la possibilità di migliorare o incrementare le proprie competenze professionali.

La questione del riconoscimento dei titoli di studio e della formazione pregressa degli immigrati è altrettanto importante. Essa, infatti, “ha un’influenza fortemente negativa su qualsiasi tipo di progetto formativo. Uno dei problemi più gravi generato dal mancato riconoscimento delle qualifiche conseguite nei paesi di origine è quello della cosiddetta formazione al ribasso. I corsi di formazione professionale per gli stranieri, infatti, nel panorama attuale, sembrano offrire opportunità di lavoro esclusivamente nei settori lavorativi ormai rifiutati dagli italiani, avviando i corsisti a mestieri – come l’operaio specializzato, il giardiniere, il pizzaiolo, il falegname – ritenuti poco interessanti o troppo faticosi dal punto di vista fisico dai giovani del nostro paese” (Tagliavia, 2003-2004: 116-117). Il problema vero consiste nel fatto che, spesso, i corsisti immigrati dispongono di livelli di istruzione anche molto elevati e di qualifiche superiori rispetto a quelle rilasciate dai corsi che frequentano. I loro saperi, le loro qualifiche e i loro titoli di studio non vengono tenuti in nessuna considerazione. Si tratta di una questione molto complessa perché implica uno studio attento e sistematico dei diversi sistemi di istruzione e formazione a livello mondiale e che tuttavia il nostro paese dovrebbe iniziare ad affrontare rapidamente. Trascurare completamente la formazione pregressa degli immigrati oltre a svalutare il potenziale di arricchimento economico e culturale del paese di destinazione, che non “utilizza” le competenze dell’immigrato, contribuisce a “svalutare” anche le persone stesse, che si vedono costrette a occupare posizioni lavorative più basse rispetto alle loro effettive capacità. Ciò produce devastanti conseguenze sul piano psicologico per i soggetti coinvolti.
Un’altra questione legata alla formazione professionale per immigrati è quella relativa al ruolo giocato dalle differenze linguistiche e culturali. E’ certamente opportuno far emergere tutti i problemi che potrebbero influire negativamente sui processi di apprendimento dei corsisti immigrati e fornire ad essi risposte puntuali ed efficaci in vista della predisposizione di percorsi formativi che coinvolgano tanto gli immigrati quanto gli autoctoni. Il rischio che si corre – in caso contrario - è quello di favorire una sorta di segregazione formativa che ostacolerebbe qualsiasi percorso di inserimento positivo. E, tuttavia, è importante offrire risposte particolari ai bisogni particolari di cui gli immigrati possono essere portatori. La formazione professionale, infatti, dovrebbe garantire a tutti coloro che vi prendono parte il possesso di competenze utili ad un possibile miglioramento della propria condizione personale e professionale. La formazione professionale rivolta agli immigrati dovrebbe, inoltre, incoraggiare i soggetti coinvolti ad esprimersi facendo emergere le proprie esigenze e i propri bisogni fino a diventare responsabili e protagonisti dei propri percorsi di formazione. Le associazioni e le comunità più radicate potrebbero svolgere in questa direzione un ruolo importante divenendo agenti di mediazione e di cambiamento attraverso azioni di sensibilizzazione sul territorio nel tentativo di raggiungere e di coinvolgere anche coloro che ne avrebbero più bisogno. I soggetti a rischio di esclusione sociale – tra cui gli immigrati - e quelli afflitti “dai bassi livelli di scolarità sono proprio quelli che meno utilizzano le opportunità loro offerte. I portatori di insuccessi scolastici, quanti hanno avuto le formazioni iniziali più corte (e cioè la gran massa dei lavoratori), quanti hanno utilizzato di meno le opportunità formative e culturali nella loro giovinezza sono gli stessi che meno le utilizzano da adulti. In poche parole, nell’ambito formativo, chi meno ha ricevuto meno chiede. Un nuovo bisogno e desiderio di apprendere non possono sorgere se non a condizione di una riappropriazione dei fini dell’apprendimento: si impara da adulti solo se le persone determinano gli obiettivi di un progetto, ricercando successivamente le conoscenze necessarie per poterli perseguire e raggiungere” (Meghnagi, Susi, 1995: 8).
Un progetto, quello degli immigrati, che può variare per forme, tempi e obiettivi –“assimilazione, integrazione e inserimento” - e che, tuttavia, interpella fortemente la società di accoglienza chiedendogli di garantire qualità alla formazione professionale. Qualità della formazione significa soprattutto mettere i soggetti che vi partecipano in condizione di esercitare attivamente il diritto di cittadinanza . Sarebbe auspicabile in altri termini un maggiore collegamento tra formazione generale e formazione professionale. Bisogna evitare la separazione esistente tra formazione teorica e lavoro. “E’ contro questa separazione che bisogna battersi, in tutte le sedi e in particolare nell’ambito della formazione professionale. Ridurre quest’ultima – come si fa spesso – a una polivalenza intesa come capacità di svolgere diversi compiti di cui nessuno è qualificante, oppure restringerla a una specializzazione limitata, puntuale, significa contrastare sia la crescita individuale sia l’interesse collettivo. La formazione professionale, al contrario, deve rendere l’operatore protagonista del suo lavoro quotidiano, renderlo capace, in altre parole, di svolgere il proprio mestiere con la massima autonomia possibile, modificandolo quando è necessario o conveniente. In queste condizioni, la formazione generale dovrebbe preparare ad una tale formazione professionale. Fornendo i mezzi per integrare fra loro una pluralità di conoscenze parziali e per stabilire dei legami tra esse, la formazione generale assume nei confronti del sapere lo stesso ruolo che la formazione professionale ha nei confronti del saper-fare: far acquisire più abilità e, nello stesso tempo, insegnare a stabilire i legami tra esse. La formazione professionale dovrebbe, inoltre, favorire la capacità di gestione dell’imprevisto, capacità indispensabile all’autonomia. Intese in questo modo, formazione generale e formazione professionale implicano la necessità di partire dalla persona e di ritornare alla persona, e cioè considerare prima di tutto il soggetto in formazione, il suo ambiente, la sua capacità di esprimersi, di situarsi in un contesto dato, di interrogarsi, di osservare, di immaginare, di valutarsi. Non credo assolutamente ad una formazione generale che pretenda, attraverso delle conoscenze indipendenti dalle situazioni concrete operative, di far acquisire la capacità di rispondere ai problemi posti da tali situazioni. Ogni dissociazione tra sapere e fare pregiudica sia il sapere, sia il fare. Solo una dinamica che assicuri una interazione tra loro sarà realmente formativa” (Schwartz, 1995: 226-227).


 


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  13. Tagliavia A., Il lavoro e la formazione degli immigrati nei processi di globalizzazione economica e culturale: la situazione italiana, Tesi di Laurea in Scienze dell’educazione, Facoltà di Scienze della Formazione, Università degli Studi Roma Tre, a.a. 2003-2004, Relatore Prof. M. Fiorucci.



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  15. Zanfrini L., Programmare per competere. I fabbisogni professionali delle imprese italiane e la politica di programmazione dei flussi migratori, Centro Studi Unioncamere e Fondazione Cariplo-Ismu, Franco Angeli, Milano 2001.




La Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, istituita con Dpcm 7 luglio 1998, ai sensi dell’art 46 del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (Decreto legislativo 15 luglio 1998, n. 286) e disattivata dalla Legge n. 189 del 30 luglio 2002 (Bossi-Fini), ha prodotto un Primo e un Secondo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia pubblicati dalla casa editrice Il Mulino di Bologna rispettivamente nel 2000 e nel 2001 e curati da Giovanna Zincone che allora presiedeva la Commissione.



Corrado Bonifazi, in un suo lavoro, ha tentato di meglio definire il significato dei tre termini utilizzati (assimilazione, integrazione e inserimento). “In altri termini, la piena integrazione nella società di arrivo rimane uno, ma non il solo, dei possibili esiti finali del percorso migratorio, perché non può essere dato per scontato che tutti gli immigrati siano interessati ad un trasferimento definitivo. Ciò rende ancora più difficile il compito delle società di arrivo, che diventa quello di contemperare a due esigenze opposte: impedire, da un lato, che le condizioni di oggettiva subalternità della gran parte degli attuali flussi migratori determinino una sostanziale emarginazione ed esclusione dei nuovi arrivati, evitando, dall’altro, di predisporre canali di inserimento eccessivamente stringenti e obbligati. L’obiettivo finale, tutt’altro che facilmente conseguibile, dovrebbe essere quello di realizzare per tutti condizioni simili a quelle che già oggi caratterizzano le migrazioni di alto livello, in cui è il singolo migrante a scegliere, in piena autonomia, il tipo di legame con il paese di immigrazione. […] In questo quadro, più che di integrazione sarebbe opportuno parlare di inserimento, come concetto più generale in grado di sottolineare l’articolazione delle possibilità che la società di arrivo struttura attorno al processo migratorio: dalla piena assimilazione, come frutto di una consapevole scelta individuale o di gruppo, all’integrazione, con il mantenimento di alcuni tratti dell’identità originaria, alla semplice presenza sul territorio di un altro paese, per scopi e tempi definiti con possibilità, se lo si desidera, di optare per scelte più definitive” (Bonifazi C., L’immigrazione straniera in Italia, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 244-245).


http://rivista.edaforum.it/numero8/monografico_fiorucci.html



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